venerdì 4 ottobre 2013

LA MATRIOSKA – L’EVOLUZIONE di Massimo Licari

Moreno rientrò a casa verso le tre del pomeriggio.
Il microchip che aveva impiantato sotto pelle nella spalla destra segnalò il suo arrivo al computer centrale del palazzo nel quale abitava che, a sua volta, verificò i dati identificativi con quelli presenti nel sistema anagrafico mondiale.
In poche frazioni di secondo, la sua identità fu confermata e la porta del palazzo si aprì con uno scatto.
«Buona sera signor Butti» disse la calda voce femminile del computer.
«Buona sera» rispose lui, incapace di non essere cortese con chi gli mostrava gentilezza, anche se si trattava di una macchina in grado di provare emozioni molto limitate.
Percorse il breve tratto che lo separava dall’ascensore che aprì le porte scorrevoli con tempismo perfetto. Entrò nella cabina e si appoggiò alla parete, mentre le porte si chiudevano e l’ascensore partiva diretto al cinquantesimo piano.
Lì c’era solo il suo appartamento. Non appena uscì dall’ascensore, la porta di ingresso si aprì con un leggero sospiro.
Entrò in casa, salutato dalla voce del suo computer.
«Buona sera Moreno».
«Ciao Annabelle, tutto bene?»
«Certamente» rispose il computer. «La temperatura in questo momento è di venti gradi e il tasso di umidità del cinquantacinque per cento. Se gradisci fare una doccia, posso riscaldare il bagno o se preferisci mangiare qualcosa posso attivare immediatamente la cucina».
«Grazie Annabelle, prima mi stenderò un po'».
Con il computer di casa andava meglio. Generalmente erano modelli dotati di maggior capacità di provare ed esprimere emozioni. Parlare con loro era più gratificante e anche più sensato.
Moreno si distese sul letto che era al centro della stanza. Immediatamente le grandi finestre si polarizzarono, riducendo la luminosità di un buon cinquanta per cento.
«Gradisci della musica in sottofondo?» chiese amabilmente Annabelle.
«No, grazie. Vorrei dormire un po'».
«Devo impostare la sveglia?»
«No, Annabelle» disse lui leggermente esasperato per le continue richieste del computer. «Mi sveglierò quando ne avrò abbastanza. E ora, per favore, mettiti in attesa. Ti chiamerò io quando avrò bisogno di te».
«Come desideri» rispose Annabelle.
Si era innervosito, ma, si disse, era inutile prendersela con il computer. Era stato programmato per prendersi cura di lui e non aveva senso arrabbiarsi.
Tutti i computer dalla seconda metà del ventunesimo secolo erano stati programmati per liberare gli uomini dalla schiavitù del lavoro e di tutte le attività che prima erano costretti a fare in prima persona.
Ai computer erano state delegate le attività lavorative, politiche e di polizia.
Era iniziata un’era di pace e benessere sociale, come non si era visto dall’inizio della storia dell’umanità.
L’idea era quella di lasciare l’uomo libero di esprimere la propria creatività e di occuparsi di cose veramente importanti, come stare in mezzo alla natura, prendersi cura degli animali, dei figli e così via.
Il risultato finale però non era stato previsto: l’umanità aveva cominciato ad annoiarsi.
I notiziari erano stati aboliti perché non c’erano più sommosse, scioperi, omicidi, crisi politiche e altro, e alle persone, evidentemente, non interessava informarsi di tutto ciò che di buono veniva fatto quotidianamente.
I notiziari più seguiti, in passato, erano quelli delle tragedie, dei morti, delle difficoltà. Tutta roba che era stata relegata in qualche angolo remoto nella memoria dei vecchi.
L’apatia stava cominciando a piagare gli esseri umani, fino a quando venne messo a punto il generatore neuronale, una macchina in grado di proiettare chi la provava in una realtà virtuale creata dalla sua mente.
Era una sorta di sogno nel quale la persona si immergeva per vivere qualsiasi fantasia decidesse di sperimentare. La parte razionale della mente esercitava un minimo controllo, così da non inibire la parte oscura, che era libera di prendere il controllo.
Gli uomini potevano scaricare le proprie frustrazioni e perversioni con buona pace della società.
