domenica 24 dicembre 2017

QUEI GIORNI DEL MESE di Laura Silvestri

Carlo accostò meglio i lembi del cappotto: il freddo di novembre iniziava a farsi pungente e, tanto per cambiare, Gianni si stava facendo aspettare. Era già da venti minuti che l’uomo se ne stava immobile sul marciapiede ad attendere il collega, sempre l’ultimo a lasciare l’ufficio. “Che carrierista”, pensò infilando le mani nelle tasche, ma non c’era asprezza in quella considerazione: dopotutto Gianni era giovane e scapolo, e aveva tutto il diritto di preoccuparsi solo del lavoro e delle ragazze. Quella notte, però, sarebbe stata fra uomini: soltanto tre amici, qualche birra e la partita di campionato… sempre che il loro ospite si fosse deciso a staccare la lingua dal fondoschiena del capo.
Le macchine sfrecciavano accanto ai marciapiedi di Trastevere, i fari illuminavano per un istante il buio della sera e si allontanavano nel traffico romano. Mentre fissava la pallida luna piena che faceva capolino oltre il profilo di alberi e palazzi, una voce che chiamava il suo nome lo fece voltare. Eccolo lì, il terzo invitato alla serata sportiva: Duilio, anche lui impiegato nella società pubblicitaria per cui lavorava Carlo, anch’egli deciso a sfuggire alla routine familiare.
“Ehilà!”, Duilio lo apostrofò, battendogli una pacca sulla spalla. “Tutto a posto per stasera? Il padrone di casa dove si è cacciato?”
“E dove vuoi che sia? Impelagato in qualche riunione che ci farà perdere l’inizio della partita”.
“Se anche fosse, non mi lamenterei”, Duilio sghignazzò. “Mi basta non stare a casa mia stasera. Hai presente cosa intendo, no?”, concluse con uno sguardo allusivo.
Carlo lo sapeva eccome. Del resto, sebbene non lo avessero mai detto a Gianni, lui e Duilio si organizzavano ormai da un anno a quella parte per passare in compagnia dell’amico scapolo, nel suo bell’appartamento tranquillo, proprio certe serate del mese. “E come potrei non capirti? Lo sai che anche mia moglie è in quei giorni, e Dio solo sa se non sia meglio starsene da un’altra parte. Senza contare che da poco anche mia figlia maggiore è diventata… be’, ci siamo capiti. E due insieme proprio non si sopportano”.
“Già, le ragazzine sono tremende”. Duilio si strinse nelle spalle.  “Intrattabili, comunicano a ringhi. E non si può dire che odorino di fiori”.
“Ah, le adolescenti sono il supplizio di ogni padre”. Carlo scosse la testa. “E da quando anche Mia è tutta un subbuglio di ormoni, Linda non risulta certo più piacevole. Sarà che si stuzzicano a vicenda,  con questa cosa che poi finiscono per sincronizzarsi. Davvero, beati gli scapoli.”
“Hai proprio ragione. Chissà perché, poi, se la prendono sempre con noi poveracci che le abbiamo sposate”. Duilio si passò una mano sul cranio calvo, sentendo la prima goccia di pioggia bagnargli la testa. “Ah, a proposito di scapoli, guarda là.”
Gianni faceva in quel momento la sua comparsa fuori del massiccio portone di bronzo, scendendo i gradini in gran fretta, con la ventiquattrore stretta fra le mani e l’aria mortificata. I due lo videro avanzare con lunghi passi atletici nella loro direzione. “Scusatemi, non sono riuscito a liberarmi prima!”, li apostrofò sistemando il ciuffo di capelli neri sulla fronte. “Accidenti, che giornata. Sono veramente a pezzi”.
Carlo si lasciò scappare un sorriso. “Ti stressi troppo. Fra lavoro e ragazze, tra un po’ non ti reggerai più in piedi!”
Duilio salutò a sua volta l’ultimo arrivato. “Non dargli retta. È invidioso perché lui ormai è dimenticato nello stanzino delle fotocopie e ha una moglie che lo comanda a bacchetta!”
“Ah, che vitaccia”, Gianni concordò con una risata. “Avanti, andiamo. La mia macchina è qui dietro, e fra un quarto d’ora dovrebbe arrivare il ragazzo delle consegne con la pizza.”
