venerdì 24 ottobre 2014

L'ARRUOLAMENTO Di Fabio Calabrese



Avevo deciso di andarmene da casa. Ci avevo pensato sopra a lungo, e mi sembrava la soluzione migliore. Ne avevo parlato coi miei, prima mi ero confidato con papà e mamma, poi avevo parlato apertamente con i miei fratelli e le sorelle. Eravamo una famiglia di contadini, e il fazzoletto di terra su cui ci piegavamo la schiena tutti i giorni, non era sufficiente a sfamarci tutti, eravamo una famiglia troppo numerosa.
Da una parte, i miei erano dispiaciuti all'idea di vedermi andare via, ma erano anche sollevati al pensiero di dividere il poco che avevamo con una bocca in meno.
Eravamo seduti a tavola per la nostra parca cena qualche giorno prima di quello fissato per la mia partenza, e mio padre e mia madre mi avevano già dato la loro benedizione, che era pressappoco l'unica cosa che potessero darmi.
“Cosa pensi di fare?”, mi chiese Jen, il mio fratello che era il primo nato dopo di me e aveva quasi la mia età.
“Beh”, dissi, “le occasioni di lavoro in città non mancano”.
“Si, è vero”, rispose lui, “ma a fare il lavorante a giornata ti tocca spaccarti la schiena da mattina a sera per un tozzo di pane”.
“Mi adatterò se non trovo di meglio”, dissi, “ma la mia intenzione non è questa”.
“Potresti andare a servizio da qualche signore”, disse lui.
“Ci ho pensato”, risposi, “ma ormai non credo di avere più l'età per imparare a fare il valletto. Bisogna aver imparato il galateo, i modi fini, il linguaggio che piacciono ai signori aristocratici. Solo le belle ragazze, quelle le prendono a servizio comunque”.
“Potresti metterti le sottane e farti crescere i capelli lunghi”, celiò lui, “ma non so proprio dove potresti trovare un paio di poppe di quelle che piacciono ai signori”.
Gli risposi con una manata sulla spalla.
“No, non sono proprio il tipo!”
“E allora cosa vuoi fare?”
Ho pensato di arruolarmi”, dissi. “Vorrei fare il soldato”.
Adesso Jen non scherzava più, e anche gli altri miei familiari erano rimasti in silenzio.
“Ne sei ben sicuro?”, mi chiese mio padre.
Annuii.
“Certo”, dissi. “La disciplina è dura, ma sei sicuro di mangiare tutti i giorni senza spaccarti il filo della schiena”.
“Si”, disse mio padre. “Ma in caso di guerra...”.
“Ecco, vedi”, risposi, “ci ho pensato a lungo. A ben guardare, corrono più rischi i civili: senza armi per difendersi, esposti ai saccheggi, a rischio di perdere la casa, i campi, la famiglia”.
“Bene”, concluse il mio vecchio, “se pensi che questo sia il destino migliore per te, hai la nostra benedizione”.

