venerdì 27 dicembre 2013

L'OSPITE di Fabio Calabrese



A John Londra non piaceva, la trovava una città sporca, brutta, maleodorante, sovraffollata, lo infastidivano la volgarità e la sordidezza che si potevano scorgere a ogni angolo, la fuliggine e i fumi carichi di scorie che riempivano a ogni momento l'aria e che nelle giornate nebbiose, tutt'altro che rare, si trasformavano in una cappa greve e untuosa che avvolgeva ogni cosa, le piaghe e gli stracci che si scorgevano per ogni dove, le prostitute agli angoli delle strade con le facce pesantemente truccate fino a sembrare delle maschere, gli ubriachi dall'alito nauseabondo, l'odore di corpi umani sudati, di orina, di vomito, di sterco di cavallo che si diffondeva per ogni dove e ristagnava soprattutto nelle giornate in cui l'aria era immobile.
D'altra parte, era proprio in quella formicolante umanità, che John poteva più facilmente trovare senza dare troppo nell'occhio quel che gli serviva.
I lampionai erano passati da poco ed avevano acceso le smorte fiammelle dei lampioni a gas, quel sistema d'illuminazione introdotto da qualche anno e che era vantato come una delle meraviglie della capitale britannica, ma a John sembrava che servisse soltanto a trarre dagli angoli smorti dei palazzi e dalle stradine buie ombre ancora più tetre.
Un rumore di zoccoli frenetici sull'acciottolato lo costrinse ad appiattirsi contro il muro, mentre una carrozza, una vettura di piazza trainata da una pariglia di cavalli che il cocchiere sferzava senza pietà, gli passava rasente nella strada stretta.
Quei vetturini, gli venne da pensare, erano dei veri incoscienti, capaci di correre il rischio di ammazzare qualcuno per pochi scellini in più, pur di accontentare un cliente presumibilmente danaroso che avesse fretta, magari per arrivare in tempo a qualche appuntamento galante.
Poco più avanti scorse l'insegna di uno slum, di un'osteria: non se ne distingueva bene il nome, perché le due lanterne affissi ai lati dell'architrave della porta emettevano una luce fioca contornata da ombre strane. Non che la cosa facesse molta differenza: l'una di quelle tane valeva l'altra. Avvicinandosi, l'odore di alcool, di orina, di vomito che impestava il vicolo e tutto il quartiere, si faceva più forte e dava un'idea precisa di come il proletariato londinese, o almeno la componente maschile di esso, consumasse il poco tempo libero di cui disponeva.
Spinse il battente della porta ed entrò. Fu subito investito da un'aria greve e fumosa, dove il fumo delle candele si mischiava a quello del tabacco. L'ambiente era male illuminato, uno stanzone lungo, buio e stretto, con in fondo il banco delle mescite e  tavoli e sedie disposti in due lunghe file affollati di uomini intenti a bere, a vuotare uno dopo l'altro boccali di birra, a ruttare, a imprecare, qualcuno a giocare con certe carte bisunte e quasi indecifrabili.  
Le persone che John vedeva nella penombra fumosa erano quasi tutti uomini, eccetto qualche ragazza abbigliata e truccata in maniera vistosa, certamente prostitute in cerca di clienti.
Gli uomini erano operai abbrutiti dal lavoro massacrante e dalla miseria. Guardandoli, John capiva che la prospera borghesia londinese stava accumulando un debito sempre più pesante nei loro confronti, un debito che un giorno avrebbe pagato con gli interessi, e sarebbe stata dura. Ma non erano il tipo di uomini che cercava.
John stava per uscire, quando lo scorse, un uomo seduto quasi in fondo allo stanzone, seduto a un tavolo davanti a un boccale e una bottiglia di birra che stava metodicamente vuotando: era, lo si vedeva subito, di una categoria diversa dagli altri avventori: aveva i lineamenti più fini e vestiva un abito di buona fattura anche se molto consunto dall'uso, era fin troppo chiaro che era un uomo di un ambiente diverso, che aveva deciso di abbrutirsi nell'alcool per annegare qualche dispiacere.
John scivolò a fianco dell'uomo e afferrò la bottiglia che questi stava sollevando per riempire nuovamente il boccale.
“Basta, amico”, disse, “per stasera hai bevuto abbastanza”.
Istintivamente l'uomo cercò di strappare la bottiglia dalla mano di John, ma era come cercare di svellere un palo di ferro infisso nel terreno: la stretta del nuovo venuto era incredibilmente forte. L'altro fissò lo sguardo negli occhi di John; per un istante in esso fu possibile leggere un'intenzione omicida, ma si calmò subito. John lo sapeva da una lunga lista di precedenti esperienze: c'era un che di ipnotico nel suo sguardo.
L'altro uomo ebbe l'impressione che gli occhi di John fossero arrossati, no rossi, nemmeno, era come se ci fossero due aloni di luce rossastra attorno alle orbite.
“Stai cercando di annegare i tuoi guai nella birra, non è vero?, disse John con tono rilassato. “Lascia perdere, non serve a nulla, i guai sanno nuotare benissimo. Perché non provi piuttosto a parlarmene?”
La reazione dell'uomo quasi sorprese John, era come se da qualche parte fosse stato levato un tappo, era chiaro che di cose che gli gravavano sull'animo l'uomo ne aveva parecchie.
“È tutta colpa di quell'avaraccio del vecchio Phineas”, disse. E giù tutta una stura di rivelazioni.
A quanto pareva, l'uomo era un impiegato-commesso-tuttofare di uno dei negozi che si affacciavano sulle strade della City. Il padrone lo sfruttava senza riguardo, facendolo lavorare tanto e pagandolo poco, né d'altra parte gli mostrava molta riconoscenza. L'uomo, Martin Rhees, aveva detto di chiamarsi, era sposato da un paio d'anni, e lui e la moglie volevano avere un bambino, e Martin era angustiato per il poco che era riuscito a offrire alla moglie o poteva dare al figlio quando fosse arrivato. Aveva chiesto un aumento al padrone che aveva reagito malissimo, minacciando di licenziarlo per un errore che aveva appena scoperto nella contabilità. Martin si era depresso, vedendo sfumare o almeno traballare tutti i suoi sogni, peraltro modesti.
