venerdì 27 novembre 2015

OMAGGIO A “L’ANELLO INTORNO AL SOLE” DI CLIFFORD SIMAK di Paolo Durando


La terra un secondo avanti.

Avevo battuto la gamba contro una roccia dopo che la trottola mi aveva scagliato da quelle parti, la faccia sull’erba. Ero intontito per le giravolte da cui era scaturito l’uncino mentale che mi aveva riallocato. Pur non essendoci più traccia di piazza Garibaldi, del mio palazzo, riconoscevo qualcosa di familiare negli odori che mi circondavano, nell’energia dell’aria festante. Persino nella fattoria che si stagliava nell’azzurro. Qualcosa che mi ricordava di una volta, certe scampagnate fatte con i miei genitori, l’ossigeno pulito prima dell’avvento delle fabbriche. E della centrale dell’energia elettrica. Non c’era più nulla di tutto questo, neppure – mi rendevo conto – il ricordo. Respirai a pieni polmoni e, arrivato zoppicando alla fattoria, vidi una donna che parlava a una mucca. Mi venne il dubbio atroce di essere precipitato dentro una pubblicità del Mulino Bianco. In fondo, loro sarebbero stati capaci di tutto, anche di una cosa di questo genere. Loro, quanto mai estranei, adesso. Con sollievo, guardandomi intorno, non vidi alcun Mulino e neppure bambini giubilanti. Mi vennero incontro, però, numerose persone dal volto conosciuto. Erano gli amici, i parenti, i colleghi che non avevo mai avuto, che non avrei mai potuto, soprattutto dovuto, conoscere. Mi attorniarono scherzosi, finsero di insultarmi. “Benvenuto, Pirlone!” Alcune ragazze che stendevano delle lenzuola e degli abiti, su un‘altura poco distante, si sbracciarono per salutarmi. Anche loro sapevano chi ero.
Capii subito che ero tornato a casa. Che avrei dovuto presto rimboccarmi le maniche.
Ammiccai alla donna che mi teneva ora aperta la porta dell’ingresso, dopo aver lasciato la mucca a scacciare beata i suoi tafani. Entrando, riconobbi immediatamente il legno, il tavolo, la badia.
L’indomani sarei andato al campo, incontro alla mia fase pastorale. Avrei iniziato, leggero e amorevole, a dissodare i secoli.

 

La terra x secondi avanti.

Furono costruiti i castelli. Sorsero numerosi in valli e picchi quasi inaccessibili, affacciati su un oceano, circondati da colline. Fu la volta di torri e scale a chiocciola, di merlature, ponti levatoi, fossati. Delle dame dal cappello a punta. Dei cavalli lanciati in corsa verso l’ultima festa. E c’erano le lunghe tavolate la sera, al tramonto, nella condivisione di cibo, danze e conversari. A volte, un certo giorno e a una certa ora, un cavaliere abbracciato alla sua castellana, o un contadino levigato dagli inverni, si bloccavano un attimo, un pensiero li coglieva sul limitare di un bosco o a un davanzale. Era la fantasia su un mondo che avrebbe potuto essere diverso, più crudele. Un mondo torbido di guerre e tornei, di giostre, di torture, dove streghe e demoni, bambini sacrificati, donne violate affidavano ai posteri le loro storie. Era solo un barlume. Un ricordo o una fantasia. Come se ai bordi delle loro coscienze premessero le vicende di un altro pianeta, in un altro tempo, con le brutture e le soperchierie che avevano evitato, ribollente crogiolo di favole tristi. Sorridevano allora al proprio divenire, rinfrancati per sempre. Intonavano inni a quella pace che impregnava la luce sotto la sfera del sole, e oltre, fino al Primo Mobile. Abbracciavano tutta la realtà, ravviandosi i capelli, sbattendo gli occhi. La loro vita li richiamava all’amore per l’amore, per i figli e i poeti. All’essere loro stessi nella fioritura degli istanti.

 

La Terra y secondi avanti.