Partii la mattina del secondo giorno successivo, dopo aver abbracciato tutti i miei familiari e con la promessa di dare loro notizie appena mi fosse stato possibile.
Un pezzo della strada fino alla città lo feci dopo aver ottenuto un passaggio su un carro di fieno, ma il più lo percorsi con le mie gambe; per fortuna ero un buon camminatore, e le mie quattro cose messe in un fagotto che portavo a spalla mediante un bastone, non è che pesassero un granché.
Mi fermai in un sobborgo dove era più facile trovare un posto dove dormire e qualcosa da mettere sotto i denti che fossero alla portata dei miei pochi spiccioli, naturalmente se non si era troppo schizzinosi.
Non riuscivo a credere alla mia fortuna: era là, dopo due giorni che giravo a vuoto, l'avevo finalmente trovato. Era un uomo di mezza età, magro, non molto alto, vestito con un abito sobrio di discreta fattura, con una semicalvizie che gli allargava la fronte in direzione della nuca. Poteva essere un mercante in viaggio per affari, ma non ne aveva l’aria; un contadino non era di sicuro, né di certo era un nobile, a meno che non fosse spaventosamente decaduto. Poteva essere un ladro di quelli che frequentano le taverne pronti ad alleggerire i viaggiatori distratti, ma in questo caso avrebbe fatto il possibile per non essere notato, invece cercava di attirare l’attenzione, e non era un biscazziere, un baro, non aveva né dadi né carte. Era un tipo che faceva dei gran sorrisi, attaccava discorso e offriva da bere a chi gli capitava, ostentando una bonarietà che era però smentita da certi sguardi furbeschi di sottecchi. Aveva a tracolla una borsa da scrivano, di quelle che contengono fogli, penne, pennini, boccette d’inchiostro e gli dei sanno cos’altro.
Capii di essermi imbattuto proprio nell’uomo che cercavo, un arruolatore. L’impero è sempre avido di uomini, soprattutto per le guarnigioni delle marche settentrionali, per proteggersi dalle incursioni delle popolazioni barbariche del lontano nord. Gli arruolatori erano abili a persuadere i giovani a entrare nell’esercito, ed erano assai poco scrupolosi; spesso accadeva che qualche contadinotto arrivasse in città per vendere i suoi prodotti, accettasse da bere, bevesse qualche bicchiere in più e si trovasse vincolato a vita da un contratto dove aveva messo uno scarabocchio senza capire cosa stava facendo e senza sapere né leggere né scrivere.
Certo, mi sarei potuto rivolgere a qualsiasi comando imperiale, ma mi tentava l’idea di imbrogliare uno di questi ingannatori di professione, scroccare da bere e magari una cena per persuadermi a qualcosa che comunque ero intenzionato a fare.
Dopo averlo studiato per un po’, incrociai il suo campo visivo in un modo che sembrasse casuale.
“Ehilà, baldo giovane!”, esclamò lui girandosi verso di me con aria di finta cordialità.
Io accennai un saluto cercando di non mostrarmi troppo interessato.
Beh, quel tipo ci sapeva fare a chiacchiere! Mi ritrovai impegnato in una lunga conversazione mentre lui spingeva verso di me un boccale dietro l’altro di vario contenuto: vino, birra, sidro, idromele, tutto l’occorrente, soprattutto se ben mescolato, per prendere una sbornia solenne.
Stetti bene attento a bagnarmi appena le labbra, a mostrarmi molto meno sobrio di quanto non fossi, e a snocciolargli esattamente quel che lui voleva sentirsi dire.
Gli raccontai di appartenere a una famiglia di contadini e che ero insoddisfatto del tipo di vita che conducevo, naturalmente stando ben attento a non rivelargli la mia intenzione di arruolarmi ben prima di incontrarlo.
Mi sentivo euforico: non c’è nulla di più esilarante che imbrogliare un furbo di tre cotte.
Mi chiese se avevo legami sentimentali o c’erano malattie nella mia famiglia.
Risposi negativamente.
A questo punto l’arruolatore mi fece una domanda che mi sorprese.
“E dimmi”, mi chiese, “per caso soffri di vertigini?”
Vertigini, io? Durante la stagione della mietitura ero sempre il più pronto e il più svelto ad arrampicarmi in cima ai pali che dovevano diventare “l’anima” dei pagliai. Risposi di no, ache se non capivo il senso della domanda.
La cosa parve compiacerlo molto.
“Credo tu sia perfetto”, disse, “per il reggimento dei dragoni”.
“Dragoni?”, pensai. Meglio, decisamente meglio far parte delle truppe montate che dei fantaccini costretti a lunghe marce con pesanti zaini. Non riuscivo a credere alla sfacciataggine della mia fortuna.
