martedì 19 gennaio 2016

LA CONDANNA di Fabio Calabrese

Mi trovo in uno spiazzo assolato e polveroso. La luminosità improvvisa minduce a sbattere le palpebre. Sono sul ciglio di una strada, una strada bianca non asfaltata, una striscia di polvere giallo rossastra che comincia nel nulla e si perde nel nulla solcando un piatto paesaggio color ocra quasi privo di vegetazione tranne che per un paio di cactus e qualche cespuglio spinoso e rinsecchito.
Affacciate sulla strada, molto diradate, ci sono alcune casupole malmesse, praticamente delle rovine.
Mi guardo intorno incerto sul da farsi, quando sento un rombo di motori in avvicinamento.
Tutta un tratto li vedo comparire come sputati dal deserto, una carovana di veicoli che si avvicina rapidamente. I più sono vecchie auto scassate, ma filano come diavoli.
Mi guardo intorno in cerca di un riparo, inutilmente.
Mi metto a correre verso la bicocca più vicina che, lo so, è dannatamente lontana.
Non sono passati che pochi secondi, che sento le prime raffiche di pallottole fischiarmi alle spalle.
Ma chi, mi chiedo, ha dato a quel gruppo di scalmanati un nome lezioso come Sugarland Express?
Mentre corro a zigzag per evitare le pallottole, riesco ad intravederli: sono uomini e donne a bordo di vecchie auto. Vestiti con abiti stracciati e variopinti, che impugnano un assortimento di armi da fuoco del genere più svariato: pistole, vecchi fucili da caccia, mitragliette.
Sapevo già in partenza che la mia corsa era inutile: svariate pallottole mi colpiscono alle gambe, alle cosce, alla schiena, e fanno male, fanno male!
Il dolore mi esplode intenso in ogni parte del corpo. Sussulto e mi accascio al suolo.
Quando mi riprendo, mi sollevo a fatica, stupito di non trovarmi tracce di sangue addosso.
Adesso il paesaggio è cambiato, sono le rovine di una città, queste: carcasse di automobili, mozziconi di muri, una distesa di rovine e di rottami come di una città su cui qualcosa fosse passato con unenorme furia devastatrice.
Ad un tratto lo vedo sbucare allorizzonte, parzialmente nascosto da uno scheletro di grattacielo per alcuni momenti: è una cosa enorme, una macchina aliena, qualcosa che trasmette la sensazione di non essere stato creato da esseri umani, un tripode marziano che avanza pesantemente facendo crollare con il suo urto e schiacciando i brandelli di muro ancora in piedi.
Corro a rannicchiarmi tra le rovine nella speranza irragionevole di non essere stato notato. 
Naturalmente è inutile: quello continua a puntare dritto su di me, guidato da un senso che non è la vista, forse un senso termico, un rilevatore a infrarossi. Allora esco dal mio nascondiglio e mi metto a correre.
Il tripode sembra goffo, una massa di acciaio torpido, ma le sue dimensioni gli permettono di compiere falcate enormi con ciascuna delle sue tre lunghissime gambe; oltre tutto, si muove come se il paesaggio fosse completamente sgombro, calpestando e riducendo in polvere ogni ostacolo al suo passaggio.
Non potendo batterlo in velocità, di nuovo fuggo zigzagando fra le rovine. È inutile, la macchina mostruosa si fa di secondo in secondo più vicina.
Ricordo con un moto dironia che questa sezione è chiamata La guerra dei mondi. Se davvero una guerra è stata combattuta contro affari del genere, non deve aver avuto storia.
Pochi secondi ancora, e il tripode mi è addosso, una delle sue enormi zampe cala su di me con tutto il suo peso, mi schiaccia. Il dolore è atroce in ogni fibra del mio essere. Prima di essere ridotto in poltiglia, ho ancora il tempo di gustarmi lo strazio e lurlo di dolore di ogni cellula del mio corpo torturato. Se avessi voluto sapere cosa prova un insetto quando viene calpestato, potrei dire di essermi tolto la soddisfazione.
Quando mi riprendo, non sono più piatto di prima dellincontro con il tripode. Lambiente è di nuovo cambiato: sono sempre rovine urbane quelle che mi circondano, ma appaiono meno distrutte e disastrate di prima, siamo in un luogo diverso, forse unepoca diversa: le strade sono più strette, le case, o quel che ne resta, più addossate le une alle altre. Ci sono molti muri in piedi con i vani delle finestre che occhieggiano come le occhiaie vuote di un teschio che fissano il nulla. Soprattutto è diversa latmosfera, grigia, opprimente, che comunica un senso di soffocamento.
