giovedì 20 marzo 2014

IL MISTERO DEL BAR DEI VECCHI E DEI GATTI di Cristian J. Caravello



Certe cose possono accadere solo di notte. La notte ha un velo magico, una corona di stelle e un esercito di ombre. E le stelle sono misteriose, e le ombre oscure.
Chi è attratto dalla magia e dal mistero deve amare la notte.
Chi può negare il sapore di una camminata nei sobborghi alle due di notte? Lì si ascolta il silenzio della luna, si avverte l’umidità dei vecchi edifici, si sentono respirare i giardini. I latrati sono diversi di notte, e il ronzio del motore di un’auto isolata. Tutto è unico, solitario e personale. Ogni cosa, ogni persona è più vicina se stessa.
Girai all’angolo e camminai sul marciapiede rotto, umido di rugiada. Sulla destra si stendeva la successione di locali commerciali, che dormivano con le loro persiane tirate giù come palpebre stanche. A sinistra, il pavé, con i suoi mulinelli di foglie nere sminuzzate che ondeggiavano sul selciato, agitate dalla corrente che, dopo aver accarezzato la Pampa, arrivava in città aprendosi in un delta di brezza. Di notte, Buenos Aires torna a essere una borgata che interrompe la campagna, una mera piaga nella pianura interminabile, dove dimorano i parassiti che si abbeverano al fiume.
L’auto nera prese l’imboccatura di una strada secondaria, due isolati più avanti. Tutte le auto sono nere alle due di notte. Le auto e i gatti. Forse per curiosità, forse per noia, percorsi i due isolati e piegai a destra seguendo la direzione del veicolo. Sbucai in un vicolo scuro e senza nome. L’auto nera era parcheggiata lì davanti, vicino a un vecchio bar la cui luce irradiava appena il marciapiede e la strada. Alcuni gatti gironzolavano sulla porta. Entravano, uscivano e saltavano sui tetti delle case vicine. Lì sopra miagolavano, correvano, si arrampicavano, si appostavano, si incontravano, litigavano stagliati contro la luce e si accoppiavano nascosti nell’ombra.
Entrai nel bar. Mi sedetti a un tavolino libero di fronte alla finestra. Fuori non c’era molto da guardare, ma tra le pareti e le finestre uno sceglie sempre le finestre.
Mi sembrò surreale trovare un bar aperto all’alba a metà di un vicolo, ma di sicuro il posto era abbastanza frequentato. Si trattava di una vecchia costruzione restaurata con più gusto che ricchezza. Si notava il pavimento originale di mosaici alternati in bianco e nero, con una cornice di due strisce nere intrecciate su fondo bianco che percorreva il contorno del locale.
Le pareti erano rivestite con un intonaco rustico e qualche scheggiatura intenzionale che lasciava vedere dei grossi mattoni consumati dal tempo e dalle battaglie, appena coperti con vernice opaca. Dal soffitto invisibile scendevano delle catenelle nere che terminavano in paralumi aperti come cappelli cinesi, di un materiale traslucido, che ondeggiavano sopra i tavoli dirigendo la luce verso il basso e lasciando al buio tutto lo spazio sopra i due metri. Non c’erano più di venti tavoli disposti in una geometria rettangolare, che formava una elle ampia e corta intorno al bancone. In fondo, sotto una grande arcata, c’era l’accesso ai sanitari. Sotto alle figure della dama e del cavaliere erano appesi due cartellini storti su cui era scritto “solo per clienti”. E, cosa sorprendente, nella parte inferiore di ogni porta c’era uno sportellino basculante per il passaggio di animali domestici che, come scoprii in fretta, erano invariabilmente gatti.
Nell’entrare avevo percepito il tocco ruvido degli sguardi altrui che ti fanno sentire forestiero. In un tavolo attiguo al mio, due anziane chiacchieravano animatamente, mentre sorseggiavano un infuso d’erbe, accompagnato da torta di mele e lemon pie.
Chiamai il cameriere e ordinai un cappuccino italiano con amaretti e un bicchierino di sherry. Era un uomo anziano, molto formale, che preparò subito la tavola e la riempì di oggetti con una routine lenta e ordinata. Mise una tovaglietta, un centrotavola, due cioccolatini avvolti in carta stagnola e cellophane, una caraffa d'acqua e un bicchiere basso e conico con le pareti spesse e striature verticali.
– Le porto subito quello che ha ordinato – disse. E se ne andò.
Mi appoggiai allo schienale per osservare la gente. Immediatamente uscì dal bagno un ottuagenario che avanzava a passi stentati appoggiandosi a un bastone di legno lucidato. Dietro di me, si alzò un individuo di mezza età, piegò il suo giornale e si affrettò ad aiutarlo.
