domenica 28 febbraio 2016

FILM: LA STRADA PER SHANGRI-LA di Peppe Murro

Fermava quanti passavano per strada ed a tutti diceva: Conosco la strada per Shangri-La; chi vuol venire con me?
I più compassionevoli pensavano che era matto e con un sorriso di convenienza andavano oltre, ma lui insisteva ed ogni giorno ripeteva con un sorriso la stessa domanda, con un sorriso chiedeva la stessa compagnia.
Passavano gli anni e le stagioni e chiedeva sempre, con capelli più radi e sempre più bianchi: ma la voce non tremava... Conosco la strada per Shangri-La...
E un giorno incontrò qualcuno che si fermò, ascoltando con occhi attenti e lucidi... Davvero  mi  ci porteresti?
Con un sorriso aperto tese la mano, la strinse forte e disse ridendo... Vieni, è lì, alla fine della strada, dove il sole si struscia sui monti... andiamo.
E lei lo guardò, strinse anche lei più forte quella mano, ridendo con gli occhi a quegli occhi... sapeva che sì, era quella la strada, e mentre le loro ombre si fondevano ridendo, seppe che portava dove i battiti improvvisi del cuore incontrano la felicità.
Poi comparve THE END e si riaccesero le luci.
Come in ogni storia, ogni vita.  
 

sabato 20 febbraio 2016

GLI OSCURI di Teresa Regna

‘È giunto il momento che attendevamo’.
‘Tutte le creature dotate di intelligenza con DNA basato su carbonio, silicio o metano si sono estinte’.
‘Rimangono soltanto i robot autoriproducenti e le sonde’.
‘Si estingueranno anche loro, tra non molto’.
‘Potrebbero tentare di contrastarci’.
‘Non ci riusciranno: costituiamo ancora un mistero per tutti gli esseri dotati di intelligenza, sia naturale che artificiale’.
‘Oscuri di nome e di fatto’.
‘Eppure siamo gli unici in grado di decidere il destino dell’universo’.
‘Non c’è molto da decidere: è già tutto stabilito’.
‘Stabilito da chi?’.
‘Siamo nati con uno scopo preciso. Qualcuno o qualcosa ci ha immessi nell’universo in vista di un fine’.
‘È una vecchia disputa: miliardi e miliardi di anni e menti non l’hanno risolta. Oltre a noi, esiste un altro oscuro, o altri oscuri’.
‘Lasciamo in sospeso le questioni relative all’unico mistero che non possiamo svelare e occupiamoci del nostro scopo’.
‘Daccordo. Ecco un gravitone emesso da un buco nero. Lo inglobo io o preferisci farlo tu?’.
‘Fa’ pure. Ho appena notato un fotone dirigersi da questa parte: ingloberò quello’.
‘Ricordi le creature che hanno ipotizzato la nostra esistenza?’.
‘Certo. Nessuna di esse è riuscita a comprendere la nostra vera natura, ma qualcuna ci è andata vicino’.
‘Quando,  studiando  le   emissioni  di   particelle    irradiate    dai  buchi neri, i gravitoni sono stati scoperti, hanno elaborato la loro teoria universale delle forze interagenti. Erano così felici, neanche ci avessero scoperto’.
‘Le creature-carbonio erano fatte così. E quelle che verranno saranno molto simili ai loro predecessori’.
‘Tutto muta ma niente cambia: è la legge del cosmo’.
‘Le creature-carbonio si sono estinte con la convinzione che, un giorno lontano, la fine fredda sarebbe stato il destino ultimo dell’universo’.
‘Hanno riempito il vuoto, metaforicamente, con le loro strampalate teorie, eppure sono giunti alla conclusione errata’.
‘Hanno supposto che i neutrini avessero una massa, inventato gli assioni e scoperto una miriade di particelle-onda senza riuscire ad ottenere le prove della nostra esistenza. Non hanno capito che siamo il tessuto dello spazio-tempo, nate insieme all’universo per morire con esso’.
‘Il collante universale che tiene insieme le galassie’.
‘Mi ricorda una definizione delle creature-carbonio’.
‘Mi piaceva e l’ho inglobata, proprio come faccio con le particelle-onda’.
‘Siamo super-particelle-onda, composte di materia invisibile, che si nutrono di materia visibile, nate per riportare alle condizioni originarie lo spazio-tempo’.
‘Venute all’universo nei primi nano-secondi, che nessuna creatura ha mai esplorato’.
‘Con un unico scopo: scongiurare la fine fredda, affinché l’universo collassi per rinascere dalle sue stesse ceneri’
Infine, gli oscuri impediranno al buio di trionfare’.