Istintivamente mi guardo le mani: sono diventate anchesse di un grigio plumbeo, qui attorno non c’è proprio nulla che abbia colore.
Mi sposto nel silenzio innaturale. C’è un oggetto che attira la mia attenzione nel grigio, nellassenza totale di colore che mi circonda: una macchia rossa. Mi avvicino e lo raccolgo in mano: si tratta di un cappottino da bambina abbandonato.
Dun tratto una reminiscenza mi sale alla mente: questa devessere la sezione Schindlers List.
Sono trascorsi ancora pochi secondi quando sento un rumore di passi cadenzati; militari che marciano in formazione. Cerco di allontanarmi senza fare rumore. Odo una voce concitata che dà ordini secchi in una lingua che non riesco a capire.
Cammino in silenzio, rasente ai muri delle case, tentando di allontanarmi senza essere visto e senza fare rumore.
Ad una svolta da dietro langolo di una casa, me li trovo quasi addosso. C’è più di una pattuglia, a quanto pare, stanno meticolosamente rastrellando tutta la zona: uomini in divisa nera con un teschio dargento sul berretto.
Il graduato in testa alla colonna mi intima seccamente: «Halt!»
Non ci penso nemmeno, mi giro sui tacchi e me la do a gambe con quanta energia ho in corpo.
Il graduato ordina: «Feuer!»
Anche se non conosco la lingua, il significato mi pare fin troppo chiaro. Corro allimpazzata con il cuore che sembra volermi scoppiare nella cassa toracica mentre le pallottole mi fischiano tutto attorno.
Ho commesso un errore, vado a sbattere quasi addosso a quelli dellaltra pattuglia che sono accorsi attirati dagli spari. Mi trovo tra due fuochi senza nessuna possibilità di fuggire, di nascondermi, di ripararmi in qualche modo.
Le pallottole cominciano a piovermi addosso da una parte e dallaltra, colpiscono la carne e fanno male, fanno male, spappolano ossa e tessuti, il dolore sale ad unintensità atroce mentre perdo di nuovo conoscenza.
Mi rianimo che sto già correndo. Limpressione che ho, è che sia stato proprio lo sforzo muscolare che il mio corpo compiva già in automatico, a svegliarmi.
Mi trovo in una specie di cunicolo di roccia, una sorta di galleria rovesciata, con la volta sotto i miei piedi invece che in alto, un liscio cunicolo privo di asperità con le pareti che arrivano sopra la mia testa, impossibili comunque da scavalcare. Al disopra vedo fuggevolmente noto tutto questo senza interrompere la corsa i rami di palma e le liane di una giungla tropicale. Non perdo nemmeno un istante per voltarmi a guardare cosa c’è alle mie spalle, lo so fin troppo bene ed il rumore mi avverte che si avvicina di frazione di secondo in frazione di secondo: un macigno sferico perfettamente levigato che rotola dietro di me, una gigantesca biglia di roccia che mi ricorda in tutto tranne che nelle dimensioni la pallina di un flipper.
Rotolando acquista sempre più velocità nel tunnel in discesa, mentre io la perdo stancandomi. Ormai lo conosco, è quasi un rito, il benvenuto nella sezione Indiana Jones. Ancora pochi attimi e linevitabile accade: la grande biglia di pietra mi raggiunge e mi passa addosso: sono tonnellate di roccia. In un attimo atroce di dolore indicibile, ho per la seconda volta nella giornata lesperienza di quello che prova un insetto schiacciato sotto il tacco di un uomo.
Ancora una volta, quando londata di dolore atroce e la perdita di coscienza passano, sono stupito di trovarmi in un corpo illeso.
C’è della luce che piove dallalto, unapertura in una sorta di soffitto molto lontano parecchi metri sopra di me. Sono in un ambiente chiuso od in un grande edificio senza porte e senza finestre con lunica luce che proviene dallapertura lassù in alto, oppure allinterno di un ipogeo, unenorme caverna o una galleria, magari una gigantesca tomba monumentale.