E arrivò la maturità dell’io cogitans. La possanza dell’io sono. Nacque Leonardo da Vinci, nacque Raffaello Sanzio. Ed erano dei santi. Anche Leon Battista Alberti lo era, così come Paracelso. Pitture, statue, enucleazioni furono avamposti di un solare paradiso. Le città d’arte crebbero su se stesse, visioni minuziose e magmatiche ribollivano nelle menti in connessione, nelle corti si discuteva senza mettere in forse la centralità dell’uomo. I carri varcavano le porte delle città carichi di frutta e gioielli, abiti preziosi, gatti e cani promossi allo spirito. Le botteghe rigurgitavano di merci, i mercati di cibo. Le donne si affacciavano alle finestre e apparivano agli usci delle case con un sorriso privo di sospetto. Gli uomini tornavano stanchi, si toglievano i calzari, davano una carezza al bimbo, dedicavano un sorriso ai vecchi. Tolte le forcine ai capelli, mogli e sorelle esibivano flussi di biondo antico. L’armonia era perseguibile oltre il tappeto, le cassapanche, verso la fuga dei campi coltivati. E Luca Pacioli era un santo, e lo era Thomas Müntzer. Tutti lo dicevano nelle chiese, nelle cappelle, lungo le vie dei pellegrinaggi. Come si era arrivati a quel mondo di ascensioni? Solo alcuni non vi si riconoscevano e capitava che, quando meno se lo aspettavano, sparissero nelle pieghe della realtà. Ci furono un filosofo di Arles, una poetessa di Wittenberg che molti cercarono invano. Avevano amato l’ombra, la debolezza dell’insania, le illusioni voraci. Si raccontò che avevano raggiunto un luogo dove non c’erano santi e si predicava l’inferno, un mondo di sopraffazione e di sangue. Di fiero, avventuroso orgoglio. Il loro mondo, che una legge di affinità e di compensazione aveva richiamato a sé, senza rimpianti perché senza memoria.

 

La terra z secondi avanti.

E il Vecchio Mondo acquisì, dal suo punto di vista, il Nuovo Mondo. Avvenne l’incontro con popoli con altre mitologie e visioni, che non avevano inventato la ruota ma la cui astronomia aveva portato alla consapevolezza cosmica. Uomini piumati e donne in lana d’alpaca ritenevano che il rispetto per ogni forma di vita fosse fondamentale. Furono lasciati alla loro storia di redenzione, tanto simile a quella dell’altra sponda dell’oceano. Da una parte e dall’altra ci si arrese alla verità che l’uomo era fatto per amare, che la realtà di ognuno e di tutti fosse il rigoglio dell’empatia. Per secoli gli scrittori avevano immaginato la crudeltà di re e principi sullo sfondo di plebi vessate, nonché divinità compiaciute del sangue versato, innamorate del dolore. Avevano inventato universi alternativi dove il male prevaleva sul bene. Fantasticherie che erano servite per rafforzare ulteriormente l’idillio terrestre. Se ne rise a lungo, nel Vecchio e nel Nuovo Mondo. Come avevano potuto, quei visionari, arrivare a tanto? E comunque, onore a tutti loro, agli artisti in genere! La capacità di immaginare realtà parallele, di individuare e mimare il male e farne il protagonista di vicissitudini aliene, era preziosa. Senza quelle opere, chissà, il rischio di far prevalere tentazioni malsane sarebbe stato più concreto. Perché questa è la forza dell’arte in ogni epoca: trattenere gli esseri al di qua del loro buio.

 

 

La Terra j secondi avanti.