Moreno aveva provato la macchina, come tutti gli altri, ma non ne era particolarmente attratto. Preferiva vivere la vita davvero, anche se a volte sentiva dentro di sé il vuoto lasciato dall’assenza dei problemi.
«Le difficoltà sono il sale della vita» diceva sua nonna. Lui ci credeva, ma era solo teoria. Di difficoltà e problemi non ne sapeva nulla.
Un altro motivo per cui non apprezzava la macchina era più sottile.
Il generatore neuronale aveva privato l’umanità della capacità di sognare spontaneamente. Induceva negli uomini una condizione molto simile a quella di un sogno. Come conseguenza, senza gli stimoli prodotti dalla macchina gli uomini non sognavano più.
Moreno era una delle poche eccezioni: lui riusciva ancora a sognare e, soprattutto, gli piaceva.
Non era l’unico, perché molte altre persone avevano questa capacità, ma i più la consideravano una bizzarria da artisti.
Le giornate di Moreno spesso erano monotone. Usciva la mattina per fare una passeggiata nel grande parco che occupava la parte centrale della città e rientrava a mezzogiorno per pranzare. Nel pomeriggio a volte faceva un altro giro nel parco, altre volte si avventurava fino alla spiaggia e rimaneva a guardare il mare ben oltre il tramonto.
Non c’erano molte persone in giro durante il giorno. Erano quasi tutti attaccati alle loro macchine immersi nelle realtà virtuali create dal loro subconscio. Le strade si affollavano la sera, quando i generatori smettevano di funzionare. Era una delle misure di sicurezza obbligatorie che aveva impedito l’estinzione della razza umana.
Dopo le diciannove e fino alle otto del mattino, i generatori neuronali non funzionavano più. Le persone erano così costrette a mangiare, uscire da casa e fare vita sociale. In una parola, erano costretti a vivere.
Moreno cercava sempre di rientrare a casa prima che i palazzi vomitassero orde di persone che avevano vissuto fino a quel momento nella realtà virtuale creata dalla loro fantasia.
A lui non andava di mischiarsi con quella gente, di ascoltare i racconti di vicende mai vissute davvero e di perversioni consumate nello spazio di qualche istante attaccati ai sensori del generatore. Si, perché gli studiosi avevano notato che il cervello umano poneva dei limiti alla quantità di informazioni trasmesse dalla macchina.
Un minuto nella realtà corrispondeva a un’ora circa all’interno della realtà virtuale. La quantità di esperienze che potevano essere accumulate in un’ora reale era tale da mandare il cervello in tilt. Così le persone avevano sviluppato un meccanismo di difesa naturale: dopo qualche istante il cervello metteva in sospensione le funzioni preposte alla gestione della realtà virtuale consentendo alle altre funzioni cerebrali di elaborare i dati ricevuti dalla macchina.
Il viaggiante, come veniva chiamato colui viveva nella realtà virtuale, si bloccava, come se fosse stato messo in standby e contemporaneamente si bloccava tutta la realtà nella quale era immerso. Il viaggiatore, ossia la persona reale attaccata al generatore neuronale, non percepiva lo stop, perché la sua mente era impegnata a elaborare le informazioni ricevute.
Il risultato finale era la sensazione di aver vissuto intensamente tutto il tempo passato nella macchina. In realtà, l’esperienza si riduceva spesso a poche decine di minuti nell’arco di una giornata.
Moreno pian piano scivolò nel sonno e, mentre oltrepassava la soglia della percezione cosciente, mormorò: «Selene».
Gli era apparsa diverse volte in sogno, di una bellezza divina, ma sfuggente come un alito di vento tra le dita. L’aveva inseguita, chiamata, desiderata, ma non era mai riuscito a raggiungerla.
Ed eccola materializzarsi ancora una volta nella sua realtà onirica.
Lei gli fece cenno di seguirla e lui cominciò a correrle dietro.
Era deciso a raggiungerla, ma lei era veloce e abile a schivare le insidie del luogo ove si svolgeva il sogno.
Quando infine arrivarono presso la riva di un fiume, Moreno si convinse di averla finalmente raggiunta. Lei gli fece cenno di fermarsi lì dove si trovava, a pochi metri da lei.
Lo fissò negli occhi e gli parlò con dolcezza: «Vorrei stare con te, ma questo è solo un sogno. Io vorrei sentire il tocco della tua pelle nella realtà, non in questo sogno».
