martedì 25 giugno 2013

LA CADUTA di Sauro Nieddu




Nonostante la strada fosse tortuosa, dall'alto del valico si riusciva a vedere che il primo tratto della discesa era deserto. Il ciclista innestò il rapporto più duro e spinse con violenza sui pedali. Era raro trovare così libero quel tratto della strada costiera, almeno con l'alta stagione alle porte. Giorgio era deciso ad approfittare dell'occasione; niente lo esaltava di più che sentire la strada correre veloce sotto le ruote sottili della sua bicicletta, le vibrazioni tramettersi lungo la forcella dall'asfalto rugoso direttamente alle sue mani. L'instabilità del mezzo lo faceva sentire appeso a un filo, ma allo stesso tempo lo inebriava la sua capacità di tenere il controllo.
Prese rapidamente velocità, ma imprecò tra sé e sé, quando a causa della traiettoria d'ingresso troppo stretta, alla prima curva fu costretto a tirare i freni più del dovuto; avrebbe perso cinque o sei chilometri orari per tutto il rettilineo. Si congratulò invece con se stesso per la perfezione, forse dovuta alla scarsa velocità di entrata, con cui disegnò il tornante successivo. Nella veloce semicurva a destra, da fare senza toccare i freni, buttò l'occhio sul tachimetro; ottantanove all'ora, e si sentivano tutti. Si preparò alla piega del doppio tornante che lo attendeva, immaginando la bici come la mina di un compasso che disegnava la curva ideale. All'improvviso una lepre balzò dal ciglio della strada proprio sul suo punto di frenata. Giorgio aveva troppa esperienza per provare a staccare in extremis o evitare l'ostacolo, il suo destino era di centrare il rosicante in pieno per poi cadere; era inevitabile. La ruota anteriore s'impennò nello scontro, vide il bordo della strada corrergli incontro mentre cercava di buttarsi a terra. L'urto lo aveva però sbalzato dal sellino, e  nel breve tempo a disposizione non riuscì ad accennare una reazione. Assieme alla bicicletta, scavalcò il basso muro in pietra e finì giù per la scarpata.
Quando aprì gli occhi, era steso su un fianco, il sole aveva da poco superato lo zenit e gli arroventava il lato del viso esposto. Sentiva un’arsura tremenda. Poi venne il dolore e perse nuovamente conoscenza.
Rinvenne, non doveva essere passato molto perché il sole non si era quasi mosso. Sentiva un tremendo dolore al torace, e anche il braccio sinistro doveva essere rotto. La sete lo attanagliava, provò a muovere la testa per vedere dove fossero la bicicletta con la borraccia, ma era immerso nella macchia e la visibilità era limitata ad appena qualche decina di centimetri. Stringendo i denti per la sofferenza guardò in alto, ma neanche la strada era in vista. Lucido in maniera incongruente, si rese conto che era molto probabile che lui stesso non fosse visibile dalla strada. Inutile aspettarsi un soccorso, quindi; se voleva uscire da quella situazione, avrebbe dovuto farlo da solo. Sentì una macchina passare da qualche parte sopra di lui, provò a chiamare ma il torace, sottoposto allo sforzo, gli rimandò indietro una fitta di dolore che lo fece svenire ancora.
Si stava facendo sera, quando si riebbe. Nonostante il dolore e il braccio rotto, la frescura lo incoraggiò a trascinarsi in cima alla rupe. Solo allora si ricordò di avere le gambe, erano l'unica parte che non doleva. Se ne ricordò solo nel momento in cui provò a usarle per strisciare più agevolmente ed esse non risposero, provò a toccarle col braccio buono, ma era come toccare delle pietre, fredde e immobili; nella caduta doveva aver picchiato la schiena. Da lì fu un delirio continuo. Per un momento ebbe la sensazione di una luce che lo avvolgeva poi ancora il vuoto. Al nuovo risveglio si trovò davvero circondato da una luce violetta e tenue.