Quando le credenze, i miti, si unificarono, nacque un’unica fede nella luce dello spirito. Non per nulla gli storici successivi avrebbero parlato di “Illuminismo”. In tutto i mondo si ricevettero le stesse rivelazioni. La conoscenza della realtà dilagò, si espanse. La luce inondò le chiese romaniche intatte, le facciate gotiche italiane, scorrendo negli anfratti del tempo, rigenerando i giorni, le ore. Si diramò, si frantumò. Indusse allegri cosmopolitismi nei circumnavigatori, per cui si ballò molto sulle navi. Ci si divertì nelle molteplici Versailles dei popoli, nel Vecchio e nel Nuovo Mondo, sulle giostre di Ginevra e nei ristoranti sommersi di Recife. Si degustarono granite lungo i sentieri dell’Atlante e ci si baciò alle pendici dell’Everest. Monili, scodelle e dentature scintillavano senza bisogno del sole e della luna. Tutta questa luce che si srotolava nelle savane, nelle città delle zone temperate, che velava di aspirazioni le facciate dei palazzi, penetrò così profondamente dentro ciascuno, nervi e arterie, che si pensò di aver raggiunto l’apice dell’evoluzione. Non era così. Mancava ancora molto progresso materiale e, soprattutto, l’imprescindibile disamoramento dell’io. E questa consapevolezza, comunicata, bisbigliata da una casa all’altra, da un paese all’altro, nutrì di nuove prospettive i bambini che dovevano crescere, che capirono di dover lavorare e uccidere l’orgoglio, ma non a scapito della forza. E questo fu il massimo.

 

La Terra n secondi avanti.

La Città si estendeva su un terzo del globo. La creatività architettonica si sbizzarriva in ogni zona in accordo con la peculiare natura del clima e del terreno. Grattacieli-fungo, cresciuti come benefici tumori, si alternavano in varie altezze, rendendo lo skyline della Città quanto mai mutevole. I quartieri continuavano ad autocoltivarsi, non per aggiungere abitazioni, ma per perfezionarsi, guarire e dirimere. La Città restava per secoli entro il medesimo perimetro. C’era chi per diporto partiva dal centro per raggiungere le spiagge e le foreste e, spesso, si concedeva alcune settimane di sospensione. Per spostarsi c’erano treni levitanti silenziosi, che traevano la loro energia dall'azoto e dall'ossigeno. La popolazione terrestre, viveva, letteralmente, d’aria. Di quanto, da essa estratto e concentrato, avrebbe potuto, di per sé, muovere un altro intero mondo. E gli organismi umani erano altrettanto evoluti. Sottili, leggeri, avevano bisogno di poco cibo. Gli arti snodati favorivano le danze e le attività sportive. Nelle grandi piazze della Città, durante le manifestazioni collettive, si potevano ammirare i corpi slanciati nei loro intrecci, nel loro azzardo e fulgore. Gli abiti aderenti come una seconda pelle, confezionati da algoritmi generati dalle caratteristiche di ognuno, proponevano felici combinazioni di colore e di forme. I musei erano colmi di bellezze del passato, ma, in fondo, non c’era passato, essendo la Città adagiata in uno stabile presente. Era nata con l’uomo e si sarebbe disgregata con esso. C’era chi diceva che, prima che il sole avesse esaurito le sue scorte, l’umanità avrebbe potuto migrare altrove e avere, su qualche mondo intatto, di nuovo la Città. O forse questo era già avvenuto, sosteneva qualcuno, e non si trovavano più sulla stessa Terra in cui la Città era stata costruita. Uno studioso di fama sostenne di avere le prove di ciò e lo ripeté in conferenze molto seguite. In ogni caso, questo non influiva in alcun modo sulla vita quotidiana degli abitanti. Che ci fosse o no già stato il tempo dell’emigrazione, a loro non importava, perché restavano cittadini della Città ma, prima di tutto, dell’universo.

 