Estrasse dalla borsa da scrivano un plico di fogli coperti di timbri multicolori e vergati con una grafia minuta di difficile lettura.
“Ecco”, disse, “firma qui e qui”.
Firmai senza esitare.
Il giorno dopo fu una giornata di spostamenti. Mi ritrovai insieme ad altri arruolati indirizzato a un centro di raccolta, poi da questo a uno più grande e da questo infine alla caserma dei dragoni. Nell’ultimo spostamento eravamo una dozzina di giovani che camminavano in fila indiana (nessuno pretendeva che sapessimo già andare al passo militare). Ci aveva presi in consegna un anziano sergente scortato da due guardie in divisa e armate.
“Non fateci troppo caso”, ci disse con fare gioviale. “Sapete, ci sono certuni che si mostrano riluttanti, subito dopo arruolati vorrebbero rimangiarsi la parola data, ma naturalmente non è il vostro caso. I dragoni sono un corpo di élite, e chi è riluttante fin dall’inizio di certo non ci arriva. Vedrete, sarete fieri di farne parte”.
Arrivammo alla caserma verso l’imbrunire. Era un edificio molto grande, o piuttosto una serie di edifici. Ci ritrovammo a percorrere dei lunghi corridoi verso l’economato dove saremmo stati iscritti nel libro paga e avremmo ricevuto l’equipaggiamento.
Passammo davanti all’armeria. Su di una rastrelliera, disposte in file orizzontali sovrapposte – non si sarebbero potute mettere verticalmente, erano più alte del soffitto – vidi delle lunghe armi che il sergente che ci faceva da guida chiamò semplicemente “picche”. Io le guardai perplesso: avevano delle lame di forma lunata e più che altro mi parvero somigliare a delle falci fienaie dal manico molto lungo.
Le osservai stupito e mi chiesi come si potevano maneggiare con efficacia armi del genere se non ci si trovava in una posizione sopraelevata di qualche metro rispetto al nemico.
Ci diedero l'equipaggiamento. L'uniforme comprendeva una sopravveste colorata molto decorativa con l'insegna del drago di colore rosso molto bene in vista sul petto, e un elmo col cimiero a forma di drago, ma quelli – ci disse il sergente – li avremmo messi soltanto per le parate. L'uniforme da fatica che avremmo usato tutti i giorni era molto meno sgargiante: un giubbotto di cuoio brunito, calzoni muniti di gambali che proteggevano l'interno delle cosce, stivali alti fin sotto il ginocchio, e un casco di cuoio che avremmo indossato normalmente invece dell'elmo da parata.
C'erano degli anelli metallici sia sulla cintola del giubbotto sia sui gambali. Chiesi al sergente a cosa servissero.
“Oh quelli?”, rispose, “Sono per fissarti all'imbragatura”.
Non osai chiedere altro.
A sera, a cena gustammo il primo rancio militare della nostra vita. Beh, era meglio e più abbondante della maggior parte dei pasti che avevo fatto fin allora in vita mia.
Alla ritirata andai a distendermi sulla branda che mi era stata assegnata: era più comoda dei pagliericci cui ero abituato. Vitto, alloggio, vestiario a carico dello stato, più uno stipendio. Ero proprio soddisfatto.
La sveglia arrivò l'indomani mattina al termine di una notte in cui avevo dormito profondamente e serenamente. Anche questo non era poi un gran sacrificio; spesso per i lavori dei campi mi toccava alzarmi all'alba.
Dopo una rapida colazione e l'adunata, il sergente che era l'istruttore delle reclute radunò noi novellini e ci disse:
“Ragazzi, andiamo nelle scuderie. Vi faccio conoscere gli animali che vi sono stati assegnati. L'importante è creare da subito un buon rapporto fra l'uomo e la sua cavalcatura”.
La prima cosa che mi colpì quando entrammo nel grande edificio adibito a scuderia, fu l'odore, non somigliava per nulla a quello delle stalle che mi erano familiari, pareva piuttosto quello che può ristagnare in un rettilario.
Il locale era suddiviso in varie celle, e ciascuno di noi fu indirizzato a una di esse, a prendere confidenza con la propria bestia.
Quella che da allora in avanti sarebbe stata la mia cavalcatura si girò verso di me, allargò le ali cuoiose e puntò nella mia direzione la testa in cima al lungo collo serpentino.

2 commenti:

  1. Come al solito, racconto avvincente e ben scritto. Ringrazio Fabio della assidua e valida collaborazione.

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