Fece uno scatto con la testa, per lo stupore; la sofferenza era svanita. Si accorse di trovarsi su una sorta di tavolo, dalle braccia e dalle gambe spuntavano i tubi di una flebo. Girò il capo a destra e a sinistra per capire dove si trovasse, ma la luce era davvero troppo fioca perché lo sguardo arrivasse fino alle pareti della stanza. Riuscì però a vedere che ai suoi lati c'erano altre figure umane stese sui tavoli, tutte, come lui, aggrovigliate nei tubi, tutte incoscienti. Pareva un ospedale, era stato salvato dunque. Non sentendo più dolore provò a inspirare profondamente, e non sentì alcuna fitta. Incoraggiato da questo primo esperimento, mosse il braccio sinistro e anche questo eseguì gli ordini senza trasmettergli alcun dolore. Allarmato, si chiese quanto tempo fosse passato dall'incidente. L'allarme cessò, mutato in una vaga speranza; provò a muovere le gambe, ormai date per spacciate, e si rese conto che anch'esse erano tornate a funzionare. Gioì della scoperta inaspettata. Si chiese poi in che razza di ospedale lo avessero portato, ne aveva visti tanti, di persona e al televisore, e mai uno che somigliasse a questo, poi vittima della stanchezza emotiva, si addormentò.
Si svegliò per un attimo sdraiato sulla pancia, sentiva una strana sensazione alla schiena, quasi qualcuno lo stesse grattando, la luce violetta era ancora più debole e gli consentiva appena di vedere il tavolo di fianco al suo. Udì come una musica, o forse delle voci, ma erano troppo liquide e svelte perché si distinguessero parole; una nenia monotona e ossessiva. Vide il suo vicino di letto voltarsi dalla sua parte, aprire gli occhi. Lo sguardo era carico di terrore, vuoto di ogni volontà. Le palpebre gli si serrarono e tornò l'oblio del sonno.
Si svegliò sulla sua bicicletta, pedalava verso casa sotto il sole cocente. Sentì la testa girargli e dovette chiudere per un attimo gli occhi; com'era finito di nuovo in sella? Come in quella stessa strada dove per poco non era morto? Durò un istante, poi dovette riaprirli per non finire di nuovo a terra, ma all'atto stesso di farlo si rese conto che in realtà non li aveva mai chiusi. Non sentiva più dolore né fatica per la pedalata, non sentiva il suo corpo. Cercò di voltarsi, ma il suo sguardo non si mosse, fisso sulla strada davanti a lui. Benché il suo corpo apparisse calmo e rilassato sul sellino, la sua mente fu invasa dal panico; come poteva essere? Cos'era successo? Il panico sembrò scemare mentre si accostava a casa. La mente tornò razionale e provò mille spiegazioni per ciò che gli stava accadendo. Fu solo dopo il suo arrivo però, dopo che ebbe parcheggiato la bicicletta nel garage, che il panico raggiunse l'acme; quando sentì la sua voce chiedere in tono normale, ma con un timbro vagamente alieno:
- Sara! Oggi ben cento chilometri... sai che fame! Che mi hai fatto per pranzo?

3 commenti:

  1. Racconto coinvolgente con un finale sorprendente.
    Bello.

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  2. Un racconto davvero avvincente. Nella prima parte siamo nella quotidianità più pedestre, legata all'attività ciclistica. Descritta bene, ti fa quasi sentire le emozioni di quando si corre sulle due ruote. Poi, ecco l'arcano. Si presenta in modo diretto ma non invadente, quasi come se fosse logico. La conclusione viene poi come la ciliegina sulla torta: un sorprendente finale che raggela.
    C'è un bel crescendo che tiene inchiodato il lettore.
    Il racconto ci trasmette il messaggio che non siamo soli nell'universo. Esso è un mistero, perché ne conosciamo una piccolissima parte, quella che accompagna la nostra vita di tutti i giorni e che sta sotto i nostri sensi. Ma che cosa c'è al di là della nostra umana percezione? Che cosa trascende la nostra logica ferrea, potente ma inadeguata? Che siano stati gli alieni a guarire il ciclista allora diventa evidente nella sua incredibile, improbabilissima e assurda verità.

    Giuseppe Novellino

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