Tra il soffitto in alto ed il pavimento sul quale poggio i piedi, intravedo delle gigantesche colonne. Per un po resto in attesa: qui è tutto silenzioso e sembra non debba accadere niente, poi sento un fruscio ai miei piedi. Li intravedo confusamente nella luce incerta, ma non ho dubbi: serpenti, centinaia di serpenti di tutte le dimensioni, alcuni piccoli, altri lunghi un metro e spessi come il mio braccio, il pavimento dellipogeo ne è letteralmente tappezzato, e si dirigono verso di me, forse attratti dal mio calore corporeo.
Guardo la colonna più vicina a me: è liscia, praticamente non offre appigli, ma è lunica via di scampo.
 Adesso mi ricordo che questa sotto sezione della sezione Indiana Jones è chiamata Larca perduta; mah, se io avessi perduto qualsiasi cosa, per quanto valore potesse avere, non mi metterei di certo a cercarla qui.
Tento di arrampicarmi sulla colonna. Fosse almeno più sottile, si potrebbe salire come una pertica da palestra, ma fatico a cingerla con le braccia.
 Riesco ad alzarmi al disopra del livello del suolo forse di un metro, un metro e mezzo, non di più. I serpenti sono arrampicatori più bravi di me, anche se non capisco dove trovino appigli per le loro maledette spire.
 Rifletto che il morso di un serpente non può essere più doloroso delle pallottole o di un macigno che ti schiaccia, ma questi piccoli mostri (alcuni non sono tanto piccoli) aggiungono un elemento in più: la ripugnanza.
 Quelle dannate bestie si arrampicano con più velocità di quanto io riesca ad issarmi sulla colonna. In pochi istanti arrivano a lambirmi i piedi. Una grossa biscia mi sfiora la suola, e subito sotto di essa è un brulicare di teste triangolari. Biscia? Mi sembra un anaconda od almeno un pitone.
 Non riesco più a salire. Una, due, tre spire serpentine mi si attorcigliano attorno alle caviglie, e dietro la prima bestia altre mi salgono sulle gambe.
 Presto sono avvolto da centinaia di spire gelide. La pelle scagliosa di queste dannate bestie non è viscida, peggio, è ruvida come zigrino.
 Poi con sorprendente simultaneità, quei piccoli demoni cominciano a mordere. Veleno a parte, è difficile credere che quelle piccole bocche con denti sottili simili ad aghi, possano infliggere morsi tanto dolorosi.
 Il dolore sale progressivamente dintensità, diventando unonda pulsante, mentre sento il mio corpo gonfiarsi sotto leffetto del veleno dinnumerevoli rettili. Per un tempo che mi sembra uneternità, sono una vescica pulsante di sofferenza, fino a quando perdo conoscenza in un ultimo, doloroso spasimo.
 Allimprovviso, sono di nuovo padrone di me stesso, libero di muovermi. Sono sempre in un sotterraneo, ma più buio, più umido. Tendendo le braccia davanti a me, poiché adesso non riesco a vedere nulla, trovo il vuoto, la grande colonna a cui mi ero abbracciato per sfuggire ai serpenti, è scomparsa.
 Sempre procedendo al buio, cerco di avanzare qualche passo con le braccia tese in avanti. C’è qualcosa che scricchiola sotto le mie suole. Faccio qualche altro passo e non ho più dubbi; come mi muovo in qualsiasi direzione, schiaccio qualcosa.
Adesso che i miei occhi si sono abituati, incomincio ad intravedere una vaghissima penombra, qualche sprazzo di una specie di luminosità grigiastra che mi permette appena di avere una percezione vaga di ciò che mi circonda. Lambiente è molto più ridotto di quello in cui mi trovavo prima, riesco appena ad intravedere degli spezzoni di muro che mi sembrano corrosi e smozzicati, o forse sono delle stalagmiti enormi e tozze che salgono dal pavimento di questa specie di buia cripta.
Man mano che avanzo, noto che c’è qualcosa che ostacola i miei movimenti, qualcosa che fa massa attorno ai miei piedi e alle mie caviglie e riesco a spostare con sempre maggiore difficoltà.
Nel chiarore incerto, mi pare di distinguere di essere arrivato ad un brandello di muro e, in modo quasi istintivo, cerco di sfiorarlo con le braccia protese in avanti.
Con un modo istintivo di disgusto, le ritraggo indietro quasi di scatto: le mie mani hanno incontrato qualcosa di viscido, di viscido e gommoso, qualcosa dal corpo segmentato che si muoveva a scatti, una grossa scolopendra, direi.