Il tragitto fu breve, immerso in un confortevole silenzio, e Carlo iniziò a rilassarsi. Abituato com’era alle cene in famiglia, quelle due o tre serate fuori lo aiutavano a sopravvivere alla routine. Prima di scendere dall’auto, si affrettò a controllare che non vi fossero chiamate di sua moglie sul cellulare: per fortuna, tutto taceva. In verità, aveva fatto in modo di prendersi uno stacco considerevole dalla famiglia, e lo aveva fatto con una piccola bugia: aveva detto che sarebbe stato in trasferta a Firenze per un paio di giorni. Non aveva avuto molta scelta: Linda mal tollerava che si assentasse di proposito, proprio in certi giorni. A dirla tutta, la cosa la mandava in bestia. TuttaviaCarlo si sentiva compreso e spalleggiato in quelle serate fra uomini: anche un padre di famiglia aveva bisogno dei suoi spazi, e dopotutto non facevano niente di male.
Gianni lo scorse rimettere il cellulare in tasca e gli rivolse uno sguardo malandrino, intanto che si avviavano verso il portone. “Sei in pensiero che la tua signora si faccia viva, eh?”
“No, ma che vai a pensare”, Carlo si schernì con un sorriso imbarazzato.
Attraversarono un immacolato pianerottolo e raggiunsero l’appartamento di Gianni che, oramai, si poteva dire conoscessero come le proprie tasche.  “Fai presto a canzonare tu”, Carlo non resistette all’impulso di precisare, prima che il ragazzo li facesse accomodare oltre il portoncino di legno restaurato ad arte. “Le donne le frequenti… quanto? Un paio di sere, prima di scaricarle? Ti godi solo il bello del genere femminile”.
“Puoi dirlo forte”, Gianni rispose con un sorriso. “Ed è una buona abitudine che non voglio certo abbandonare”.
L’appartamento era tirato a lucido, segno che quel mattino fosse passata la signora delle pulizie: ci si poteva specchiare nel mobile all’ingresso, il divano di pelle profumava di nuovo e neppure una traccia di polvere adombrava il televisore. Una punta di invidia si affacciava ogni volta nella testa di Carlo, quando metteva piede in quel paradiso di pace, ma si affrettava a scacciarla via. Anche la sua vita aveva molti aspetti positivi: solamente, era più difficile ricordarli in settimane come quella. Un lieve brivido gli corse per la schiena al pensiero di quanto detestasse mentire a Linda, ma tutto sommato non era il primo al mondo a fare una cosa del genere.
Intanto che lasciava il cappotto sull’appendiabiti, lanciò un’occhiata al cielo ormai nero e alla bellissima luna, sferica e bianca, che rischiarava la via antistante il palazzo. Doveva smetterla di angosciarsi, si ripeté, e godersi quella notte.
Anche Duilio non pareva mai del tutto a proprio agio durante i primi minuti di quelle occasioni, ma poi finiva per rilassarsi alla svelta. Aveva una decina d’anni più di Carlo, e sapeva prendere le cose con filosofia.
Come avevano temuto, la partita era cominciata ormai da una decina di minuti. Il campanello annunciò l’arrivo del ragazzo delle consegne. Mentre Gianni si affrettava ad andargli ad aprire, Carlo e Duilio si davano da fare per sistemare il salotto: mentre il primo serrava la finestra sulla strada con il blocco di sicurezza, l’altro ricontrollava quelle della cucina e del piccolo bagno di servizio. “Ricordati di mettere il catenaccio al portone”, Carlo rammentò per l’ennesima volta al giovane collega, quando lo sentì ritornare con i cartoni della cena. La prudenza, lo sapeva bene, non era mai troppa.
“Fatto, paparino”, Gianni ribatté con un ghigno. “E’ tutto sotto controllo”.
Questa volta, Duilio si inserì nel discorso con un’espressione grave. “Non prendere le cose troppo alla leggera, giovincello”, sentenziò prendendo posto alla sinistra del divano, come da sua abitudine. “Con quella tua testa fra le nuvole… hai chiuso bene anche la camera da letto?”
Il ragazzoannuì con noncuranza, sistemando la pizza sul basso tavolo davanti alla tv e impugnando il telecomando per regolare il volume. “Fatela finita, voi due. È fatta. Diamo inizio alla serata sportiva”.
Il tintinnare dei bicchieri suggellò quell’accordo. Mentre Duilio sprofondava al suo posto, e Gianni iniziava a borbottare la sua personale telecronaca, Carlo si sforzò di rilassarsi. Affondò i denti in una fetta di pizza, avendo cura di non sporcare gli eleganti pantaloni del completo, e lasciò cadere la testa contro il cuscino di pelle. Forse avrebbe dovuto fare una telefonata a casa, giusto per controllare che Linda e Mia non avessero bisogno di niente. In fondo sarebbe stato il suo dovere di capofamiglia. “Oh, ma a chi vuoi darla a bere”, lo ammonì la voce della coscienza, “ti stai solo cacando sotto al pensiero che scoprano la tua bravata”.