mercoledì 25 novembre 2015

LA LAGUNA DI CUBELLI di Fernando Sorrentino


A sud est della pianura di Buenos Aires si trova la laguna di Cubelli che è familiarmente conosciuta col nome di “lago del Caimano Ballerino”. Questo nome popolare è immediato ed espressivo, ma —così come è stato stabilito dal dottor Ludwig Boitus— non risponde alla realtà.
In primo luogo, “laguna” e “lago” sono casi idrografici distinti. Nel secondo, benché il caimano —Caiman yacare (Daudin), della famiglia Alligatoridae— sia tipico dell’America, si dà il caso che questa laguna non costituisca l’habitat di nessuna specie di caimano.
Le sue acque sono estremamente salubri, e la sua fauna e la sua flora sono quelle abituali delle varietà che si sviluppano nel mare. Non può, per tal motivo, considerarsi anomalo il fatto che in questa laguna si trovi una popolazione di circa centotrenta coccodrilli marini.
Il “coccodrillo marino”, ossia il Crocodilus porosus (Schneider), è il più grande di tutti i rettili viventi. Suole raggiungere una lunghezza di circa sette metri e pesare più d’una tonnellata. Il dottor Boitus afferma d’aver visto, sulle coste della Malesia, vari esemplari che superavano i nove metri e, in effetti, ha scattato e fornito fotografie che intendono provare l’esistenza di esemplari di tale grandezza. Essendo però stati fotografati in acque marine, e senza punti esterni di riferimento relativo, non è possibile determinare con precisione se questi veramente avessero la dimensione che loro attribuisce il dottor Boitus. Sarebbe assurdo, è chiaro, dubitare della parola d‘un ricercatore tanto serio e dalla carriera tanto brillante (pur se dal linguaggio un po’ barocco), ma il rigore scientifico esige convalidare i dati secondo metodi inflessibili che, in questo specifico caso, non sono stati posti in pratica.
Succede, tuttavia, che i coccodrilli della laguna di Cubelli possiedono esattamente tutte le caratteristiche tassonomiche di quelli che vivono nelle acque prossime all’India, alla Cina e alla Malesia, onde spetterebbe loro in tutta legittimità il tassativo nome di coccodrilli marini o Crocodili porosi. Esistono, però, alcune differenze che il dottor Boitus ha diviso in caratteristiche morfologiche e caratteristiche etologiche.
Tra le prime la più importante (o, a dir meglio, l’unica) è la dimensione. Così come il coccodrillo marino dell’Asia raggiunge i sette metri di lunghezza, quello che abbiamo nella laguna di Cubelli arriva appena, nel migliore dei casi, a due metri, misura che si ottiene a partire dalla punta del muso fino alla punta della coda.
Riguardo alla sua etologia questo coccodrillo è, secondo Boitus, “incline ai movimenti musicalmente concertati” (o, più semplicemente, “ballerino”, com’è chiamato dalle persone del villaggio di Cubelli). È largamente risaputo che i coccodrilli, stando a terra, sono tanto inoffensivi quanto uno stormo di colombe. Riescono a cacciare ed uccidere solo se si trovano nell’acqua, che è il loro elemento vitale. In esso afferrano la preda tra le loro mandibole dentate e, imprimendo ad essi stessi un veloce movimento di rotazione , la fanno girare sino ad ucciderla; i loro denti non hanno funzione masticatoria ma sono esclusivamente disegnati per imprigionare ed ingerire, intera, la vittima.
Se ci portiamo sulle rive della laguna di Cubelli e mettiamo in funzione un riproduttore di musica avendo preventivamente scelto un brano adatto al ballo, vedremo in seguito che —non diciamo tutti— quasi tutti i coccodrilli escono dall’acqua e, una volta sulla terra, cominciano a ballare al ritmo della melodia in questione.