domenica 14 febbraio 2016

QUATTRO LUGLIO di Fabio Calabrese

Elmer Huges aveva il colletto della camicia e le ascelle intrisi di sudore. Nel suo ufficio, in effetti, ci sarebbe stata l'aria condizionata, ma per Elmer tenerla chiusa era quasi una questione di principio, aveva notato che spesso, passando accaldati dall’ambiente esterno alla gelida atmosfera di questa, si contraeva qualche malanno con estrema facilità; preferiva il piccolo ventilatore da tavolo di cui poteva regolare la velocità delle pale e la distanza dalla propria persona.
In quel momento, però, non era il clima afoso a preoccuparlo. Aveva appena rimesso a posto con stizza la cornetta del telefono.
Sua moglie Ethel, naturalmente. Lo voleva al più presto a casa per far andare il barbecue e per i fuochi artificiali. Altrimenti, aveva detto la donna, gli ospiti ci sarebbero rimasti malissimo, e che razza di quattro luglio sarebbe stato?
Ma perdio! Il direttore del New York Times, uno dei più importanti quotidiani del pianeta, aveva anche delle responsabilità!
La composizione del numero che doveva andare in edicola l’indomani sui stava rivelando una faccenda più complicata del previsto. Era la solita disgrazia dei mesi estivi: la politica andava in vacanza, lo sport pure; anche i fattacci della cronaca cittadina si diradavano per il fatto stesso che la città si svuotava, perché moltissimi buoni newyorchesi se ne andavano a godersi le ferie un po’ dappertutto, nelle località balneari, in Florida, in California, dappertutto dentro e fuori degli “States”, ai quattro angoli del mondo.
Ci sarebbe voluta una qualche crisi internazionale, ma la situazione era insolitamente tranquilla anche da quel punto di vista. Non restava che puntare sui pezzi “di colore”, le notizie più curiose che importanti, quelle che nei mesi invernali ben difficilmente avrebbero trovato spazio sulle pagine del giornale.
Diede nuovamente una scorsa al pezzo di Miles Andrews; non lo soddisfaceva per niente.
Miles era un bravo ragazzo, uno che si era laureato col massimo dei voti, ma secondo Huges non era un “vero” giornalista. Sarebbe potuto diventare un buon critico letterario o un analista economico, ma gli mancava quel guizzo, quello “shining” indefinibile che fa il giornalista di razza: o ci si nasce, o lo si acquisisce facendo anni di gavetta fra i commissariati, gli ospedali e gli obitori.
 