– Io non so se le fa bene venire qua, Don Hipólito – gli disse mentre lo sosteneva.
– È meraviglioso ­– rispose l’anziano. – Domani ritorniamo.
L’assistente scosse la testa.
– Questa dipendenza la porterà alla tomba.
– Io sono già morto, Pepito. Vengo qua per vivere i miei ultimi momenti.
Uscirono lentamente, salirono su un veicolo blu che aspettava a metà dell’isolato e scomparvero girato l’angolo.
Mentre pensavo al mistero di quel dialogo, mi resi conto che quasi tutti i clienti del bar erano anziani.
Un gatto nero spuntò dallo sportellino basculante del bagno degli uomini. Uscì sul marciapiede, si avvicinò ad altri due o tre gatti che sembravano aspettarlo e insieme scomparvero nell’oscurità del vicolo.
Una gatta color cannella mi si avvicinò con decisione
e cominciò a strofinarsi contro i miei polpacci. Appoggiava i baffi e avanzava sfregando con fermezza tutto il suo fianco fino alla punta della coda, dopo faceva un otto tra le mie gambe e ripeteva l’operazione contro l’altro polpaccio. Le accarezzai la testa e socchiuse gli occhi con piacere. Dopo aver ripetuto per un po’ la sua routine affettuosa, se ne andò fulminea e scomparve dietro lo sportello del bagno delle signore, lasciando le mie calze di lana coperte di peletti gialli.
Il cameriere mi portò il cappuccino e ne approfittò per riscuotere il conto dalle vecchie dell’infuso d’erbe, che avevano una certa urgenza di pagare. Urgenza che si spiegò in fretta, perché subito dopo si diressero al bagno.
Io gustavo il mio caffè mentre guardavo la riunione dei gatti, all’esterno. Tutto il vicolo era gremito di gatti. Guardando sui tetti li si poteva vedere come sagome ritagliate nella luce dalla luna, che andavano e venivano con una strana frenesia. Di tanto in tanto scendevano sul marciapiede, si riunivano in due o tre e intraprendevano la marcia in gruppo, con un percorso definito: costeggiavano il vicolo fino a saltare il muro in fondo e cadere nel cortile posteriore di una vecchia cappella.
Un’anziana civettuola e vistosamente tinta passò accanto al mio tavolo, si fermò un momento, mi sussurrò qualcosa a voce molto bassa:
– Belle calze, soprattutto molto morbide – e continuò il cammino verso la strada.
Nello stesso tempo, un’altra anziana entrò nel locale, camminando pianissimo, leggermente inclinata in avanti. Avanzò appoggiandosi a tutti i tavoli e le sedie che aveva a tiro. Si sedette a un tavolo vicino al mio, mi guardò un istante e abbassò lo sguardo quando la osservai. Non poteva avere meno di novant’anni.
Due gatte uscirono dal bagno delle signore zampettando allegramente, la prima aspettò un istante la seconda ed entrambe si diressero verso il festino di gatti che sembrava svolgersi nel vicolo.
Un vecchio che era solo si alzò e si sedette al tavolo vicino all’anziana novantenne che era appena entrata. Conversarono, discussero, lui insistette facendo riferimento a un incontro precedente.
– Andiamo! Non ti è piaciuto? Se te la sei spassata, non mi puoi dire di no.
Lei lo respinse più volte e giurerei che a un certo punto mi guardò per chiedere aiuto.
Quando il nonno divenne più insistente e iniziò a tirarla per la mano, scuotendo la povera vecchietta avanti e indietro, ritenni opportuno intervenire.
– Mi scusi, nonno, ma credo che la signora preferisca stare da sola.
Il vecchio si voltò per guardarmi, con un giro d’effetto, tenendo fisso il collo e ruotando la vita, mi scrutò alzando lo sguardo, esitò un istante,
poi alzò entrambe le mani con le palme in avanti.
– Va bene – disse. Si alzò in piedi e si diresse al bagno sbandando per la fretta e con evidente malumore. Quasi cadde inciampando su un gatto che usciva dallo sportellino basculante, ma l’animaletto lo schivò con perizia e continuò il suo percorso.
– Grazie, giovanotto – disse l’anziana, mi accarezzò una mano e mi guardò con tenerezza. Le sorrisi e tornai al mio tavolo per scoprire che la scena non era passata inosservata e che tutti gli sguardi erano posati su di me; ostili quelli dei vecchi, inteneriti quelli delle vecchie.
– Non so che ci fa un uomo tanto giovane in questo posto – sentii commentare.
