mercoledì 9 maggio 2018

COLLE AMARO di Fabio Calabrese

Durante la notte si era scatenato maltempo, uno di quei temporali estivi che quando ci si mettono sono peggio delle bufere invernali. Era piovuto a scroscio, e il vento aveva portato le raffiche di pioggia a battere con rabbia contro i vetri delle finestre. Al mattino la temperatura era scesa di diversi gradi. Per fortuna, io e Daniela ci eravamo portati dietro i giubbotti.
Eravamo, tutto il nostro gruppo, nell'ufficio di fianco al pontile d'imbarco dei traghetti.
L'impiegata dell'agenzia scosse il capo.
“No”, tornò a dire, “non è possibile, le escursioni all'Isola della Forcella sono sospese. Il traghetto non può prendere il mare, oggi il mare è troppo grosso. Domani, l'escursione è spostata a domani”.
Le facemmo presente che quello era l'ultimo giorno della nostra permanenza che l'indomani la nostra comitiva sarebbe stata già sulla via del ritorno.
“Quando è così”, disse lei in tono sconsolato, “non posso fare altro che rimborsarvi i biglietti”.
Ci rivolgemmo verso la nostra guida.
“E adesso che si fa?”, chiesero più voci.
Andare in spiaggia era escluso. Il temporale era passato ma c'era appena uno spicchio di sole pallido fra le nubi, la sabbia dell'arenile era umida, e la temperatura era piuttosto scesa.
“Sentite”, disse lui, “Se vi va, potremmo fare una gita nell'entroterra, potremmo andare fino a Colle Amaro”.
 “Cosa c'è di interessante da quelle parti?”, chiedemmo.
“E' un borgo abbandonato”, rispose l'uomo, “con delle rovine medioevali di un certo interesse archeologico”.
Si accese una discussione. A qualcuno la cosa interessava, ad altri no.
“Non c'è problema”, disse la guida, “chi non è interessato, può rimanere in albergo”.
A me non andava di passare l'ultimo giorno di vacanza tappato in albergo, ma Daniela era di parere opposto al mio. Immaginavo che per lei l'idea di una scarpinata con pranzo al sacco fosse molto meno allettante di una partita a bridge con le altre ospiti dell'albergo, e di un giretto alla boutique.
“Ma non ti preoccupare, Roberto”, mi disse, “vai pure, ci vediamo quando tornate”.
La nostra comitiva si divise. Il gruppo che salì sul torpedone, fra cui io, era decisamente meno della metà, e in netta maggioranza uomini, c'era solo una ragazza, quella tipa biondina che mi parve avesse una simpatia particolare per la nostra guida-autista.
Mentre filavamo, vidi che la campagna attorno aveva un'aria selvatica e arruffata.
“Colle amaro, che strano nome!”, commentò qualcuno.
“E' stato chiamato così”, rispose la guida, “dopo che il villaggio medioevale è stato distrutto. Prima pare che si chiamasse Colle Ridente”.
All'improvviso fu come se un colpo di fucile echeggiasse alle mie orecchie, mi sembrò che quel nome evocasse una serie di ricordi dentro di me, ricordi che non riuscivo ad afferrare, eppure a tratti stranamente vividi.
Guardai la campagna attorno, mi parve di ricordare che ai miei tempi non era così selvatica e invasa dai rovi, molta più gente di adesso viveva nelle campagne, e ogni zolla era coltivata per trarne sostentamento, ma non riuscivo a capire quali fossero “i miei tempi”.
“E com'è successo?”, domandò ancora qualcuno al nostro mentore.
“Non si sa di preciso”, rispose l'uomo senza staccare gli occhi dalla strada e le mani dal volante, “ma a quanto pare fu una disputa confinaria con quelli di Borgo Alto, di quelle che oggi si risolvono con perizie del catasto e carte bollate, e a quei tempi si risolvevano a lancia e spada. Il signore Ariberto che comandava gli uomini di Colle Ridente fu sgozzato da una freccia nella battaglia del Sasso Grigio, un'altra località qua vicino, e la sua truppa fu disfatta, poi gli uomini di Borgo Alto andarono a saccheggiare il paese e il maniero di Ariberto, di cui vedremo i ruderi”.
Non so perché, ma istintivamente portai la mano alla gola; il collo è sempre stato la mia zona delicata, facilmente soffro di laringiti.
L'asfalto finì lasciando il posto a una strada bianca sterrata, dopo una curva della quale Colle Amaro fu davanti a noi.
Del villaggio non era rimasto quasi nulla, solo pochi antichi spezzoni di muro che emergevano tra l'erba e i rovi. Del castello, la cinta muraria esterna era del tutto scomparsa, rimaneva un troncone smozzicato del mastio. Inspiegabilmente, provai una specie di fitta al cuore.
Forse per compensare i gitanti del fatto che le rovine non apparivano particolarmente suggestive, l'autista-cicerone, una volta parcheggiato il mezzo era diventato molto loquace.
“C'è una leggenda molto poetica riguardo a questa vicenda”, disse, “Amalia, la vedova di Ariberto era una donna bellissima, e il signore di Borgo Alto era segretamente innamorato di lei. Mandò a informarla che se avesse acconsentito a sposarlo, non avrebbe fatto alcun male agli abitanti di Colle Ridente, i due borghi sarebbero divenuti un unico feudo, e la pace sarebbe stata ristabilita. Amalia gli fece sapere che mai, a nessun patto avrebbe sposato l'assassino di suo marito, allora lui fece incendiare il paese e il castello e passare a fil di spada gli abitanti. Da allora la località ha cambiato nome. Colle Ridente è diventato Colle Amaro”.
“E questa me la chiama una storia poetica?”, chiese un mio compagno di gita, “a me sembra una storia orribile”.