Lui la fissò perplesso.
«Cosa vuol dire che questo è un sogno?» chiese.
«In questo momento ti sembra di vivere davvero la realtà, ma stai sognando. Se conservassi memoria della tua vita reale, lo sapresti».
«Ma questa non è la realtà?» chiese Moreno con un senso crescente di angoscia.
«No. Nella realtà tu sei nel tuo letto a casa che stai dormendo. Non riesci a ricordare?»
«No. Mi sembra di essere qui da sempre».
«Vieni, prendi le mie mani» disse lei porgendo le mani così che lui potesse prenderle.
Le prese le mani e lei disse: «Adesso concentrati e cerca di essere consapevole: questo è un sogno».
«Non riesco, non posso. Io sono reale» disse lui.
«È l’inganno di Maya» disse lei.
«Maya?»
«Maya è illusione del mondo fenomenico che nasconde la realtà assoluta».
«Non capisco. Troppo complicato».
Lei si staccò dalla sua presa e si mise di fronte al fiume. Fece un gesto con la mano, come se volesse spolverare la riva opposta, e l’aria cominciò a condensarsi, fino a formare un ponte che passava da riva a riva.
Lui fece un salto all’indietro per lo stupore.
«Com’è possibile tutto questo?» le chiese.
«Perché questo è un sogno, un’illusione, il parto della tua mente. Puoi realizzare quello che vuoi quando te ne rendi conto».
Lui la guardò perplesso.
«Prova» l’esortò lei.
Si concentrò e cercò di materializzare qualcosa.
In effetti ci fu un tremolio dell’aria, ma nulla di più.
«Devi crederci. Dai, ce la puoi fare!» disse lei piena di entusiasmo.
Moreno riprovò e alla fine riuscì a materializzare un fiore bellissimo, che porse a Selene.
«Bravo!» esclamò lei. «E adesso cerca di vedere te stesso che stai sognando».
Lui si concentrò e desiderò intensamente vedere se stesso che dormiva.
La scena intorno a lui cambiò. Il fiume lasciò il posto a un appartamento in penombra. Avanti a lui c’era una grande camera con un letto al centro nel quale stava dormendo…
Fu colpito dal poter osservare sé stesso che dormiva.
Ora, però, non riusciva più a vedere Selene.
Si guardò intorno, ma lei non c’era.
Mentre si stava disperando, sentì una voce giungere alla mente: «Sono qui, non puoi vedermi, ma sono accanto a te».
«Selene!» esclamò.
«Hai deciso di vedere te stesso escludendo il resto, per questo non puoi vedermi. Ma io sono qui, accanto a te».
«Cosa succede se mi sveglio?» chiese lui a quel punto.
«Questo te stesso svanirebbe lasciando dietro di sé solo una debole traccia fatta di ricordi, che la tua mente razionale potrebbe dimenticare».
«E così ti perderei ancora una volta con i miei sogni. Dio, quanto vorrei che tu fossi reale».
«Ma io sono reale. Sono riuscita a raggiungerti con molta fatica, ma non sono solo un sogno. Sono qui perché mi sono innamorata di te e voglio averti davvero, non solo in un sogno».
«Allora dimmi come faccio a trovarti. Dove devo cercare?».
«In questa realtà, che è il tuo sogno, io sono presente, ma posso solo parlarti. Quando ti sveglierai, il sogno svanirà, e con esso anche io. Ma quella che tu credi essere la realtà, è un’altra proiezione. Il tuo appartamento, il tuo computer, il parco, il mare. È una realtà che la tua mente ha creato grazie al generatore neuronale».
«Oddio. Vuoi dire che questo è il sogno che sta facendo un altro sogno?»
«In qualche modo si, anche se è più complicato, perché c’è di mezzo il generatore. Ecco, io appartengo alla realtà che ha generato il te stesso che stai vedendo dormire e che ti sta sognando».
«Cosa devo fare?» chiese Moreno.
«Devi cercare di ricordare questo sogno e, quando ti sveglierai, devi uscire anche da quel sogno per riuscire a trovarmi».
«Sembra tutto così complicato. Come faccio a uscire da quel sogno?».
«Devi esplorare ciò che non hai mai esplorato prima e troverai la risposta».
«Perché la fai così complicata?»
«Perché non ho risposte. Io ho trovato la via per raggiungerti, ma non so come farti uscire da lì. Ognuno di noi deve trovare la sua via e…».
Mentre lei continuava a parlare ogni cosa sbiadì tremolando.
La stanza si dissolse e Moreno riaprì gli occhi.
«Ben svegliato Moreno» disse la calda voce di Annabelle.
«Grazie. Che strano sogno ho fatto» disse lui.
«Ne vuoi parlare?» chiese premurosamente il computer.
