venerdì 5 agosto 2016

FUOCO FRANCESE di Frank Bernardi


Il "fuoco francese" è un'infiammazione del cavo orale che porta alla comparsa di dolorose placche che si inspessiscono; il fenomeno interessa soprattutto gli adolescenti. Si accompagna a stati d'ansia e visioni notturne. Nel tardo Medioevo alcuni medici "francesi" credettero di leggere in ogni placca una lettera dell'alfabeto. Ne seguì la vera e propria moda di trarre dalle placche un vaticinio.
Molti medici francesi vaganti per le campagne avevano la spaventosa abitudine di recare con sé un ragazzetto infetto (dopo averlo comprato per qualche moneta da una famiglia ben contenta di sbarazzarsi di una bocca per lo più divenuta del tutto inutile e maledetta) in maniera da potere arrotondare i miseri compensi derivanti dall’arte medica con gli incassi dovuti ai vaticini. I ragazzetti infetti morivano dopo un anno circa, mese più mese meno, semestre più semestre meno, col sangue irrimediabilmente avvelenato.
Tale pratica del fuoco francese (e naturalmente l'infezione cui si doveva il morbo stesso) si dice sia resistita per un secolo circa, per poi scomparire con gradualità. In realtà se ne trovano tracce e testimonianze anche in età illuminista.
Il “fuoco”, che oggi non si chiama più con tale appellativo e che si cura con pasticche di potassio, almeno in una prima fase dall'esito di solito fausto, regrediva all’apparenza. Per poi ripresentarsi con placche più robuste di prima, sulle quali i medici leggevano le lettere immaginarie. Ma la pacchia e lo sfruttamento non sarebbero durati ad libitum.
Col tempo le placche micidiali apparivano anche nelle zone riproduttive della disgraziata gioventù, finché il soggetto rendeva l’anima tra le febbri che lo divoravano. Particolarmente richiesti i vaticini in limine mortis, perché del maiale non si butta via nulla. Non si butta nulla oggi, in tempi di relativa abbondanza, figuriamoci secoli fa... Del resto, come si immagina, i vaticini in limine mortis erano considerati quelli più veritieri perché più vicini all’aldilà. Col perdurare di simili aberrazioni anche nel settecento, il castello illuminista con tutti i suoi addentellati di illusione e riscatto si sgretolava. Cosi' come il fondo di benignità originaria di uno stato di natura. Nella natura lasciata allo stato brado proliferava anche il necessario ingrediente della morte, di fronte al quale lo sguardo si abbassava, intimorito o sdegnato. Non restava che rimandare la salvezza della carne, cioe' il qui ed ora, ad un altro mondo, infinitamente distante. Un po' come avviene oggi, con la cosmesi infinita che inizia quando il corpo vive ancora - e spera segretamente o fa finta di niente - e prosegue nella bara esposta, irrisione ultima dopo un'esistenza trascorsa all'oscuro di tutto. Un po' come avveniva un tempo. Stato di natura o inganno grande?
Ecco piuttosto le piccole tristi carovane, o le avresti definite immonde comunità, condotte dai “medici” dalle palandrane lise con le decorazioni sudicie e strappate. Medici in babbucce bucate, le unghie dei piedi bluastre e ritorte, o con i piedi infilati in quelle che erano oramai parodie di scarpini dal tacco consunto. Medici con tanto di frustino ricavato da un ramo, utile per castigare e guidare la mandria. Carovane composte di fanciullini mocciosi e febbricitanti, le labbra riarse, gli occhi lucidi, le ininterrotte flussioni di muco grigio e rossastro.  Fanciullini che, curiosamente consapevoli della parte loro riservata, mugolavano nenie da internati e rivolgevano lo sguardo obliquo al cielo. Una preghiera al dio cattivo e un'implorazione per un avanzo qualsiasi.
Fanciullini che venivano invitati a spalancare la bocca per offrire lo spettacolo corrotto e insostenibile di quei cavi orali, di quelle mucose invase dalle placche di pus. Ogni placca una lettera. “Tornerà mio figlio dalla guerra?”, chiede l’illusa contadina. “Oui”, legge il medico in bocca al ragazzo ormai esperto. “I suoi occhi vedono quelli di Cristo crocifisso”, racconta alla contadina il medico capobranco. E intende sottolineare quanto il vaticino sia veritiero, totalmente degno di fede, poiché quel fanciullino lì che ha spalancato le fauci, tutta una piaga, tutto un bruciore, non ha che un mese di vita, due al massimo, e perciò l’anima sua è più di là che di qua, e dunque da quella bocca giovane e dilaniata dal fuoco francese non può che uscire la verità. “Ora pagatemi, donna, o il lieto annuncio può riversarsi nel suo esatto contrario. Avete capito?”. La contadina non ha compreso proprio tutto, parola per parola, ma il concetto centrale e la minaccia contenuta nel medesimo le sono più che chiari. Non ha monete, può offrire solo un paio di polli vivi. “E sia”, sbuffa il medico. “Ma non basta”, aggiunge. Così la donna dà fondo alla dispensa e tira fuori una caciotta. L’avido artiglio del medico prende il formaggio e lo fa scivolare in un sacco dove i polli si dibattono. “Tutto qui?”, sottolinea. Al che la misera si inginocchia a mani giunte e confessa d’aver finito ogni scorta. Il medico brontola, le dà le spalle e si allontana coi ragazzi, di cui tre tenuti al guinzaglio. “Andiamo!”, sibila con voce roca dando uno strattone alla corda da cui si dipartono tre cappi che circondano il collo degli sventurati schiavi ammalati. Ammalati e deboli, incapaci di scappare, ma bravi a fare scena. La truppa si allontana, mentre la contadina resta lì in ginocchio e prega, prega la vergine che le ridia il figlio maggiore partito a forza per qualche guerra.
 

1 commento:

  1. Beh penso che lo scrittore abbia sia una vena letteraria che un notevole senso storico. Spero ne scriva altri che abbiano il gusto e la "leggerezza" di questo assaggio narrativo.

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