Ad un tratto capisco dove mi trovo, urlerei dalla nausea e dal disgusto se servisse a qualcosa: questa è sempre la sezione Indiana Jones, sotto-sezione Il tempio maledetto. Non so se questo luogo sia mai stato davvero un tempio, ma maledetto lo è di certo, e capisco cos’è che mi si sta ammassando attorno alle caviglie ed ai polpacci: insetti. Sono così tanti che non riesco più a muovere le gambe. Allimprovviso sento qualcosa che mi arriva sulla testa. Piovono dallalto come una cascata, come una repellente doccia di materia organica, di vita nauseabonda.
Sento migliaia di zampette chitinose e di addomi flaccidi che mi toccano in ogni parte del corpo, non mordono e non pungono, forse avranno mandibole e pungiglioni, ma a differenza dei serpenti dellArca perduta, non ne fanno uso, e questo in un certo senso è ancora peggio.
Ormai sono letteralmente conficcato in questa repellente massa viva che si accatasta sempre di più, non arrivo a muovere le gambe, poi nemmeno il bacino e il busto, adesso più nemmeno le braccia, e faccio fatica a respirare mentre la montagna di carne viva e disgustosa sale sempre di più attorno a me.
Sebbene mi senta soffocare, mentre la marea dinsetti, lombrichi, scolopendre, millepiedi mi sale fino al collo, mi sforzo di non urlare, di reprimere listinto che spinge a spalancare la bocca quando ci si sente soffocare, perché non voglio trovarmi in gola quelle schifose creature.
E senzaltro vero quel che si dice, che la morte per soffocamento sia una delle più orribili che esistano, qualcosa contro cui si batte tutto il tuo essere. Resisto fino a che posso, cercando di respirare solo con le narici la poca aria disponibile, anche se mi sembra che pure dentro le narici comincino ad infilarsi alcuni piccoli insetti, forse formiche. Mi trattengo fino a che non ne posso più, poi spalanco la bocca in un ultimo frenetico tentativo di respirare, con il risultato di trovarmi la gola piena di un orrendo boccone dinsetti.
Soffoco, per un lungo, interminabile istante esperimento tutto lorrore dellasfissia, poi svengo di nuovo. Quando mi riprendo sono ancora in un sotterraneo, ma ancora una volta diverso. C’è luce, riesco a vedere dove metto i piedi, e non ci sono insetti. In compenso, fa freddo, un freddo dannato che mi fa battere i denti e scendere brividi lungo la schiena, in più è anche maledettamente umido, c’è umidità gocciolante dappertutto, pare di essere in una caverna sotto il fondo di un lago, o magari fra le fondamenta corrose di qualche antico porto, e soprattutto c’è fetore, un tanfo disgustoso di morte e di decomposizione.
Propendo per il fatto di trovarmi in un ambiente marino: sebbene si distingua molto a fatica, infatti, c’è un certo sentore di salsedine che si mescola al lezzo di cose decomposte che impregna questo luogo. Magari sono finito in una cloaca là dove liquami organici di dubbia provenienza si scaricano in mare.
Cammino in avanti nella luminosità incerta fino a quando intravedo; per essere sincero, me ne accorgo quando vado a sbattere il ginocchio contro lo spigolo di uno di essi, degli oggetti oblunghi di forma e dimensioni che li rendono inconfondibili: non c’è dubbio, sono delle sepolture, degli avelli, dei sarcofagi, mi trovo in un cimitero, o più probabilmente in qualche cripta sotterranea sotto qualche chiesa in una località marina.
 La memoria mi torna di colpo: mi trovo sempre nella sezione Indiana Jones, nella sotto sezione Lultima crociata (ma chi diavolo avrà inventato questi nomi pittoreschi?). So già quello che mi sta per accadere, e non mi piace per nulla!
 Sento un debole scalpiccio avvicinarsi nella mia direzione: piccoli piedi veloci e felpati. Altri scalpiccii, quasi echi del primo, convergono a raggiera verso di me, so già di cosa si tratta ancor prima dintravedere le sagome basse ed allungate che scorrazzano nella penombra: topi, dapprima una dozzina, poi centinaia che corrono famelici verso di me. Maledicendo il mio animale istinto di sopravvivenza che minduce a prolungare quella che è solo uninutile agonia, salto sul coperchio di un sarcofago, che in pochi istanti diventa una specie di isola circondata da un mare di schiene dal pelo bruno.
Naturalmente, non ho guadagnato che qualche istante, forse un secondo, forse meno; i topi cominciano a loro volta a saltare sul sarcofago.