Ma non sarebbe accaduto, si rassicurò. Dopotutto, era quasi un anno che si concedeva serate fra uomini tutti i mesi. Rimuginarci su così a lungo era poco dignitoso. Non passavano forse, tutti gli ammogliati del mondo, le sue stesse tribolazioni? Però, non tutti avevano una figlia appena adolescente che trasudava aggressività da ogni poro ed era in aperta ribellione con la figura paterna. Erano cose che potevano togliere il sangue freddo anche al più equilibrato dei padri. Un nuovo brivido gli attraversò la schiena, mentre la fronte si imperlava di sudore. Carlo si concesse una lunga sorsata di birra. Aveva smesso di piovere.
La notte, fuori dalla finestra, gli pareva cupa, vuota di stelle, e la figura della luna rifulgeva quasi sinistra, spuntando fra rade nubi che il vento stava portando via. “Linda è a casa”, ripeté per l’ennesima volta a se stesso, come uno sciocco mantra. “Non mi verrà a cercare”.
La loro squadra stava perdendo. Duilio borbottava qualcosa fra un boccone e l’altro, mentre Gianni inveiva contro il televisore. Carlo sentiva il battito del proprio cuore farsi sempre più forte, come l’eco di un presentimento. Riguardò la finestra, che aveva serrato soltanto pochi minuti prima, e si costrinse a respirare.
Il tonfo che riecheggiò contro il portoncino d’ingresso lo fece sobbalzare con tale violenza da fargli rovesciare la birra sul divano. Gianni imprecò, e Duilio gli lanciò subito un’occhiata preoccupata.
“Hai chiuso bene, vero? Anche la catenella?”, Carlo si ritrovò a domandare con un filo di voce, ma conosceva già la risposta. Non avrebbe fatto differenza se l’altro avesse preso sul serio le sue raccomandazioni. Non se lei fosse stata davvero arrabbiata.
Seguì un secondo tonfo, più forte, seguito da un altro ancora che fece tremare il cristallo del tavolino. Carlo si alzò dal divano, le gambe che lo reggevano a malapena. “Merda, lo sapevo”, ripeté nella sua testa. Avrebbe dovuto fare quella telefonata, tranquillizzare le sue donne prima che potessero fare qualcosa di irrazionale, ma adesso era troppo tardi.
Se non voleva perdere la faccia davanti ai suoi colleghi, non gli restava che affrontare la situazione da uomo.
E da solo.
Si avviò per il corridoio, mentre Duilio e Gianni ben si guardavano dal seguirlo. Il portone d’epoca dell’appartamento iniziava a scricchiolare, mentre una nuova sequenza di colpi lo scuoteva. “Linda, amore, sei tu?”, Carlo chiese con quel poco fiato che gli restava in gola.
Gli rispose soltanto un verso rabbioso, mentre il colpo successivo faceva venire giù polvere d’intonaco dal muro. L’uomo chiuse gli occhi, cercando di recuperare il sangue freddo.
“Tesoro, posso spiegarti tutto. Perché adesso non torni a casa? Ne parliamo domattina a mente fredda”. Nessuna risposta, a parte un tonfo furioso e un altro ringhio, più acuto del precedente.  Carlo dovette appoggiarsi al mobile per non cadere. “C’è anche Mia lì con te? Avanti, siate ragionevoli. Tornate a casa”.
Ma come poteva sperare che due donne in pieno ciclo gli dessero retta?
Fu forse una spallata a far cedere il portoncino: la catenella saltò, divelta, e il battente si spalancò di netto, andando a cozzare contro la parete e spargendo ovunque schegge di legno pregiato. Carlo si ritrovò a indietreggiare suo malgrado.
Le fauci spalancate e sbavanti di sua moglie, gli occhi rossi e il fitto pelo fulvo lo investirono in pochi secondi. Dietro di leila sagoma più minuta, ma altrettanto animalesca, di Mia, col manto irto e nero dall’odore acre di giovinetta e i lunghi artigli tesi nella propria, personale, dimostrazione di ribellione adolescenziale.
“Linda, andiamo amore. Lasciami spiegare…”, provò a farfugliare, mentre cadeva in terra e lacrime di terrore iniziavano a rigargli il viso. Ma non c’era più nulla che potesse fare: il muso di sua moglie era ormai al suo collo, mentre gli occhi rosseggiavano del furore di donna tradita. E come si poteva ragionare, in quelle condizioni? Erano così irrazionali, le donne. Incomprensibili.
Carlo chiuse gli occhi e si preparò all’inevitabile. La luna, bianca e distante, da sempre simbolo del mondo femminile, pareva sbeffeggiarlo, fuori dalla finestra.
“Dannazione”, fu il suo ultimo pensiero.
Per quanto l’avesse sempre amata, detestava davvero Linda in quei giorni del mese.

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