“No”, replicò la guida, “lei deve capire il contesto. A quei tempi i matrimoni erano perlopiù decisi dalle famiglie degli sposi, erano una questione di alleanze di potere, di affari. Ariberto e Amalia invece si amavano appassionatamente. Pare che i cantastorie e i menestrelli locali abbiano cantato per lungo tempo il loro amore infelice e il sacrificio di lei”:
D'un tratto ricordavo, si, mi ricordavo di Amalia come se l'avessi avuta davanti, non facevo fatica a visualizzare il suo viso dai lineamenti delicati e l'ovale perfetto, la dolce curva del suo seno, i lunghi capelli biondi che le scendevano morbidi sulle spalle. Era Daniela che non riuscivo a ricordare, i suoi lineamenti si erano fatti indistinti nella mia mente, come la reminiscenza di qualcuno conosciuto in un'altra vita. 
Il racconto di quell'antica vicenda mi aveva stranamente trasmesso un senso di amarezza, come se fosse stata una cosa che mi riguardasse personalmente, tuttavia provavo una singolare soddisfazione all'idea che Amalia era stata fedele, Mi era stata fedele fino all'ultimo.
Scesi dal torpedone, ci eravamo sparpagliati all'intorno, e vidi che molti, secondo l'abitudine oggi in voga, scattavano foto con gli apparecchi fotografici o con i cellulari. Io, preso da un impulso incontenibile, e ignorando un vistoso cartello di divieto che avvisava anche “struttura pericolante”, raggiunsi il mozzicone del mastio e inforcai l'entrata che era lì ad aspettarmi, e mi parve che fosse una specie di orbita vuota, ormai priva del globo oculare ma ancora misteriosamente dotata di un qualche potere di visione.
Dentro era pieno di pietrame caduto, rovi, muschio, sporcizia di ogni tipo. Me l'ero aspettato ma provai un'altra fitta al cuore.
Gli altri del nostro gruppo, pensai, mi avrebbero aspettato, beh, di certo non se ne sarebbero andati senza il buon Roberto. Roberto? Roberto? D'un tratto ebbi la percezione confusa che nel mio nome, nel nome che avevo portato per tutta la vita, ci fosse qualcosa di sbagliato.
I miei me l'avevano raccontato non so quante volte. Poco prima che nascessi avevano avuto un'accesa discussione sul nome da darmi, poi all'improvviso si erano trovati d'accordo su Roberto senza sapere come, come se qualche misteriosa entità glielo avesse improvvisamente sussurrato all'orecchio, Roberto o un nome simile... Ariberto ecco, mi suonava meglio.
In un angolo c'erano alcuni gradini intagliati nella roccia che scendevano fino a una sorta di cella interrata non più di un paio di metri sotto il suolo. Mi diressi là, io non sapevo dove stavo andando ma i miei piedi sembravano saperlo benissimo.
Al termine dei gradini mi trovai in uno spazio rettangolare tra pareti di terra, vagamente simile al pozzo di un ascensore.
Sapevo che una di quelle pareti era falsa: un pannello di vimini ricoperto di terriccio che si poteva rimuovere con facilità, celava un condotto sotterraneo che in caso di necessità permetteva la fuga dal castello passando sotto le mura.
Le mie dita si mossero veloci, era singolare che dopo tanti secoli tutto fosse rimasto esattamente come lo ricordavo.
Rimossi il pannello e mi addentrai nell'apertura buia, mosso da una volontà che non era la mia.
Ricordavo un lungo tunnel buio che con un percorso tortuoso portava oltre quelle che un tempo erano state le mura del castello, sbucando al riparo di una discreta macchia di alberi, invece dopo pochi passi mi ritrovai all'aperto in pieno sole, con la luce che mi abbagliava.
Alzando gli occhi, vidi profilarsi contro il cielo la familiare sagoma del Masso Grigio, quella grossa rupe scabra che segnava il confine fra i domini di Colle Ridente e quelli di Borgo Alto.
La seconda cosa di cui mi accorsi fu il senso di peso. I miei abiti erano cambiati, e sotto una sopravveste colorata indossavo una maglia di anelli metallici.
Quella cosa attorno a cui le mie mani si stringevano convulse, era l'elsa di una spada.
A pochi passi da me c'era Ottavio, il mio gastaldo: era un uomo ormai anziano, e con una vita trascorsa perlopiù in occupazioni pacifiche. Per l'ennesima volta non potei fare a meno di constatare che l'armatura non faceva altro che evidenziare gli strati di adipe che con gli anni gli si erano depositati sui fianchi e sull'addome, dandogli un aspetto più grottesco che guerriero.
Accanto a Ottavio c'era un giovane guerriero la cui figura formava un singolare contrasto con quella rotondeggiante e poco militaresca del gastaldo. Per un istante, faticai a riconoscerlo, era Iacopo, il mio scudiero, un giovane alto e magro dai lineamenti spigolosi, Iacopo degli Alberico, una famiglia amica che me l'aveva affidato perché mi servisse come scudiero e imparasse da me le regole del cavalierato. Reggeva il grosso scudo rotondo che era il suo emblema familiare, che recava due serpenti che si guardavano affrontati con aria minacciosa e che erano, come ci teneva a precisare, un simbolo familiare ereditato dai tempi delle crociate, due marassi dell'Asia.
“Si ripari, signore”, mi gridò, “quelli di Borgo Alto stanno tirando le frecce!”
Fu l'ultima cosa che udii prima di percepire un dolore improvviso e violento alla gola. 
 

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