Comincio a ributtarli indietro a calci, centro il primo con una pedata, poi un altro, un altro ancora, poi sento gli incisivi di un roditore piantarmisi nella caviglia.
Le bestiacce saltano a gruppi sulla lastra di pietra, e non riesco a tenerle indietro anche se scalcio e mi divincolo come un forsennato, sono tanti, tanti. Come hanno fatto i serpenti e poi gli insetti, mi risalgono a frotte su per le gambe e poi per il busto, fino a che non riesco più a muovermi, e mordono, mordono. Lentamente, ancora una volta, il dolore di sentire il mio corpo dilaniato da centinaia di minuscoli denti a scalpello cresce dintensità fino ad un parossismo insopportabile. Non so quanto tempo dura realmente questa tortura, ma a me sembra unagonia interminabile.
E quasi peggio che morire soffocati sentire il proprio corpo strappato via brandello per brandello. Il dolore delle carni lacerate sale poco per volta ad unintensità parossistica. E solo dopo unaltra, atroce, interminabile agonia, che finalmente perdo di nuovo conoscenza.
Quando rinvengo, l'ambiente è di nuovo radicalmente cambiato. Questa volta sono in pieno sole e fa caldo, un caldo terrificante. Dopo il gelido sotterraneo di poco fa, lo shock termico è fortissimo. Ho l'impressione di essere sul punto di ripiombare nuovamente nell'incoscienza, ma invece rimango sveglio e lucido.
Apro gli occhi e mi guardo lentamente in giro. A quanto posso vedere, il mio corpo è sempre lo stesso: non ci sono né morsi di serpente né punture d'insetto e nemmeno morsi di topo. A proposito d'insetti, ne sento ronzare molti intorno a me, ma ho l'impressione che stavolta il pericolo non verrà da loro.
Mi guardo intorno: c'è una vegetazione lussureggiante, la si potrebbe definire una giungla se le piante non fossero tutte piuttosto basse. Vedo che la maggior parte sono felci di svariate dimensioni, alcune gigantesche, poi ci sono delle conifere dai rami stranamente contorti, delle araucarie, credo, e quella specie di asparagi formato gigante dovrebbero essere degli equiseti. Un brivido mi corre per la schiena, so dove mi trovo: non ci sono latifoglie, piante da fiore, questo è un paesaggio giurassico. Sono arrivato nella stramaledettissima sezione Jurassic Park.
D'un tratto, prima ancora di scorgerlo, avverto le vibrazioni che i suoi passi poderosi imprimono al terreno, ed intravedo come un'ombra grigia che ingigantisce rapidamente, la mostruosa figura che avanza verso di me puntando imperterrita proprio nella mia direzione: una massa di ossa, muscoli scattanti, zanne affilate come pugnali, fame e bramosia sanguinaria, un tirannosauro rex.
 Fuggire non avrebbe alcun senso, quel mostro è in grado di raggiungere la velocità di sessanta chilometri orari. Mi dovrei nascondere da qualche parte, ma dove?
Mi tuffo senza convinzione in una macchia di felci particolarmente fitte, sperando senza troppa convinzione che il gigantesco predatore non mi abbia notato.
In pochi attimi il tirannosauro è qui, dovunque sia questo dannato qui, ed è incredibile quanto possa essere veloce una bestia di questa mole. Vedo il muso gigantesco che sfiora la vegetazione. Ha fiutato la mia pista e mi sta cercando?
Mi ritrovo la sua bocca che mi sfiora quasi, mentre sono protetto solo da un lieve strato di rami di felce. Sto guardando il più possente predatore che sia mai esistito, con i suoi occhietti rossicci da rettile nei quali mi pare di leggere una ferocia atavica, e una chiostra di denti simili a stalattiti ed affilati come pugnali a pochi centimetri dalla mia faccia.
Si dice che il Tirannosaurus rex abbia uno dei migliori olfatti fra tutte le creature di questo pianeta, ma io mi domando come faccia ad avvertire un qualsiasi altro odore che non sia quello del suo fiato pestilenziale, un agghiacciante fetore di morte e decomposizione. Probabilmente negli interstizi alla base di quelle terrificanti zanne che passano così vicine alla mia faccia da farmi gelare il sangue, ci sono i residui putrescenti dei suoi precedenti pasti.
Improvvisamente l'orripilante creatura alza la testa come annusando il vento per cercare la pista, poi si rizza completamente sulle enormi zampe posteriori e si guarda in giro.