Per tali ragioni anatomiche e comportamentali questo sauro ha avuto il nome di Crocodilus pusillus saltator (Boitus).
I loro gusti risultano essere ampi ed eclettici ed essi non sembrano far distinzione tra musiche esteticamente valide ed altre di scarso pregio. Accolgono con uguale allegria e buona predisposizione tanto composizioni sinfoniche per balletto che ritmi popolari.
I coccodrilli ballano in posizione eretta solo poggiando sulle zampe posteriori di modo che, in verticale, arrivano ad una statura media d’un metro e settanta centimetri. Per non strascicare la coda sulla pista, la sollevano ad angolo acuto mettendola quasi parallela al dorso. Allo stesso tempo le estremità anteriori (che ben potremmo chiamare mani) seguono il ritmo con diversi gesti assai simpatici, mentre i denti giallastri sfoggiano un enorme sorriso di ottimismo e soddisfazione.
Alcuni del villaggio non sono affatto attratti dall’idea di ballare con dei coccodrilli, ma tanti altri non condividono questo rifiuto e certo è che, ogni sabato all’imbrunire, si vestono di gala e confluiscono sulle rive della laguna. Il club sociale e sportivo di Cubelli ha lì installato tutto il necessario perché le riunioni risultino indimenticabili. Le persone possono anche cenare nel ristorante edificato a pochi passi dalla pista da ballo.
Le braccia del coccodrillo sono poco estese e non arrivano a toccare il corpo del partner. Il cavaliere o la dama, che a seconda dei casi balla col coccodrillo femmina o col coccodrillo maschio prescelto, posa ognuna delle sue mani su una spalla del proprio compagno. Onde effettuare questa operazione conviene distendere al massimo le braccia e mantenere una certa distanza; poiché il muso del coccodrillo è assai pronunciato, la persona dovrà avere la precauzione di piegarsi il più possibile all’indietro: benché in poche occasioni si siano registrati episodi sgradevoli (come ablazione di narice, rottura di globi oculari o decollazione), non si deve scordare che, poiché nella sua dentatura s’incontrano resti cadaverici, l’alito di questo rettile è ben lungi dall’essere attraente.
Tra i cubelliani corre leggenda che, sull’isoletta che occupa il centro della laguna, risiedano il re e la regina dei coccodrilli che, a quanto pare, non l’hanno mai abbandonata. Si dice che ambedue gli esemplari abbiano oltrepassato i due secoli di vita e, forse a causa dell’età avanzata, forse per mero capriccio, non hanno mai voluto partecipare ai balli indetti dal club sociale e sportivo.
Le riunioni non vanno molto oltre la mezzanotte poiché a quell’ora i coccodrilli cominciano a stancarsi e probabilmente ad averne a noia; d’altra parte viene loro fame e, siccome l’accesso al ristorante è a loro vietato, desiderano tornare in acqua in cerca di cibo.
Quando viene il momento in cui nessun coccodrillo è rimasto sulla terraferma, le dame e i cavalieri fanno ritorno al villaggio alquanto stanche ed un po’ tristi, ma con la speranza che forse al prossimo ballo, o forse in qualche altro più in là nel tempo, il re o la regina dei coccodrilli, o forse ambedue contemporaneamente, abbandonino per qualche ora l’isoletta centrale e intervengano alla festa. Con questa aspettativa ogni cavaliere, benché si guardi dal manifestarlo, nutre l’illusione che la regina dei coccodrilli lo scelga come compagno di ballo; lo stesso avviene con tutte le dame, che aspirano a formar coppia col re.