“Amico”, disse John, “ne ho visti parecchi di casi come il tuo. Tu devi sapere che ti trovi esattamente sull'orlo di un precipizio, ma sei ancora in tempo a fermarti. Mettiamo che continui a cercare il conforto di quella roba lì”. E indicò la bottiglia che aveva posato sul tavolo. “Ti dico io quello che succederà. Diventerai sempre più attaccato alla birra e ad alcolici più forti. Il tuo lavoro ne risentirà, diverrai più distratto e trascurato, farai sempre più errori, e il vecchio Phineas ti butterà in mezzo alla strada. Con tua moglie, magari le alzerai le mani addosso per sfogare la tua rabbia e il tuo senso di fallimento, ma anche se non succederà, un marito che ritorna a casa ubriaco, quando torna e non trascorre la notte dormendo sotto una panca, non è un bello spettacolo. Perderai il lavoro, perderai la famiglia, ti ridurrai a un rottame”.
“Allora cosa mi consigli di fare?”, chiese Martin.
“Per prima cosa”, rispose John, “smettere subito di bere. Ti accompagno a casa, una bella dormita e domani vedrai tutto sotto un altro aspetto. Il tuo capo ha minacciato di  licenziarti, ma puoi stare sicuro che non lo farà. È vero, le strade sono piene di disperati che ambirebbero al tuo posto di lavoro, ma nessuno lo sa fare, nessuno lo conosce come te, e penso che Phineas lo sappia. Penso che finirà per concederti l'aumento”.
“Grazie, amico”, disse Martin rinfrancato. “Io non so se te l'ho detto, ma io sono Martin, Martin Rhees, tu come ti chiami?”
“John”, rispose l'interessato.
“E di cognome?”
“Catacano”.
“Catacano? E che razza di cognome è?”
Martin era perplesso.
“E' per via di un mio antenato”, mentì John, “spagnolo o romeno, non so bene”.
“Ahhhh!”
John pagò la consumazione e accompagnò Martin fuori dal locale sorreggendolo.
Se quando era entrato nel vicolo, John era stato colpito dal cattivo odore, ora, uscendo da quella specie di antro fumoso, l'aria notturna che cominciava a farsi pungente, sembrava fresca e limpida.
“Dove andiamo?”, domandò Martin.
“Ti accompagno a casa, è ovvio”, rispose John.
Fortunatamente, l'uomo era abbastanza lucido da ricordarsi la strada, e la camminata l'avrebbe aiutato.
Non era vicinissimo ma nemmeno troppo lontano, anche se John si accorse che avevano cambiato quartiere, lì le case erano più in buono stato, avevano un aspetto più decente delle miserabili catapecchie che affollavano il quartiere operaio.
Forse sarebbe stato troppo pretendere che Martin abitasse in una villetta monofamiliare invece che in un appartamento in condominio, ma – pensò John – tutto sommato cambiava poco, raramente i vicini erano un problema.
Martin aprì il portone dopo aver cercato con una certa fatica le chiavi nella tasca, e fece strada a John. Salirono le scale fino a terzo piano.
Davanti alla soglia di casa, John si bloccò.
“Non farò più un passo”, disse, “se non mi inviti a entrare”.
“Mi sembrava implicito”, disse Martin, “va bene, entra. Sei mio ospite”.
Fece un passo oltre la soglia, seguito da John, e chiamò ad alta voce:
“Dora!”
Dora, la moglie di Martin arrivò trafelata. John vide che era una donna giovane di aspetto piacente e dall'aria delicata: bionda, con i grandi occhi azzurri che spiccavano nel viso, l'incarnato chiaro, i lineamenti sottili.
Guardandola, John si chiese una volta di più perché mai la moda di quell'epoca imponesse alle donne un abbigliamento che le infagottava.
“Martin”, disse, “per fortuna sei a casa, ero così preoccupata. È tardi ma ti ho aspettato per cenare”.
Martin indicò John.
“È tutto merito di questo gentiluomo”, disse. “Non fosse per lui, starei a rotolarmi sotto la panca di un lurido slum con la pancia piena di birra e la testa vuota”.
E cominciò a raccontare tutto quanto era successo.
Dora si rivolse direttamente a John:
“Signore”, chiese, “vuole farci l'onore di rimanere a mangiare un boccone di cena con noi?”
L'interessato pensò che fosse più opportuno non rifiutare, anche se la cosa non gli garbava per nulla.
Martin fece strada inoltrandosi nel corridoio di casa.
Passando davanti alla porta della cucina, John fu colto da un violento senso di nausea che lo costrinse ad appiattirsi contro la parete opposta. L'odore era disgustoso: in cucina doveva esserci dell'aglio.
Martin si precipitò a sorreggerlo.
“Che succede, John?”, chiese in tono premuroso.
“Niente”, rispose lui, “solo un lieve malore, ma sta già passando”.
Martin e Dora erano di buon umore, conversarono per tutta la sera. John seguiva la conversazione distrattamente, rispondendo quel tanto che era richiesto dall'educazione. Assaggiò poco il cibo, e quel poco, con l'abilità dell'abitudine, senza farsene accorgere lo passò in un fazzoletto che fece sparire in una tasca.
Terminato il pasto, e rimasto quel tanto che l'educazione richiedeva, John salutò i due ospiti ringraziandoli della piacevole serata.
Aspettò un paio d'ore, il tempo per i suoi ospiti di andare a dormire e di prendere sonno. Salì direttamente fin davanti alla finestra della camera da letto al terzo piano, in questa maniera evitava di passare per il corridoio davanti alla porta della cucina. La finestra era chiusa, ma questo non era un problema, non lo sarebbe stato neppure se avesse deciso di fare le scale passando per il portone e per la porta dell'appartamento: porte e finestre chiuse e chiavistelli non erano un problema per entrare in una casa in cui era stato invitato.
Attraversò le imposte e i vetri senza aprirli, silenziosamente, ed entrò nella stanza.
Constatò subito che non c'erano crocifissi sulla testiera del letto, immagini sacre o altri impedimenti.
Spostò la sua attenzione su Martin e Dora. I due dormivano teneramente abbracciati.
Guardandoli, John provò una sensazione di tenerezza e – per un istante – una fitta di nostalgia. L'amore era una delle cose che più gli mancavano. Da secoli.
Ma naturalmente, aveva avuto un motivo meno altruista e più personale per fare in modo che quei due se ne andassero a letto tranquilli e senza farsi cattivo sangue.