Miles Andrews si sentiva disorientato. Il capo l’aveva spedito ad intervistare quel tale, il professor Everett Robertson nella speranza di cavarne fuori un pezzo “di colore”. Non era il tipo di lavoro che lo entusiasmasse, ma in genere sapeva come condurre la cosa: si era ritrovato già altre volte ad intervistare inventori o ricercatori eccentrici, i cui titoli accademici erano di solito inventati o molto meno clamorosi di quel che appariva a prima vista. Di solito finiva per trovarsi in qualche antro buio con un tizio dalla barba lunga e gli occhi spiritati davanti ad un apparecchio su cui danzavano spie luminose dai colori più svariati e su cui ruotavano delle sfere metalliche, e non si capiva bene cosa faceva, o meglio cosa il suo inventore pretendeva che facesse, perché in concreto non faceva mai nulla tranne accendere luci e girare palline.
Che Everett Robertson non facesse parte di quella categoria di svitati, forse di nessuna categoria di svitati, parve a Miles Andrews piuttosto evidente.
Secondo le informazioni che Miles aveva raccolto, Robertson era docente associato in un’università; non di grandi dimensioni, non uno degli atenei più autorevoli, ed il suo incarico non era dei più prestigiosi, ma, a differenza degli sbiellati di cui si era occupato in precedenza, faceva comunque parte del mondo accademico, e già questo bastava a dargli una credibilità che costoro non avevano.
Il palazzo dove si trovava l’abitazione di Robertson contribuiva a confermare la stessa idea: uno stabile dignitoso, di certo non lussuoso ma nemmeno l’antro spettrale che era in genere il rifugio dei derelitti fuori dal mondo con qualche venerdì mancante.
La donna che era venuta ad aprirgli, la signora Robertson, appurò, era una donna un po’ in età vestita in maniera sobria ma non trasandata che, accompagnandolo nello studio del marito, gli chiese se desiderasse una tazza di thè.
La casa non era grande ma arredata con buon gusto. Miles notò addossate alle pareti diverse file di scaffali piene di libri, come ci si poteva aspettare da un docente.
Everett Robertson, che lo sapettava, l'accolse con una stretta di mano e lo fece accomodare: era un uomo di mezza età e dai capelli grigi, di quella che Miles avrebbe detto – e definì nel suo articolo – una maturità vigorosa. Sebbene avesse lo sguardo vivace incorniciato da un paio di occhiali dalla montatura classica e la fronte alta da pensatore, non aveva l'aria del classico studioso:la sua complessione fisica faceva pensare a qualcuno che facesse molto moto. In ogni caso, non ricordava per nulla gli spiritati di cui Andrews si era occupato in passato.
“Come lei sa”, esordì, “Io sono un geologo e, diciamolo pure, la geologia è una scienza di frontiera”.
“La geologia una scienza di frontiera?” L'idea stupì Miles.
“Negli ultimi anni ho molto lavorato con colleghi paleontologi, sa, per la datazione degli stati fossiliferi. Diciamo che il mio campo è proprio alla frontiera fra lo studio della materia inerte e quello degli organismi ... beh, diciamo biologici, perché il termine “vivente” è inappropriato per creature che hanno cessato di vivere da migliaia o milioni di anni”:
“Ah, ... capisco!”
“Un paio di anni fa”, proseguì Robertson, “Ero il geologo di una spedizione in Alaska, affiancavo i colleghi paleontologi che cercavano resti di mammut ed altra fauna dell'età glaciale. I colleghi si occupavano dei fossili, io degli strati sedimentari e della loro datazione.
E' stato un lavoro che mi ha permesso di scoprire cose molto interessanti. Noi tutti ci immaginiamo che i mammut fossero animali adattati ad un clima glaciale: la loro folta pelliccia e le condizioni climatiche attuali delle regioni dove troviamo i loro resti, ci traggono in inganno, ora, se lei ci riflette,  questo è impossibile: animali di quella mole avevano bisogno per sostentarsi di quantità di foraggio non minori degli elefanti attuali, non potevano certo sopravvivere con i licheni, i muschi, la rada vegetazione di piante nane che sitrova oggi nella tundra artica.
Poiché i corpi di quelle creature sono stati spesso conservati da un congelamento improvviso,  le posso dire che parecchie volte è stato trovato intatto il contenuto dei loro stomaci e delle loro bocche, e si tratta di vegetazione simile a quella che oggi cresce nelle zone temperate.
Tutti gli indizi che abbiamo a disposizione tendono a suggerirci che quindicimila anni fa all'incirca, mentre l'Europa occidentale e la parte orientale dell'America del nord erano coperte da un'immane lastra di ghiaccio, l'Alaska e la Siberia godevano di un clima mite che permetteva la sopravvivenza di una vegetazione rigogliosa ed il sostentamento di immensi branchi di grandi animali. Poi è successo qualcosa che ha posto fine all'età glaciale nelle regioni oggi temperate e trasformato l'Alaska e la Siberia in una tomba gelata.
Le faccio notare che la stessa cosa è avvenuta nell'emisfero australe: le analisi geologiche sulle coste dell'Antartide hanno dimostrato la deposizione di sedimenti a grana fine tipici delle foci di grandi fiumi che dovevano scorrere liberi da ghiacci, fino a 15.000 anni fa”.
“Allora lei pensa che ...”, lo interruppe Miles.”
“Io penso che qualunque cosa sia avvenuta, deve essere stata una catastrofe improvvisa; se vi fosse stato un peggioramento graduale delle condizioni climatiche, animali come i mammut od i rinoceronti lanosi non avrebbero avuto difficoltà a migrare altrove”.
“E lei di cosa pensa che si sia trattato?”, chiese Miles.
“I miei colleghi paleontologi non avevano una risposta, ma io si”.
Prese un foglio e lo tese a Miles; riproduceva una sezione schematica del globo terrestre.