«No. Ho bisogno di concentrarmi, perché ho sognato qualcosa di importante ma non ricordo esattamente cosa».
«Magari parlarne potrebbe aiutarti».
«Zitta Annabelle. Lasciami pensare» disse bruscamente lui.
Il computer non aggiunse altro.
Lui si sforzò di far risalire alla mente il sogno che aveva fatto.
Dopo qualche istante esclamò: «Selene!».
E poi, via via, i ricordi tornarono.
Era davvero uno strano sogno.
Ma se quello che aveva detto Selene era vero, anche questa non era realtà, ma una proiezione della sua mente.
Tentò di andare indietro con i ricordi per capire da quanto tempo stava vivendo quella vita. Gli sembrava di essere lì da sempre.
Aveva ricordi di quando era bambino, dei suoi genitori, dei suoi nonni. Difficile pensare che quella non fosse la realtà.
Ma se anche quello fosse stato un sogno? Magari i ricordi che aveva erano quelli del suo io che stava sognando.
Cosa aveva detto Selene?
Di cercare là dove non aveva mai cercato.
Cosa poteva significare? Non capiva.
Poi ripensò alla sua vita.
Era piuttosto ripetitiva. Ogni mattina al parco, ogni pomeriggio in giro. Quanto aveva esplorato della realtà che lo circondava? Poco, davvero poco.
Ma da dove cominciare?
Dal suo palazzo, ecco da dove partire.
Non aveva mai visto il quarantanovesimo piano, e via via quelli sotto. Poteva partire da lì.
Si avvicinò alla porta per uscire e cominciare subito la sua esplorazione.
La porta non si aprì.
«Dove vai Moreno?» chiese Annabelle.
«Voglio uscire a fare un giro» rispose lui.
«Di solito non esci a quest’ora».
«È vero, ma oggi ho voglia di fare qualcosa di diverso. Apri la porta?»
«Non so se posso farlo. Non sono programmata per fare qualcosa di imprevisto».
«Annabelle, io desidero, io VOGLIO che tu apra la porta».
La porta si aprì con uno scatto.
Moreno uscì nel piccolo pianerottolo. L’ascensore rimase chiuso, ma non era quello che gli interessava. Non c’erano i tasti dei piani in quell’ascensore. Il computer del palazzo sapeva dove portare le persone e non c’era bisogno di pigiare alcun bottone.
Lui, però, voleva fare qualcosa di insolito, di imprevisto: vedere gli altri piani.
Così si diresse verso la porta a lato del pianerottolo che probabilmente portava alle scale.
La aprì e si fermò a guardare sbigottito. Non c’erano scale. Non c’era nulla.
Il suo piano sembrava sospeso nel nulla. Sotto di lui c’era solo lo scheletro del palazzo e niente altro.
Tornò verso l’ascensore.
Non c’era nemmeno il tasto per chiamarlo al piano, perché solitamente non ce n’era bisogno.
«Ascensore!» urlò. Nulla.
«Voglio VOGLIO l’ascensore» disse con decisione, provando dentro sé la ferma intenzione di ottenere quello che stava chiedendo.
Immediatamente le porte dell’ascensore si aprirono, lasciandolo entrare.
Fece il solito percorso per arrivare al piano terreno e uscì dal palazzo.
Si guardò intorno, come se fosse la prima volta che si trovava lì. E in effetti, in un certo senso, era così.
Cominciò a correre verso il palazzo che si ergeva un centinaio di metri più in là.
Ovviamente la porta non si aprì. E lui ripeté la stessa formula: VOGLIO che la porta si apra.
Oltrepassò la porta di vetro e vide che dietro non c’era nulla. Il palazzo era solo una facciata vuota, come la sagoma di uno scenario cinematografico.
L’idea che quella fosse una realtà virtuale cominciava a prendere corpo. Evidentemente la sua mente, che l’aveva creata, non aveva creato un mondo intero. Aveva popolato solo ciò che gli interessava, riducendo il resto a sagome da scena.
A quel punto espresse con grande determinazione la volontà di poter vedere il sé stesso che era attaccato al generatore neuronale.
Il mondo che lo circondava tremò e svanì, lasciando posto a una stanzetta dove c’era lui su un lettino attaccato a una decina di sensori.
Ecco, finalmente poteva uscire da quella realtà virtuale. Avrebbe potuto abbracciare Selene e vivere con lei una storia vera, reale.
Si avvicinò al se stesso che dormiva per cercare di svegliarlo.
Tutto cominciò a tremare e a sbiadire lentamente.
Lui, che era il viaggiante, ma anche quello che doveva essere il viaggiatore.
Ogni cosa svanì in un istante.

