giovedì 28 febbraio 2013

DIETRO LA PORTA di Paolo Secondini

                                                           



Ogni notte, sentendo mia sorella Dalina rientrare nel nostro appartamento, mi alzavo dal letto e, camminando in punta di piedi per non far rumore, percorrevo lo stretto corridoio che dalla mia stanza portava alla sua. Raggiunta la porta di quest’ultima, aprivo pian piano uno spiraglio, quel tanto che bastava a cacciare lo sguardo all’interno.
Come sempre restavo in silenzio, immobile, quasi col fiato sospeso, a spiare Dalina che si svestiva lentamente, con gesti abituali, in una luce soffusa.
Prima di tutto si toglieva le scarpe, che riponeva appaiate sotto la sedia ai piedi del letto. Poi si avvicinava alla parete di destra, si levava il cappello (ne aveva parecchi nell’armadio; ogni volta che usciva, ne indossava uno diverso). Lo posava, dopo averlo un po’ spolverato con le dita, sul ripiano di marmo della toilette. Infine – ed era ciò che attendevo con grande impazienza – si accingeva a sfilarsi il soprabito.
Fa’ presto!  Fa’ presto! la incitavo col pensiero. Ti prego, Dalina!... Fa’ presto!
Riuscivo a stento a trattenere un mugugno e un fremito di eccitazione. In nessun modo volevo che lei si accorgesse che la spiavo da dietro la porta. Sarebbe stato imbarazzante, soprattutto per me.
Dopo un po’ Dalina si toglieva il soprabito.
La vista della sua camicetta e della sua gonna sporche di sangue mi turbava profondamente.
Il mio sguardo subito andava al volto grazioso di mia sorella. La vedevo osservare le macchie di un rosso  intenso che, a tratti, toccava, premendole, col palmo della mano. In quell’istante pareva che un senso di piacere invadesse ogni fibra del suo essere, che una vivida luce irradiasse dai suoi occhi.
«Oh!… Oh!… Oh!…» sospirava con voluttà. «Oh, gioia! Oh, meraviglia! Oh, momenti inebrianti!... Li proverò di nuovo domani… Domani!... Domani!»
Sembrava godere anche allora, al ricordo di ciò che aveva vissuto quella notte.
Prima che lei continuasse a spogliarsi, riaccostavo la porta allo stipite e, in silenzio, con il cuore in subbuglio, tornavo nella mia stanza, rasentando nel buio le pareti dello stretto corridoio.
Mi coricavo di nuovo sul letto, facendo attenzione a non farlo cigolare.
Supino, le braccia incrociate sotto la nuca, restavo a fissare nel buio il soffitto della mia stanza. Per molti minuti, prima di cedere al sonno, pregustavo il momento in cui  – come Dalina  – mi sarei anch’io aggirato di notte nelle strade della città in cerca di uomini o donne, per succhiarne avidamente il sangue fino all’ultima goccia, dopo avere affondato i denti nel loro collo.
Ero ancora un giovane vampiro piuttosto inesperto: sarebbe dovuto trascorrere qualche decennio prima che fossi stato capace di procurarmi il sangue da solo. Potevo aspettare. Non c’era fretta. Di tempo ne avevo abbastanza: praticamente era inestinguibile. 




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