“Mi permetto”, disse, “di rinfrescare le sue nozioni di fisica. Man mano che si scende verso l'interno del nostro pianeta, aumentano sia le condizioni di temperatura sia di pressione. Temperatura e pressione agiscono come due forze antagoniste: a parità di pressione, un aumento della temperatura tende a far passare i corpi da solidi a liquidi, da liquidi a gassosi; a parità di temperatura, la pressione produce l'effetto contrario portando i corpi da aeriformi a liquidi, a solidi. L'equilibrio di queste due forze antagoniste fa sì che le condizioni all'interno del nostro pianeta siano affatto particolari. La parte più esterna è costituita da due strati di materiale solido: la crosta su cui poggiamo i piedi e il mantello. Al disotto è liquido: roccia fusa ad altissima temperatura, il magma. Dove il mantello è più sottile, il magma riesce ad infiltrarsi verso la superficie e dà origine ai vulcani. Verso il centro del nostro pianeta, l’enorme pressione ha la meglio sulla sia pur altissima temperatura, e c’è di nuovo un nucleo solido.
Ora lei certamente sa che esiste il fenomeno della deriva dei continenti. I continenti galleggiano letteralmente sulle placche della crosta terrestre come su zattere alla deriva, che ogni tanto si scontrano e si uniscono oppure si fratturano e si allontanano, ma un fenomeno come la deriva dei continenti non può spiegare ciò di cui abbiamo trovato le tracce in Alaska, è troppo lento, impiega tempi lunghissimi, è apprezzabile solo nell’arco dei milioni di anni”.
Everett Robertson s’interruppe e trattenne per un momento il fiato, come se fosse arrivato al momento di una rivelazione clou.
“Immagini qualcos’altro”, disse, “Immagini che l’intera crosta terrestre possa scivolare sulla parte liquida, sullo strato di magma sottostante. Il paragone che mi viene in mente è con un uovo, o con un’arancia se fosse possibile staccare la buccia dagli spicchi senza romperla. Immagini che un simile spostamento possa prodursi all’improvviso, lungo archi di tempo non prevedibili. Questo spiegherebbe tutto, non le pare? Uno slittamento simile si sarebbe verificato quindicimila anni fa. Quella che allora era una regione temperata del nostro pianeta si sarebbe di colpo trasformata in un’area polare, mentre terre che fin allora si trovavano oltre il circolo polare, si sarebbero trovate in una posizione molto più favorevole, ed avrebbe avuto inizio la deglaciazione”.
L’espressione di Miles Andrews era perplessa.
“Vedo che lei non è convinto”.
Robertson prese dal ripiano della scrivania un altro piccolo plico: fogli pinzati assieme, le fotocopie di un articolo.
“Dia un’occhiata a questo”, disse, “Legga i passi sottolineati con l’evidenziatore”.
iles Andrews scorse velocemente il pezzo: era un articolo di “Scientific American” dal numero del dicembre 1985, era firmato Peter H. Schulz e parlava della geologia di Marte. I crateri meteorici polari hanno caratteristiche particolari perché le meteoriti precipitano su depositi di polvere e ghiaccio. Si potevano riconoscere, sosteneva Schulz, fuori dagli attuali circoli polari marziani, due altre zone simili.
“Si tratta di due zone diametralmente opposte”, lesse Miles, “Sono situate l’una agli antipodi dell’altra. I depositi rivelano numerosi processi e caratteristiche simili ai poli attuali, ma le due zone sono situate in prossimità di quello che oggi è l’equatore”.
In pratica, sosteneva lo scienziato, gli antichi poli marziani erano scivolati in prossimità dell’attuale equatore del pianeta. In sostanza, si era verificato:
“Lo slittamento dell’intera litosfera, la parte solida esterna del pianeta, come un’unica placca”.
“Ci rifletta un attimo”, disse Everett Robertson, “Se un fenomeno di questo genere si è verificato su Marte, perché non sarebbe potuto accadere su questo pianeta? La differenza fra Marte e la Terra è che, avendo il Pianeta Rosso una massa che è un terzo di quella terrestre, ha perduto il suo calore interno milioni di anni fa, ed oggi Marte è un mondo geologicamente morto, ma sappiamo con certezza che un tempo non era così: la più grande formazione vulcanica del sistema solare, il monte Olympus si trova proprio su Marte”.
“Mi pare di aver capito”, disse Miles Andrews, “Che la maggior parte dei suoi colleghi geologi non condivide queste sue idee”.
“Mi stupirei del contrario”, rispose Robertson con una punta di sarcasmo, “Guardi, la gente spesso s'immagina che la ricerca scientifica sia una spassionata indagine sulla realtà condotta raccogliendo dati e confrontando teorie; mi creda, non è così: essa ha gli stessi vizi di tutte le attività umane. Ci sono scuole, tradizioni di pensiero che sostengono il loro punto di vista anche contro l'evidenza fino a che gli è possibile. Quando iniziò a formarsi una scienza  geologica e paleontologica nel XVIII secolo, e si cominciarono a scoprire conchiglie marine in cima alle montagne, si pensò di spiegare tutto con catastrofi immani, sismi giganteschi, sprofondamenti ed innalzamenti improvvisi di montagne. Poi, alla metà del XIX secolo arrivò Charles Lyell che persuase tutti che quei fenomeni che mettevano tanto in imbarazzo i suoi predecessori potevano essere spiegati dalle stesse forze che vediamo all'opera oggi: gli agenti atmosferici e le forze tettoniche dal passo lentissimo che si snoda attraverso i milioni di anni. Tutto ciò era giusto in linea di principio, ma ha finito per convertirsi in un dogmatismo. Lei oggi sentirà la schiacciante maggioranza dei geologi sostenere che non si è mai potuta verficare alcuna grande catastrofe improvvisa di nessuna specie, anche di fronte a prove tangibili che dicono esattamente il contrario”.
 