3 commenti:

  1. Riprendiamo le pubblicazioni con questo racconto, avvincente e pieno di suspense. Racconto decisamente weird.

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  2. Bello questo racconto! L'atmosfera del quartiere di Londra è così ben descritta che sono riuscito a viverla quasi fossi presente anch'io.
    Complimenti!

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  3. Sui vampiri se ne sono lette e viste di tutti i colori, ma questa mi sembra davvero originale. Un succhiasangue approdato in una Londra di fine Ottocento (mi fa venire in mente il buon vecchio Dracula di Bram Stocker) fa una buona azione al fine di pasteggiare meglio. A lui non va il sangue avariato, tanto meno quello inquinato dall'alcool. Allora salva Martin dall'ubriachezza, lo rimette fra le braccia della bionda mogliettina... insomma, ricompone il quadretto familiare e poi si prepara a succhiar loro il fluido vitale. Ma può anche darsi che la buona azione non sia così utilitaristica. Il vampiro sente la nostalgia per l'armonia di coppia, che tutto sommato ha a che fare con i crocifissi e con altre immagini sacre (e forse anche con l'aglio, umile frutto dell'orto, capace di rendere appetitose talune vivande... e amico della sana convivialità) e dunque, forse, non è lui del tutto un mostro (vampiresco, appunto) ma una vittima a sua volta, una creatura di questo misterioso universo di cui tutti facciamo parte.
    Il racconto e lineare, semplice e molto suggestivo. Belle le atmosfere che rimandono un po' a Jack lo Squartatore.

    Giuseppe Novellino

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