venerdì 26 aprile 2013

IL MOSTRO di Giuseppe C. Budetta


La platea si azzittì. C’era ancora del movimento in sala. Alcuni s’affrettarono a prendere posto sulle poltrone perimetrali, col lungo tavolo del buffet posizionato di fronte al palcoscenico, a non molta distanza da esso. Nelle prime file, alcuni si spostavano con le poltrone per dare posto ai nuovi sopraggiunti. Da una porticina laterale sbucò il grande Rigor Mortis mascherato. La maschera rendeva il volto mostruoso: labbra enormi, zigomi brufolosi, il mento deforme e la capigliatura arruffata da orango. Come un vero attore, Rigor Mortis si portò al centro della scena. Si spensero le luci, mentre solo alcuni riflettori agli angoli illuminavano il personaggio. La voce cavernosa franse il silenzio tenebroso della sala. Rigor Mortis disse:
“Sono un mostro diverso dal solito e striscio nei veli dell’esistenza.”
La platea degli spettatori aveva notato la reale tonalità femminile della voce, benché contraffatta da una cupa sonorità, ampliata dalle vibrazioni della bocca mascherata. Si trattava di Galla Placidia, travestitasi da mostro. Il corpo slanciato e snello. Il padrone della villa dove c’era il ricevimento serale con tanti ospiti di riguardo, aveva avuto l’originale idea di far esibire la sua amante mascherata da mostro sulla pedana da ballo. Il ricco padrone della villa le aveva raccomandato di non esibire il volto alla gente e di andarsene via dalla scena da mascherata. Girando lo sguardo qua e là, la bella donna travestita da mostro continuò l’angosciosa cantilena:
“Sono un mostro che vaga nel buio. Amo restare nell’ombra che è la parte più vera del mondo. Lavoro soltanto per dissipare. Amo le feste insensate, il lusso dispendioso ed improduttivo. Io vivo nella maledizione. Amo il riso, l’ebbrezza, l’efferatezza erotica, il male ed infine la morte. Io amo tutto ciò che per gli altri è impossibile.
Vivo nel Labirinto ch’esiste da sempre. So cosa sono: un’entità di sole parole. So dove sto e non ignoro il buio luogo da cui vengo. La mia origine è nei viventi che sono al di là di questo mio mondo. Per quanto percorra di giorno e di notte tutti gli anfratti che mi girano attorno, non trovo l’uscita e non esco all’esterno, né raggiungo la soglia del Labirinto, scavato nei Sogni. In me, la mente umana spande rami profondi e forma per gemmazione nuove caverne, cunicoli e anfratti. La mia esistenza è tra la vita e la morte, tra ordine e caos, tra Essere e Nulla. Ognuno vorrebbe ignorarmi e non guardare il mio loco. Sembra che nessuno mi veda, o ci faccia caso. Seppure ignorato, scavo senza dolore nelle altrui caverne e nel momento in cui lo scavo è completo, espongo il materiale sterrato alla luce del sole. Si tratta di materia grumosa, informe e caotica che riempie gli abissi dell’esistenza.
Vedete? Escrescenze e protuberanze mi coprono il corpo di scaglie, aculei e piaghe. Sono un mostro di…pura follia e senza specchiarmi da sempre lo so. Mi nutro di gente nel mio Labirinto per caso caduta. Alcuni vi entrano senza saperlo; s’aggirano cauti con apprensione, con paura ed angoscia. Guardano gli anfratti, ascoltano eventuali rumori; a tentoni avanzano entro le forre crepuscolari. Impauriti per chimeriche ombre, i miei prigionieri elevano grida ed invocano aiuto. Nessuno sente, nessuno risponde ai loro forti, continui richiami. La gente comune è altrove. Altrove c’è gioia e benessere. La vita vera è oltre la soglia del Labirinto, scavato nei sogni. Le mie vittime vagano senza riposo in questi anfratti, cupi e profondi.
Tutti cercano con la fuga l’uscita, la libertà, anelando la vita felice, ma nella trama sottile e cangiante, cadono esausti ed hanno la morte. Li assalgo famelico cogli artigli pungenti. Attanagliati dalla mia forza, li sbrano con le fauci taglienti-sanguinolenti e l’ingoio nelle viscere putrescenti. La gente lì fuori si ama e si aiuta, ma se cade per caso in questa rete d’inconsce caverne è per sempre perduta. Più si dimena contro il destino e più si avvicina alle mie possenti, fameliche brame. La salvezza è altrove. Nella mia tela tutta interiore, non c’è speranza. Sono il mostro che come il ragno aspetta le prede nella sua trappola buia.

Nessuno sforzo aiuta i perdenti, caduti per sempre nel Labirinto.”

Il cupo soliloquio era terminato. Si erano accese le luci ed un lungo applauso accompagnò la snella figura tenebrosa che si avviò verso la porticina da cui era entrata, quasi di soppiatto. Qualcuno disse che era stato uno spettacolo di cattivo gusto. Qualcuno disse che strideva con l’ambiente festoso. Maria Bissettis disse: “Quelle parole mi mettono i brividi addosso.”
Il padrone della villa disse: “Il mostro non farà vittime. Ci sono qua io a proteggere tutti.”
La bella Koschignotis, occhioni scuri su una pelle diafana, sottolineati dal trucco smoky, estrinsecò il dubbio: “Secondo me, è una donna mascherata da mostro.”
Era ripreso il chiacchiericcio tra gli ospiti che consumavano sciampagna ed altre bibite. Luce soffusa e tenebrosa nella grande sala. Ripensando alle parole ascoltate dalla persona mascherata da mostro, qualcuno aveva i brividi addosso.

(Per gentile concessione dell'Autore)

2 commenti:

  1. Come sempre molto bravo il nostro Giuseppe. Racconto avvincente.

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  2. Bella atmosfera, evocata con un linguaggio di eleganza gotica. Mi fa venire in mente "La Maschera della Morte Rossa" del sommo Poe.

    Giuseppe Novellino

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