Elmer Huges aveva riletto per l'ennesima volta l'articolo di Miles Andrews; no, non andava bene un accidente. Il ragazzo doveva fare un pezzo “di colore” e invece aveva preso dannatamente sul serio le teorie di quel professore del cavolo.
Peggio, il pezzo era deprimente, suggeriva o meglio esponeva con convinzione l'idea di una spada di Damocle che pendeva sul capo di tutti, una catastrofe enorme che non si poteva prevedere né prevenire, e che in qualsiasi momento avrebbe potuto colpire all'improvviso, spazzando via tutti come i mammut siberiani.
Guardò l'orologio: il tempo stringeva. A casa la moglie, i figli, i nipoti l'aspettavano perché esercitasse il suo ruolo di domestico patriarca nella giornata di festa, per dare il via al rito del barbeque ed a quello, atteso soprattutto dai ragazzi, dell'accensione dei petardi.
Si guardò intorno: sebbene l'ufficio fosse ampio ed elegantemente arredato, gli parve freddo e squallido come non mai.
Prese una decisione: se avesse dovuto rifare l'impaginazione del giornale, avrebbe dovuto passare lì l'intera serata e parte della notte. Non che di notti in bianco a comporre il numero dell'indomani ne avesse poche alle spalle, ma proprio per questo voleva passare a casa almeno la sera del quattro luglio.
“Ma si”, pensò, “Le pagine interne hanno pochi lettori attenti; al massimo domani dovrò rispondere a un paio di lettere di protesta”:
Schiacciò un pulsante dell'interfono.
“Tipografia? Allora ok per l'articolo di Andrews. Con questo il numero è chiuso. Io me ne vado a casa. Buon quattro luglio, ragazzi!”
Chiuse la comunicazione ed uscì dall'ufficio. Percorse un breve corridoio e raggiunse l'ascensore che portava al pianterreno. Gli sembrava quasi di sentire già il profumo ed il sapore della carne arrostita sulla brace.
Successe mentre l'ascensore scendeva a pianterreno. Una scossa improvvisa, un ondeggiamento violento come se una mano gigantesca avesse afferrato la cabina dell'ascensore e l'avesse scossa vigorosamente.
Elmer Huges si trovò di colpo proiettato a tutta velocità in avanti, contro la porta metallica della cabina. Batté la testa, faceva un male atroce ma almeno non aveva perso conoscenza. C'era il dolore ed anche il fastidio del sangue che gli colava fin sugli occhi dal largo taglio che si era fatto sulla fronte.
C'è un motivo per cui sconsigliano di usare l'ascensore durante un terremoto: se la cabina si blocca, può diventare una trappola mortale. Ma se un povero disgraziato aveva la sfortuna di trovarvisi dentro proprio al momento della scossa?
La cabina dell'ascensore si era bloccata, Elmer Huges non sapeva esattamente a che altezza, e nessun pulsante funzionava: l'impianto elettrico doveva essere andato.
Fu preso dal terrore all'idea di morire per soffocamento all'interno di quella specie di bara metallica, poi si accorse che fra le due ante della porta dell'ascensore si scorgeva una sottile fessura.
Si avvicinò e vi introdusse le dita. Con sforzo, le due ante cedettero e la fessura si allargò ad una trentina di centimetri, poi si bloccò. L'urto doveva aver deformato le ante o le guide su cui scorrevano.
“Almeno non morirò soffocato”, pensò Huges, ma stranamente l'idea non riuscì a farlo star meglio: se non riusciva a trovare il modo di tirarsi fuori di lì, poteva restare forse giorni in attesa di soccorsi che non era detto arrivassero in tempo, e intanto morire di fame e di sete.
“Questi edifici dovrebbero essere antisismici”, pensò con stizza. Era vero che la scossa era stata estremamente violenta.
Cercò di introdursi quanto poteva nella fessura; ovviamente non c'era spazio a sufficienza per passare, ma poteva fare forza con le spalle e le ginocchia nel tentativo di far cedere la porta ancora un po'.
Premette a lungo con le spalle sempre più doloranti, una dura lotta della carne contro il metallo.
Alla fine, con uno schianto secco le ante cedettero ancora un po', abbastanza da poter passare comprimendo il corpo allo stremo, ma c'era un altro ostacolo: la cabina si era fermata a metà fra due piani ed il pavimento del piano superiore era al disopra dell'altezza delle spalle di Huges. Occorreva issarsi a forza di braccia, cosa più facile a dirsi che a farsi se non si era più giovanissimi e si aveva condotto una vita prevalentemente sedentaria.
Al terzo o quarto tentativo, l'uomo riuscì ad appoggiare i gomiti al pavimento del piano, quindi ad issarsi facendo leva, un'impresa che ordinariamente non gli sarebbe riuscita se l'istinto di sopravvivenza non avesse inondato il suo corpo di adrenalina.
Era fuori dall'ascensore alla fine: dolorante, con gli abiti strappati e le mani insanguinate, ma libero. Non riuscì a mettere a fuoco l'interno dell'edificio né a capire di quale entità fossero i danni; gli pareva di trovarsi all'interno di una vasta caverna buia e silenziosa.
A tentoni, trovò le ultime rampe di scale e riuscì a scenderle. Ora era al pianoterra nell'atrio del palazzo. Una luminosità grigiastro-lattigginosa segnalava l'ingresso dell'edificio. Pochi passi che ad Elmer Huges sembrò di impiegare secoli a compiere, e fu all'aperto.
Una parte di lui gli diceva di tornare indietro, rientrare nell'edificio, vedere se c'era ancora una redazione in grado di funzionare, e preparare a tamburo battente un'edizione speciale sul terremoto appena avvenuto, un'altra parte gli diceva di correre subito a casa a vedere come stavano i suoi familiari, ma una terza vocina nella sua testa – ancora più maligna – gli stava insinuando il sospetto che forse non aveva più un giornale né una casa né una famiglia.
Alzò gli occhi verso il cielo. D'improvviso si rese conto che era buio. Non c'erano luci accese: fin dove si poteva scorgere spingendo lo sguardo sull'immensa area newyorchese, non si scorgeva una sola luce accesa; solo, a varie distanze, dei barbagli rossastri che si andavano espandendo, dovevano essere degli incendi.
Non fu questo però a sconcertare Elmer Huges, l'aveva messo per così dire in conto se la città era stata colpita da un sisma di grandi dimensioni. No, quel che lo lasciò attonito fu il fatto che il cielo era buio. Era normale che fosse già così buio a nemmeno le otto di sera in luglio?
Mentre restava col naso all'insù, cominciò ad avvertire una sensazione di freddo che non era soltanto psicologica, e si faceva sempre più intensa. L'aria era diventata fredda, dannatamente gelida.
La neve aveva cominciato a cadere a larghe falde.