* * *

«Wow, che viaggio!» esclamò Moreno, mentre si staccava i sensori del generatore neuronale.
«È stata una bella esperienza?» chiese l’uomo con il camice bianco che lo stava aiutando ad alzarsi dal lettino.
«Si, ho vissuto una realtà nella quale avevo provato un altro generatore neuronale che aveva prodotto una realtà nella quale avevo sognato di essere una persona reale».
«Accidenti, un viaggio complicato» disse con tono ammirato il tecnico.
«Eh, sì, direi proprio di sì».
«Ben tornato allora».
«Grazie. È bello poter essere di nuovo nella realtà, dopo tutte queste realtà virtuali».
«Bene. Qui ho finito. Ci vediamo la prossima volta, allora».
«Grazie. A presto» disse Moreno.
Uscì dall’agenzia «Viaggi virtuali» e si guardò intorno. La solita realtà caotica di Milano, piena di gente e di attività.
«Bella l’idea del cercare là dove non si è mai cercato» disse a sé stesso ripensando all’esperienza appena vissuta.
Cominciò a incamminarsi verso l’autobus antigravitazionale che l’avrebbe ricondotto a casa.
Poi, con uno scarto improvviso e del tutto istintivo, entrò nel portone che si era aperto alla sua sinistra per lasciar uscire una ragazza carina.
Percorse il breve tratto verso il giardino interno e si fermò a osservare il palazzo dall’interno.
Sgomento osservò il nulla oltre la facciata.

3 commenti:

  1. Wow! Ancora casini con i viaggi virtuali? Molto meglio dell'ultimo, davvero! Ciao, Massimo.

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  2. Bel racconto, quello di Massimo: più che una continuazione, davvero una evoluzione dei viaggi virtuali iniziati nel primo racconto LA MATRIOSKA. Chissà se ci sarà una conclusione, magari in un terzo racconto?
    Intanto salutiamo cordialmente Gianluca Santeramo, che speriamo di vedere ancora commentare i racconti di Pegasus.

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  3. Potrebbe venirne fuori una bella trilogia.
    Interessante anche questo racconto. Mi ha fatto venire in mente la bellissima serie tv di qualche decennio fa: Quantum leap, anche se il contesto era diverso.

    Antonio Ognibene

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