Mi fermai ancora un po’, intrigato dal movimento di quel luogo. Come marionette gravemente ferite dalla vita, questi personaggi pagavano il loro conto e si trascinavano in uno scricchiolare di ossa e cartilagini fino al bagno sovraffollato, dal quale uscivano ed entravano gatti per lo sportellino in basso. Osservai che le anziane dell’infuso dopo mezz’ora non erano ancora uscite. Mi accorsi che, in generale, nessuno di quelli che era entrato, era poi uscito. Uscivano altri, questo sì; e i gatti, che entravano e uscivano, ma non a caso: i maschi passavano dal bagno degli uomini e le femmine da quello delle donne, e mai nessuno sbagliava porta.
Alla fine la vecchietta novantenne pagò il suo conto e si spostò fino al bagno gridando con gli occhi i molteplici dolori della vecchiaia.
Chiamai il cameriere e chiesi il conto. Nel frattempo, un gatto grigio e nero mi balzò addosso e mi graffiò la faccia. Mi tirai indietro d’istinto, mentre la bestia scappava veloce verso la porta. Pagai il cameriere raccontandogli dell’attacco.
– Mi dispiace molto, signore, ma comprenderà che non possiamo cacciare i gatti – mi disse, e strizzò un occhio.
No. Non compresi. Ciò che mi appariva assolutamente chiaro era che lì accadeva qualcosa di strano con i vecchi e i gatti, e tutte le domande mi portavano verso il bagno, dove gli uni e gli altri entravano e uscivano senza logica né ragione.
Una gatta bianca attraversò lo sportellino e venne al mio tavolo. Mi rannicchiai aspettandomi un altro graffio, ma la gatta bianca mi si arrampicò in grembo e si arrotolò in posizione di riposo. La accarezzai un po’e la sentii vicina, dolce, direi quasi eccitata. Saltò sul pavimento, mi guardò con occhi grigi che cercavano di comunicarmi qualcosa. Andò alla porta del bagno, tornò al mio tavolo e poi di nuovo al bagno. Dalla porta mi guardava, si girava, e tornava a guardarmi. Alla fine imboccò la porta del locale e uscì in strada.
Io mi alzai risoluto e andai a quel bagno “solo per clienti”, con lo scopo di polverizzare i misteri.
Con mia sorpresa, trovai il bagno vuoto. Alla destra di un corridoio centrale, contro uno specchio che riempiva tutta la parete, c’erano quattro lavabi impeccabili di stile antico. A sinistra, tre piccole porte si aprivano su rispettivi cubicoli. Un gatto sbucò da sotto una di queste porte e uscì dal bagno. Mi chinai a esaminare la piccola area, poi entrai e chiusi la porta. C’erano un water, un rotolo di carta igienica e un cestino di plastica col coperchio. Sulla parete di sinistra, un cartello recitava una raccomandazione assurda: “Ricordate che non è opportuno estendere lo stato gattesco per più di due ore”. Prima di afferrare il significato della frase, cominciai ad avere le vertigini. Le pareti si allungarono e il water divenne improvvisamente gigantesco. Persi conoscenza e la recuperai all’istante. Uscii dal cubicolo completamente disorientato. Percorsi sbandando il corridoio immenso e deformato, sbucai nella sala e una pulsione istintiva mi fece uscire in strada.
Lì fuori c’erano tutti, a svelare il mistero. Abbandonati al vizio eterno della gioventù, godendo dell’agilità senza dolori, bevendo l’elisir della piroetta e del salto sui tetti, formando gruppi, parlando di vecchi balli nei club di quartiere, recitando la formazione del Boca del 47, sprizzando salute e fischiatine di tango di Hugo del Carril y Goyeneche. Riproducendo con miagolii feroci le vecchie zuffe da bulli. Innamorandosi della ragazza carina del quartiere che aspettava colposa nella sua avidità di sesso adolescente, nascosta nell’ombra, tra i tubi della grondaia. Vivendo ogni minuto con intensità, fino a terminare l’avventura seduti di fronte all’orologio dell’antica cappella.
Guidato da un’eccitazione esuberante, feci un salto fino alla grondaia. Atterrai con l’istinto di bilanciare il peso con la coda. Guardai la geografia delle tegole che si estendeva sotto la luce grigia della luna, come una selva misteriosa che mi invitava al movimento e mi tuffai nella notte in cerca della gatta bianca, per riprenderla in grembo e tenerla lì per le due ore seguenti, o forse di più, se per caso lei avesse preferito morire d’amore piuttosto che tornare alla vecchiaia.
(Traduzione dallo spagnolo di Giuliana Acanfora)

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