 Prima pubblicazione in lingua originale in: Cuadernos del Minotauro (direttore: Valentín Pérez Venzalá), anno IV, n.° 6, Madrid, 2008, pagg. 117-120. La presente traduzione italiana è stata condotta su una più recente rielaborazione del testo operata dall’autore e presenta solo leggere modifiche rispetto a quella summenzionata.                                                           
(Traduzione e nota di Mario De Bartolomeis)


lunedì 16 novembre 2015

IN NOME DEL FILE di Teresa Regna

“Hai provato con le FAQ? Se non riesci ad ottenere la risposta che vuoi, entra nel Forum e invia una mail all’indirizzo dell’azienda!”, sbottò il ragazzino. Emise uno stanco sospiro, carico di impazienza: insegnare ad un adulto ad usare il computer era un compito di una difficoltà incredibile, quasi impossibile.
La criniera rosso scuro della madre si mosse in un cenno di diniego. “Come faccio ad entrare nel Forum?”, chiese, la voce resa stridula dalla consapevolezza della propria incompetenza informatica.
“Sei un caso disperato”, dichiarò Matthew. Si impossessò del mouse e cliccò sull’icona del Forum, grande quanto una mongolfiera su un campo di football. Eppure la mamma non l’aveva nemmeno vista, come se fosse un singolo pixel.
Lo schermo era completamente nero, più buio della notte profonda, e Matthew era a scuola. Annabelle Larson non sapeva cosa fare: a volte pensava di essere elettronico-fobica, o comunque di poter vantare una totale assenza di neuroni deputati alla comprensione di strumenti elettronici e affini. Riusciva a complicare anche le situazioni più semplici, a sbagliare o saltare i passaggi essenziali, a dimenticare le istruzioni udite un paio di minuti prima; trascinare con il mouse per lei costituiva una fatica immane, e la sola ricerca del giusto file le costava uno sforzo assolutamente inappropriato alla circostanza. Insomma, era un’incapace: persino con il cellulare aveva difficoltà ad andare d’accordo.
Quando guardò con maggiore attenzione il monitor, vide comparire un logo fluttuante, con il nome del figlio a lettere cubitali, color giallo canarino. Sobbalzò, presa da uno spavento tanto improvviso quanto insensato. Pur temendo di combinare qualche pasticcio, provò a cliccare sul mouse. La bocca le si allargò in un sorriso compiaciuto: era comparsa la schermata iniziale, con tutte le icone al posto giusto. Riprese la ricerca del documento, che aveva interrotto per controllare la cottura del pollo al forno, e si ripromise di chiedere a Matthew una delucidazione riguardo allo strano fenomeno che aveva osservato.
“Cosa hai combinato?”. Robert Larson non era propenso a perdonare alla moglie i tentativi andati a vuoto di orientarsi nel dedalo di files che popolavano la memoria del suo PC. Non quando si concretizzavano nella cancellazione involontaria di dati di cui aveva bisogno, in ogni caso.
“Non ne ho idea”, confessò la donna, in tono quanto mai sincero.
“Vediamo se riesco a rimediare ai pasticci della mamma”, si intromise Matthew. Era ormai rassegnato a trascorrere le serate a fare da istruttore alla donna maldestra e pasticciona che l’aveva partorito undici anni prima. E, anche se non era proprio la sua occupazione preferita, rimetteva il computer in piena efficienza senza pronunciare una sola parola di protesta.
 ***
“Questo è il giorno più bello della mia vita!”, esclamò Matthew, un attimo prima di raccogliere il fiato necessario a spegnere le dodici candeline disposte a cerchio sulla torta. La glassa color della neve che la ricopriva aveva l’aspetto di una vera squisitezza; tutti i suoi amici erano ammassati intorno al tavolo, con in testa buffi cappellini e in bocca trombette dal suono acuto, e applaudivano freneticamente, neanche fossero stati invitati da una star del rock. Alyssa gli sorrideva, con un’espressione estatica stampata sul volto, dal lato opposto del tavolo, esibendo il suo splendido corpo da dodicenne avvolto in un corto vestitino fucsia. La sua prima, vera ragazza: una bellezza bionda da mozzare il fiato, che i compagni di classe gli invidiavano e la mamma adorava.