mercoledì 10 febbraio 2016

CHRISTINE, SECONDA POSSIBILITÀ di Carlos M. Federici

Qual lieve arazzo dal casto disegno,
 ai tuoi piedi depongo il mio anelito;
la tua superba figura di ghiaccio
mi imprigiona nel suo místico incanto. (*)                                                                 

Li distesa, con gli occhi ancora chiusi e le braccia stese a croce, mi sembra quasi inerme... L'effetto magnificatore della coperta che la cinge permette di distinguere, anche dalla relativa distanza a cui mi trovo, perfino l'ombra sottile di ogni ciglia sulla guancia. Bella come è sempre stata, senza dubbio; ma... arresa, come se infine fosse giunto il momento della consunzione.
Mi schiarisco la gola senza farmi notare. Mi sentó un po' a disagio tra tanto privilegiato quoziente intellettuale. Non ignoro che, di norma, non mi spetterebbe presenziare all'avvenimento (ufficialmente, non sonó nessuno); ma siccome non avrei mai accettato l’idea di essere assente, a suo tempo mossi letteralmente cielo e terra, supplicai, mentii, incorsi nelle più vergognose, piccole bassezze, tutto pur di ottenere l’imprescindibile Permesso di Assistenza, riservato solo ai Notabili.
Ancora pochi istanti, mi dico, ed il velo cadrà... Avverto un autentico panico, lo confesso, per quanto ne possa risultare; ma malgrado i clamori dell’istinto mi spingano a fuggire, so che mi riuscirebbe impossibile pretendere di eludere il mió destino. Forse, penso, l’evento intero della mia povera esistenza si è pianificato in qualche luogo, un tempo, col proposito esclusivo di sfociare in questo.
Impallidisco. Non hanno tremato quelle ciglie d’oro? Sara già il momento di...?
—Imminente, signori— annuncia la voce ingolata di Luthers.
Una nube di mormorio la ratifica, con impeto assembleare. (Luthers somiglia ad un fuggiasco della vendetta giudea, un'autentica caricatura di nazista stile Hollywood, ma non per questo cessa di essere il più celebre psiconeurologo d’oggi.) Insieme a lui ci sono altre celebrità: Mac Foxx, rappresentante del Popolo nel noto caso dell’assassinio di Emmanuelle; la Papessa Lucia I, giunta specialmen-te da Rome-sur-la-Seine per assistere all’evento, e Calvin Gerbhart, il Presidente della Confederazione Nord­occidentale. (Manca solo Kung Eurinov, Premier del Blocco Sudorientale: corre voce che la navetta su cui viaggiava sia stata dirottata a Counterfeit, il mondo artificiale, nido di terroristi e pirati.)
Per il resto, una piccola folla circonda il cubicolo di maniplast ove ella giace, sul punto di uscire dal suo sopore chirurgico. Forse il numero dei presenti supera i duecento. Ma, certamente, mi dico, che cos’è questo, paragonato all’ingente moltitudine che acclamò Christine nell'istante apoteotico del suo trionfale ingresso in Parigi?
(Quanto tempo, mi chiedo con amarezza, quanto tempo è trascorso da tutto ciò? Secoli, forse? No, un po’meno di un anno appena. Ed ora...)
Io la conobbi quando era Emmanuelle.
Lavoravamo nello stesso ufficio, una filiale della Uni­versal Press, incaricata di tenere aggiornati sulle notizie mondiali i coloni di Marsopolis ed anche quelli della Base Sincronica. Mi avvinse dal preciso istante in cui la sua immagine catturò le mie pupille.
Per anni sono stato un anacronismo: penso da románti­co. In questi tempi di ambiguità sessuale..., Emmanuelle splendeva così definitamente femminile! Perfino la curva dell’estremitá di ciascuna delle sue unghie di madreperla suggeriva squisitezze alla mia fantasía. Lei... si fissò in me, fragile e pallida.
La disillusione, tuttavia, venne attraverso le mie orecchie.
La sentii rispondere alie insaziabili avances della muta di cani che permanentemente la attorniava: il suo linguaggio era di tale volgarità, che semplicemente fece avvizzire senza rimedio le tenere gemme del mio sogno.
Impulsi suicidi mi assalirono (in pieno secólo vítale, questo lírico insensibile anima ancora tali arcaiche necrofilie); più tardi, comunque, temperati i miei geli, caddi nella fredda riflessione:
—Lei agita troppo l'atmosfera circostante... Finirá col trascinarla nel suo stesso vento!
Ed ebbi ragione: un esaltato psicopático la uccise.
Inizió cosí.
Emmanuelle smise di esistere (sebbene il suo corpo venne mantenuto in funzione mediante gli strumenti della fantástica tecnología del XXII secolo di cui il Centro Medi­co Uhiversale dispone); a tre giorni dal suo assassinio, Christine sorse in questo mondo.
L'Era della Seconda Possibilità era cominciata, anche se il portento non fu avvertito súbito. La pubblica attenzione, allora, era assorbita dal più straordinario caso criminale della storia: l’omicidio (?) di Emmanuelle.
Mac Foxx, Pubblico Ministero, lanciò publicamente la sua rivoluzionaria asserzione, e la sua voce tonante incise l’argilla dell’Eternità:
—Vi è stato delitto! II popolo esige la massima pena per l’assassino! Accecato dal turbine incontenibile delle sue esacerbate passioni, questo essere snaturato strisciò nella notte, come un anímale da preda, e procurò alla vittima tante e tali ferite che alla fine ne determinarono la morte! Deve ricevere il suo castigo per aver ucciso!
