domenica 21 aprile 2013

VENDETTA di Paolo Secondini





In un grande palazzo avito, verso la fine del XVII secolo, il nobile signore Gherardo Dasseni, comodamente seduto in una poltrona vicino al camino della sala, osservava in silenzio la sua unica figlia, Adelasia, che ricamava accanto a lui.
Era una ragazza ventenne, bionda, graziosa, che il padre voleva maritare il prima possibile, sperando, ovviamente, in un buon partito.
Nella sala, piuttosto in penombra, non si udivano altri rumori oltre al crepitare dei ciocchi accesi, che diffondevano attorno un piacevole calore.
«È meglio per te se ti levi dalla testa quel mascalzone!» gridò d’un tratto Gherardo facendo sobbalzare la figlia. «Un uomo senz’arte né parte dovrebbe sparire dalla faccia della terra.»
«Ma io… io l’amo, padre,» azzardò la ragazza alzando la testa dal ricamo.
«Tu amare uno sciocco perditempo, un vagabondo, uno squattrinato?» sbraitò Gherardo schiumante di rabbia. La sua voce risuonò cupamente nell’alto soffitto della sala. Poi l’uomo parve calmarsi. Con voce meno aggressiva: «Io credo, figlia mia, che ti abbia dato di volta il cervello…»
«Ma, padre… io… io…»
«Tu niente! Farai ciò che ti dico, se non vuoi essere diseredata.»
Ma Gherardo Dasseni era sicuro che quella minaccia, da sola, non sarebbe bastata a indurre  Adelasia a cambiare idea. Era troppo innamorata di quel miserabile Enrico Tomei.
Che fare?
La soluzione più ovvia gli parve quella di toglierlo di mezzo una volta per sempre. Non di persona, ovviamente. Sarebbe stato troppo rischioso e compromettente. Bastava assoldare qualche bravaccio che, per un bel gruzzoletto di denaro, avrebbe volentieri svolto quel lavoro.
Così fu, infatti.
Una notte, il povero Enrico Tomei fu trafitto alla schiena dalla lama di una spada. Le ultime parole che egli sentì, prima di morire, furono le seguenti:
«Questo da parte del nobile Dasseni, che spera tu vada dritto all’Inferno.»
Ma a essere ucciso, poco dopo, fu anche lo stesso Gherardo il quale, spilorcio com’era, si rifiutò di dare al bravaccio tutta la somma di denaro che era stata pattuita.

* * *

Il caso volle che le tombe dei due assassinati venissero a trovarsi l’una vicino all’altra, nel vecchio cimitero del paese.
E avvenne che, nottetempo, mentre intorno regnava il silenzio più assoluto, dal terreno dov’era sepolto il Tomei venne fuori una mano, poi l’altra, poi la testa, infine il corpo.
 Con un’espressione crudele sul volto, il cadavere  s’inginocchiò vicino alla tomba di Gherardo Dasseni e si diede, furiosamente, a scavare la terra con le unghie, finché non raggiunse la bara del nobile signore.
L’aprì e, con morsi furenti, bestiali, fece scempio del corpo in essa contenuto. Quindi, soddisfatto, se ne tornò nella sua tomba, deciso ogni notte a uscirne per cibarsi del cadavere del nobile signore, fino a quando non fossero rimaste che le ossa.

1 commento:

  1. In un'atmosfera secentesca, ritratta con sicure ed efficaci pennellate, prende forma l'elemento horror: una specie di nemesi, il cui protagonista sta a mezza strada tra il fantasma e lo zombie. Direi che il racconto è impressionante proprio per il suo stile asciutto e incisivo, come se fosse una cronaca dell'epoca. L'orrifico, dato quasi per scontato, mette, proprio per questo, i brividi. Racconto riuscito, bello e coinvolgente.

    Giuseppe Novellino

    RispondiElimina