Annabelle, infatti, osservava con sguardo amorevole la fidanzatina del figlio, gli amici riuniti per festeggiarlo, la torta che aveva preparato per l’occasione, i robot super colorati che aveva ingaggiato per animare la festa di compleanno; con comprensibile orgoglio, invece, sbirciava, di tanto in tanto, uno dei regali destinati a Matthew: un biglietto di compleanno commissionato ad un sito specializzato, che aveva ideato, realizzato e stampato lei stessa. In quindici copie, per dimostrare al marito e agli amici di non essere più una perfetta imbecille informatica.
Mentre i ragazzi, guidati da uno degli animatori, si rincorrevano impugnando dei laser giocattolo, Alyssa si avvicinò all’unica persona adulta presente. “Complimenti per la torta, signora Larson: era ottima”, asserì.
Era sempre tanto compita e beneducata che Annabelle l’avrebbe adottata, se avesse potuto. “Grazie, cara”, le rispose, in tono allegro. “Ti stai divertendo?”:
“Certo, e molto”.
La banale conversazione, tipico scambio di battute tra un adulto e un ragazzo, venne bruscamente interrotta dall’arrivo di Robert Larson, che gratificò la moglie di un bacio appena accennato su una guancia.
Alyssa, dopo averlo salutato con cortesia, si affrettò ad allontanarsi. Raccolse un laser caduto sull’erba bassa,
e cominciò ad inseguire un compagno di classe, brandendo l’arma senza grinta né convinzione.
Il gioco ebbe termine con la cattura di alcuni prigionieri da parte della squadra del festeggiato, il quale li sottopose, per punire la loro incapacità guerresca, ad una terribile tortura: il solletico.
Robert e Annabelle si unirono alle risate squillanti dei ragazzi, lieti che la festa fosse stata un successo.
Quella sera, a cena, Matthew, rivolgendosi alla madre, sbottò “Ho ricevuto da te i due regali più belli della giornata”. Lo sguardo carico di stupore della donna gli strappò un sorriso divertito. “Parlo della festa e del biglietto d’auguri”, spiegò. “Ha fatto tutto da sola”, proseguì, volgendo il viso verso il padre. “E credo che non abbia più bisogno di lezioni di informatica”.
Annabelle scompigliò i capelli del figlio con una carezza affettuosa. “Tutto merito dell’insegnante”, affermò.
***
“Questo è il giorno più brutto della mia vita”, esalò Matthew, con un filo di voce. Aveva esaurito le lacrime: il dolore aveva scavato un solco profondo nel suo cuore di adolescente. Fissò lo sguardo cupo in quello ancora più cupo del padre, e lo sfidò “Io vado di sopra, nella mia camera. Se gli ospiti che si stanno rimpinzando di dolci vogliono vedermi, che vengano a cercarmi: non resterò qui un minuto di più”.
Robert lo guardò correre su per le scale, situate in una nicchia dell’ampio soggiorno, ed emise un sospiro sconsolato. Era d’accordo con il figlio, ma non poteva esimersi dal rimanere inchiodato al pavimento, distribuendo strette di mano e ricevendo pacche sulla spalla. Come se la perdita di Annabelle potesse essere compensata da una parvenza di contatto umano e da un banchetto di proporzioni colossali, offerto da solleciti vicini e parenti che non vedeva da anni.
“Povero ragazzo”, disse una vecchia zia, raggrinzita dagli anni, che ostentava una parure di brillanti sull’abito da lutto disegnato da un famoso stilista. “Cosa farà, senza la madre?”.
“Si accontenterà del padre”, borbottò Robert, a mezza voce. Strinse i pugni, maledicendo il pirata della strada che aveva cancellato dalla sua vita sia la moglie che la gioia di vivere, e si avviò a passo cadenzato verso la cucina. Accanto al tavolo ricolmo di ogni ben di Dio, vide Alyssa, che sbocconcellava svogliatamente una fetta di torta di mele. “Va’ da lui”, la pregò.
La ragazza gli rivolse un sorriso mesto, depose in tutta fretta il piattino di carta e si avviò in direzione della porta che dava nel soggiorno. Arrivata davanti alla camera di Matthew, bussò con delicatezza. Quando ebbe ottenuto in risposta un grugnito inintelligibile, si decise ad entrare.
Il ragazzo giaceva sul letto sfatto, a faccia in giù nel cuscino. “Vattene!”, ordinò, senza la convinzione che avrebbe fatto capire alla fidanzatina che aveva davvero intenzione di escluderla dal suo dolore.