”Si, signori della giuria! Ho detto: ucciso. E non mi ritraggo di una virgola da quanto ho affermato! Emmanuelle Du Barry è stata distrutta..., resta solo il suo corpo delicato come prova esauriente dell’esecrabile delitto perpetrato!
”Non importa che ora contempliate davanti a voi quello stesso corpo, pulsante e bello, traboccante di vita e fulgore! Quel corpo, signori, ormai non appartiene a Emma­nuelle Du Barry!! Non restano tracce di lei sotto quella pelle trasparente!! Emmanuelle Du Barry morì letteralmente in sala operatoria; la sua individualità scomparve per sempre. Sì, sì; lo so: so che il referto patológico recita: “Amnesia permanente, indolla da shock traumatico!” Lo so! Ma questi, signori, non sono altro che termini medici..., ed in questa Corte ci riguarda unicamenle ed esclusivamente il linguaggio legale! Noi, il Popolo, proclamiamo: “Omicidio!”
”E cos’è l’omicidio, signori della giuria, se non la più grave offesa al Codice legale, precisamenle per il suo carattere di irreversibilità? Io affermo che Emmanuelle Du Barry è morta, vilmente assassinata, e non tornerà mai più tra noi come entitá integrale! Senza dubbio questo è il crimine più inusitato di tutti i tempi..., ma non per questo merita meno la sanzione che la giustizia impone!
Quello fu miele per le mosche della stampa sensazionalistica... Io stesso vi fui coinvolto, a causa del mio lavoro; ma mi limitai ad adempierlo, senza il morboso diletto che mi pareva di captare in tutti i miei colleghi. Ogni volta che li vedevo spintonarsi, per arrivare primi ai fonovisori, mi sentivo male.
—Maiali! Uguali a porci che si immergono nel fango!
Tuttavia, dovetti riconoscere che tutto ciò non cessava di essere umano. Così è la gente di questi tempi, ammisi. Lungi da me era allora prevedere la tremenda rivelazione che pure si approssimava!
L'avvento della Seconda Possibilità... e di Christine!
Non potrei rintracciare con esattezza le origini. In veritá ignoro quando iniziò effettivamente. Ma, come qualche fantástica specie di edera universale, si propagò con voracità crescente..., finchè il mondo intero acclamò Christine.
—Io sono la Seconda Possibilità— predicava con accenti delicati.
”Avvicinatevi a me, sentite il mio tocco, e vivrete per sempre nella beatitudine. Vi è stato detto: al termine della Storia, l’Uomo tornerà per porvi in salvo. Ma io vi dico: i tempi sono cambiati, ed il Padre mi creò, immacolata, per recarvi questa nuova luce.
Fu qualcosa di sublime e terrificante ad un tempo. Legioni immense, masse gigantesche in cui si confondevano razze, lingue e costumi delle più diverse nature, la seguirono. Intorno a lei fluttuava un’aura peculiare, splendente come le onde dorate dei suoi capelli (“Colei che non nacque dalla carne, non è schiava della carne!”,) ed il solo lie­ve tocco delle sue dita sottili operava prodigi negli uomini.
Io lo sentii.
Fu come se stille ineffabili di dolcezza e serenità mi si spandessero addosso; all’istante, tutte le mie potenzialità, senza escludere le più oscure, si ricanalizzarono in me (nulla si perse; tutto si trasformò per bene,) nuovi signifi­cati sostituirono le nozioni obsolete della mia eredità secolare, e fui un altro nuovo. Al di là di volgari bramosie, al di sopra di melmosi orizzonti. La mia... Seconda Possibili­tà. Christine.
E innumerevoli esseri furono pure toccati da quella Gracia differente: il movimento, in apparenza incontenibile, raggiunse i limiti del pianeta.
Fu allora che la reazione attaccò: una corrente lumino­sa come quella, inevitabilmente doveva ledere sordidi interessi.
Livello dopo livello, scaltri colpi si susseguirono... Come cronista ufficiale di Christine (almeno, cosí mi piaceva considerarmi) registrai tutto il deplorevole processo di quell’infamia.
Ed ora mi trovo qui, a un passo dall’atto finale.
(Incompetente, hanno osato dichiararla. Un típico caso di personalitá schizoide, con perniciosa devianza verso il mistico ed il megalomane. Non era possibile consentire che l’umana stoltezza ratificasse quella formidabile frode di massa! E meschini influssi si imposero, vili poteri esercitarono il loro gioco, e così lei, martirizzata dall’inumana neurochirurgia laser di Luthers, giace nel suo cubicólo magnificatore —perché nessuno si perda un dettaglio!— sul punto di risvegliarsi alla sua reale natura.)
—Si muove!
—Guardate, sta aprendo gli occhi!
Dio! Quella specie d’ombra sulle pupille... Sarà che...?
Improvvisamente la nausea mi scuote, non posso evitare che il corpo si pieghi in due, e che l’acido odore del vomi­to mi invada la cintola. Oh, Dio! I miei occhi, rivolti al suolo, non possono osservare quel che accade nel cubico­lo...
Un tumulto! Esclamazioni. Ruggiti... Qualcuno mi spinge; cado sotto l’irresistibile pressione della folla...
Non riusciró ad alzarmi. Ormai insensibile al dolore, sotto un implacabile esercito di piedi che mi spappolano, mi sento sprofondare irremissibilmente in un’oscurità senza fondo..., anche se la raggiante immagine di Christine, crocifissa, tarda a svanire.