Non deve avermi visto né fiutato, devo aver avuto una fortuna sfacciata se è vero quel che ho sentito dire dei sensi di questi esseri terrificanti.
Si allontana a grandi passi pesanti che ogni volta fanno tremare il terreno.
Faccio appena in tempo ad emettere un sospiro di sollievo, quando mi accorgo che le grandi macchie di felci sono piene di squittii, di versi che sono stranamente a metà fra il cinguettio degli uccelli e lo squittio di certi piccoli mammiferi. Il sottobosco è anche pieno di fruscii che si avvicinano a me da tutte le direzioni.
Non faccio in tempo ad alzarmi, che una piccola figura uscita dalle fronde delle felci mi salta addosso.
Tento di rimettermi in piedi, ma quello non mi molla, si è piantato sul mio petto con gli artigli delle zampe posteriori, che sono dannatamente aguzzi.
Subito, cinguettando allegramente, un'altra piccola creatura mi salta sulle spalle, sono dei procompsognatus, degli stramaledettissimi compy.
Questi maledetti sono animali da branco, come i topi che ho incontrato nel fetido sotterraneo dell'Ultima crociata, ed hanno le stesse intenzioni di quegli schifosi roditori. Da solo, uno di loro non sarebbe molto pericoloso, ma sono tanti, tanti, tanti, sono i ratti di fogna del giurassico.
Adesso capisco l'errore che ho commesso: avrei dovuto aspettare il tirannosauro a pie' fermo e lasciarmi sbranare da lui, sarebbe stata una morte più rapida, meno dolorosa. E' chiaro che chi ha programmato tutto questo si sta prendendo gioco di me.
Mi saltano addosso in tanti, ficcandomi le loro unghie affilate nelle carni, fino a ricoprirmi completamente ed impedirmi di muovermi, poi, come ad un segnale convenuto, cominciano a mordere. Di nuovo un'altra agonia di dolore crescente, parossistico mentre le mie carni vengono lacerate brano a brano da quelle piccole creature. Un'altra agonia interminabile. Di nuovo il dolore sale fino ad un acme insopportabile, poi sprofondo nell'incoscienza.
Lentamente ritorno in me. Sono nella penombra, in posizione distesa.
Guardo quasi con sollievo le grigie pareti che ormai, giorno dopo giorno, mi sono divenute così familiari. Si, non c'è dubbio, sono nella mia cella, ed a giudicare dall'incerta luminosità, dovemmo essere nelle ore serali.
Per oggi il trattamento è finito. Sul mio corpo non c'è alcun segno della spaventosa giornata che ho trascorso, spaventosamente simile a tutte quelle che l'hanno preceduta da moltissimo tempo in qua, ed a tutte quelle che la seguiranno in un incerto avvenire, presumibilmente fino al termine della mia esistenza, ma i segni, le piaghe aperte che non si vedono nel corpo rimangono nell'anima, aggravate dalla consapevolezza, che è come sale sulle ferite, che non posso fare nulla per sottrarmi a questo destino.
Domani, domani mi rinchiuderanno di nuovo in quell'armatura che è una sofisticata evoluzione del guanto e del casco che si usavano nei primi tempi per immergersi nella realtà virtuale, e vedrò, sentirò, toccherò esattamente quello che i miei aguzzini hanno programmato per me, patirò di nuovo tutta la sofferenza che vogliono infliggermi; una raffinatezza della tecnologia che però, per certi versi, ricorda tanto l'antica Vergine di Norimberga, il sarcofago chiodato.
Ma ora, ma ora mi godo il momentaneo sollievo. Tra poco il carceriere Schiller verrà a passare il vassoio con quella sbobba che danno per cena nell'apposito spioncino dell'inferriata. Oh, mi vogliono sano e ben nutrito, vogliono tenermi con loro molto a lungo.
Immagino che ogni sistema che vuole impedire ai propri cittadini di pensare liberamente, abbia bisogno di posti come questo, come esempio da far gelare il sangue nelle vene ai più audaci. E' strano, sono sicuro che nel XIX secolo la realtà virtuale non esisteva, che non c'erano nemmeno i computer più primitivi, eppure un patriota italiano dell'epoca, Silvio Pellico, lasciò un racconto della sua detenzione in questo carcere che commosse il mondo intero, un luogo con un nome da far tremare le vene e i polsi, lo Spielberg.  
       
 

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