“Non posso: tuo padre mi ha chiesto di salire”.
“E tu non puoi fare a  meno  di  obbedirgli,  vero?  Sei troppo perfetta!”.
“Io, perfetta? Vuoi scherzare?”. Nonostante si fosse schermita, Alyssa sapeva di essere diversa dalle altre ragazze: obbediente, beneducata, gentile, sincera. Costituiva la risposta alle preghiere di ogni madre. 
“Anche la mamma ne era convinta”, proseguì Matthew, in tono accorato. “Mi ripeteva sempre che non avrei potuto trovare una fidanzata più dolce di te”.
Sedendo sul letto, accanto al ragazzo, Alyssa fece il gesto di scompigliargli i capelli. Venne bloccata da una mano ferma che le agguantò il polso.
“Non farlo: mi ricorda troppo la mamma. E non voglio ricominciare a piangere”.
“Perché non accendi il computer? Potremmo giocare a pinball, l’uno contro l’altro”; propose la ragazza. “Forse riusciresti a distrarti”.
Matthew si drizzò a sedere. “Buona idea”, convenne. Accese il PC, ma non cliccò immediatamente sui giochi. “Prima vediamo se c’è posta per me”. Aprì l’Outlook Express, scelse il bottone ‘connesso’ e attese i pochi secondi necessari affinché il computer effettuasse l’operazione. La cassettina verde lo avvertì che stava ricevendo un messaggio, ma nessun mittente apparve accanto alla minuscola busta. Si voltò verso Alyssa, in cerca di un consiglio spassionato. “Cosa faccio, apro ugualmente?”.
“E se ci fosse qualche virus?”, gli rilanciò la ragazza.
“Il programma di protezione ha funzionato fino ad oggi: non ho nulla di cui preoccuparmi”. La curiosità era una molla più potente del pericolo che il suo software avrebbe potuto correre.
“La decisione spetta a te: il computer è tuo”.
“O.K.”. Cliccò sul messaggio anonimo, strinse forte gli occhi, poi li sbarrò di scatto. “Vorrei sapere chi è quell’idiota che fa questi scherzi!”, sbottò.
Alyssa si sporse dietro le sue spalle e lesse ‘Non darti pena per me: sono in un posto stupendo. Ti amo tanto. Mamma’. Rispettando lo sgomento del ragazzo, preferì non commentare il messaggio.
Matthew cercò il conforto di cui aveva un disperato bisogno tra le braccia della fidanzatina. La strinse brevemente, con forza, poi rivolse di nuovo lo sguardo allo schermo. Un altro messaggio, anch’esso senza mittente, aveva fatto la sua comparsa.
Lo lessero insieme, intenzionati a cercare il colpevole, l’essere abietto che non rispettava nemmeno il più atroce dei dolori. ‘Non è uno scherzo, tesoro. Posso comunicare con te attraverso il computer: è sufficiente che pensi intensamente cosa voglio dirti e il messaggio compare nella posta destinata a te. Anche se non posso vederti, riesco ad indovinare i tuoi pensieri. Alyssa è lì con te, vero? Sento la sua presenza: è come se una nuvola di positività avvolgesse la tua mente. Sarò con te ogni volta che lo vorrai, in modo che non ti senta mai solo. Ma non dirlo a tuo padre: non capirebbe. Sarà il nostro piccolo segreto. Mamma’.
Una lacrima solcò la guancia pallida del ragazzo, seguita a ruota dalla sua gemella. Posò la mano sullo schermo, accarezzando le parole appena lette. “Mamma”, sospirò. “Provami che sei davvero tu...”. Si interruppe, tirando su col naso, e  passò  il  dorso della  mano  sugli occhi.
Un terzo messaggio si materializzò all’istante. ‘Ricordi quando ti prendevo in giro per la tua passione per il computer? Dicevo che prima o poi sarebbe divenuto la tua vera religione. In nome del file...’.

 

 

lunedì 9 novembre 2015

I LIKE di Peppe Murro

Chiudiamo Facebook, gridava il sociologo, dove ai bambini si ruba l'infanzia e gli adulti rincretiniscono verso un'adolescenza fasulla, dove si scrive di niente e si offre ai venditori ogni informazione su di noi e le nostre scelte, dove le nostre paure sono messe in piazza per non guardarle in faccia in solitudine.
Chiudiamo Facebook, questo mostro cui assomigliamo ogni giorno di più, nel vuoto chiassoso di menti svuotate.
E scriveva e gridava, con l'anima tormentata di chi vuol rifare il mondo.
Non ci crederete, raggiunse novemila "mi piace" e forse si suicidò.