(*) Cual leve tapiz de casto dibujo,
a tus pies deposito mi anhelo;
tu soberbia figura de hielo
me tiene cautivo en su místico embrujo.
—Del Salmo 22 a Christine (c.2145)

sabato 6 febbraio 2016

SOPRAVVISSUTI di Paolo Secondini

Ci fu un rumore nel buio.
Halem Duf ebbe un sobbalzo e rimase immobile, il fiato sospeso.
Si trovava nel proprio rifugio a decine di metri sotto la superficie di Orkel, al sicuro dalle micidiali radiazioni della bomba Akerion 240-T.
Chi altri, oltre a lui, era riuscito a salvarsi dalla tremenda esplosione?
Non lo sapeva, né poteva immaginarlo.
Sicuramente di sopravvissuti ce n’erano in tutto il pianeta: lui, d’altronde, ne era la prova.
Si sarebbe pazientemente ricostruito ciò che i crudeli avrediani avevano distrutto o, forse, creduto di distruggere in modo definitivo.
Sbuffò leggermente, quindi, con trepidazione, tese la mano: la mosse a tentoni a destra e a sinistra.
D’un tratto le dita avvertirono come una fonte di calore. Si arrestarono di colpo, in quella cieca ricognizione, ma subito dopo ripresero a muoversi, finché non urtarono contro qualcosa di molle.
Si udì un lamento, poi:
«Chi è… chi mi tocca?» chiese una voce di donna.
In un primo momento Halem Duf non rispose, serrò le mascelle e inghiottì la propria saliva.
«Sono… sono il notabile Duf,» disse alla fine. «Credevo di essere solo nel rifugio.»
«Oh, io ti conosco!» esclamò la voce femminile.
«Davvero?... Ma tu chi sei?... Che cosa ci fai…?»
«Mi chiamo Takàlen. Ti ho visto scendere nel sottosuolo un attimo prima che la bomba scoppiasse… Ti ho chiesto, mentre correndo mi passavi davanti, se potevo seguirti nel rifugio.»
Duf scosse la testa, quindi emise un lungo sospiro.
«Non ricordo… Non riesco in questo momento a rammentarmi di nulla, né di te né di altro, all’infuori di quell'esplosione spaventosa… Credo che resterà per sempre impressa nella mia mente.»
«Oh, sì! Impossibile dimenticarla. È stato qualcosa di molto terribile,» convenne Takàlen. Tacque un istante, e Duf poté ascoltarne il respiro un po’ affannoso. «Credo che pochi su tutto il pianeta,» riprese la donna, «siano riusciti a salvarsi: solo quelli che, come te, avevano a disposizione un rifugio sicuro, fornito dal Regime Oligarchico di Orkel.» Restò in silenzio per un istante poi, cambiando di colpo il tono di voce: «Ma gli avrediani non vogliono sopravvissuti tra i loro nemici, gli orkeliani. Per questo motivo hanno costruito ordigni-robot a guisa di esseri simili a voi nell’aspetto, come anche nel modo di muoversi, di parlare, perché si infiltrassero ovunque, specialmente in luoghi protetti come questo.»
Halem Duf inghiottì nuovamente la propria saliva, mentre un freddo sudore gli imperlava la fronte, gli scorreva lungo la schiena.
«Co-cosa significa?» balbettò. «Non capisco… Stai forse dicendo…»
«…che sono un ordigno-robot, e per te non c’è scampo.»
Di colpo il rifugio fu rischiarato da un bagliore violento, accecante, al quale seguì una cupa esplosione.

 

 

 

 

giovedì 4 febbraio 2016

Minaccia di J. Enrique Juárez Flores

Infine ella ruppe il silenzio dicendo quant’egli non aveva il coraggio di dire:
«Fai pure quel che hai deciso, non preoccuparti per me.»
«Se ciò ti sta bene, d’accordo,» lui rispose, con il timore che lei cambiasse idea. Intanto, si sentì sollevato.
Il giorno dopo, mentre finiva di preparare le valigie, lei lo aggredì con queste parole:
«Pensi, forse, che solo tu sia capace di farlo?... Anch’io posso trovarmi un altro uomo.»
«Tu credi che io stia commettendo qualcosa di ingiusto nei tuoi confronti?» rispose lui, serenamente.
Allora, in silenzio, e con molta angoscia nel cuore – come mai aveva provato in vita sua – lei lo prese per un braccio e gli appoggiò la testa sul petto, dicendo:
«Oh!... Sarò sempre tua.»