domenica 29 maggio 2016

PROBLEMA RISOLTO di Fernando Sorrentino

Chi non conosce il Gruppo Finanziario Insignia per operazioni creditizie su veicoli, macchinari agricoli, industriali e beni mobili complessi in genere?
Ho lavorato tre anni alla succursale di Parque Patricios ubicata in avenida Caseros. Promuovendomi di categoria, la ditta mi trasferì alla succursale Palermo, in avenida Santa Fe. Siccome abitavo in calle Costa Rica, a solo sei isolati, il cambio mi tornò decisamente a favore.
Benché il regolamento lo vietasse, alcuni venditori o rappresentanti di prodotti vari visitavano ogni tanto l'ufficio. I capi solevano tollerare e permettevano loro di entrare cosicché era già consuetudine che noi impiegati facessimo acquisti da queste persone.
Fu così che conobbi Boitus, un personaggio abbastanza strano. Era magrissimo e semicalvo, portava degli occhiali antiquati ed indossava sempre il medesimo completo grigio logoro e costellato d’indelebili tracce d’antiche macchie il quale gli dava l'aria di uno venuto fuori da qualche film dell'epoca del cinema muto; pronunciava la erre come fosse la di.
Vendeva enciclopedie e dizionari a rate e, per contanti, altri libri meno costosi. Divenni cliente di Boitus visto che la relazione mi tornava assai comoda: io gli chiedevo il tal titolo del tale autore ed alcuni giorni dopo al più tardi Boitus, scrupoloso, tornava con il libro in questione ed al medesimo prezzo che in libreria.
Non tardai molto a rendermi conto che Boitus era stravagante non solo nell'aspetto, ma pure nelle azioni e nel modo di parlare. Faceva uso d'un esclusivo vocabolario tutto suo: per nominare Juan Pérez, presidente della nazione, faceva riferimento all'amministratore Tizio dei Tali; non camminava per la strada ma per la pubblica via; non viaggiava in autobus, metropolitane o treni, bensì nel sistema di pubblico trasporto dei passeggeri. Non diceva mai “Non so”: sempre Ignoro.
In un'occasione, a fronte d’un certo dialogo, stentai a credere alle mie orecchie. Dalla mia scrivania, mentre prestavo attenzione a particolari del mio lavoro, udii che Lucy —una delle impiegate con maggiore anzianità di servizio e prossima alla pensione— gli chiese:
—Mi dica, Boitus, non ha mai pensato di sposarsi?
La curiosità m'indusse ad alzare gli occhi e ad osservare Boitus. Questi accennò un sorriso comprensivo e, se si vuole, indulgente:
—Vede, signorina Lucy, la sua domanda ha una spiegazione semplice —fece una pausa d'effetto—. Non posso sposarmi per tre motivi: in primo luogo, non sono nelle condizioni economiche; in secondo luogo, manco di denaro; e, in terzo luogo, non ho soldi.
La risposta di Boitus e lo stupore sulla faccia di Lucy mi produssero un attacco di riso che dissimulai meglio che potei. “Bene”, mi dissi, “questo Boitus è un umorista geniale”.
Fatto fu che mi abituai alle periodiche visite di Boitus durante le quali, oltre a concretare l'acquisto di libri, di lui mi divertivano eccentricità, paradossi, ragionamenti e spropositi.
Si presentava con una cartella di cuoio marrone, logora al punto da essere grigiastra, in cui custodiva fatture, ricevute, opuscoli di enciclopedie, biglietti da visita…, insomma, diversi fogli a carattere commerciale che genericamente chiamava, e vada uno a saper perché, elementi di giudizio. Oltre la cartella egli recava però sempre con sé cinque o sei colli: pacchetti di cartone ondulato o scatole di cartone rigido con le pubblicazioni che gli erano state richieste.
Arrivò il giorno in cui il direttore della succursale, il signor Gatti —bonaccione e comprensivo—, fu promosso e trasferito alla sede centrale. Chi ne prese il posto, il signor Linares, non era cattiva persona, ma uomo dal barocco linguaggio si, amante di circonlocuzioni e devoto a norme e regolamenti: come assunse l'incarico ripristinò la regola che non veniva osservata, ed allora né Boitus né gli altri venditori poterono varcare le soglie della succursale Palermo del Gruppo Finanziario Insignia.
Fu un problema minimo rapidamente risolto. Io e Boitus ci scambiammo i numeri di telefono cosicché i miei acquisti e le sue vendite continuarono a svolgersi con solo una cosa ora diversa: invece di consegnarmi i libri in ufficio Boitus me li portava a casa.
A un dato momento mi resi conto ch'era già un anno che lavoravo alla succursale Palermo e che, pertanto, era anche un anno che conoscevo Boitus e che, ad intervalli più o meno regolari, acquistavo libri da lui. In nessun momento s’era egli detto “venditore di libri”: dicevasi diffusore di cultura.
In effetti il diffusore di cultura, ingombro della sua cadente cartella e dei suoi pacchetti e scatole di cartone, arrivava al mio appartamento, mi consegnava i libri, soleva inanellare una sfilza di sorprendenti sofismi e, dopo una quindicina di minuti, se ne andava.
Ricordo molto bene la sua ultima visita; in essa Boitus aveva sciorinato un monologo particolarmente singolare ed assai lungo per mezzo del quale mi rese edotto in merito ad una assurda tassonomia di sua invenzione. Secondo il suo schema il caffè era una pozione, il tè una infusione ed il mate bollito un intruglio; non lasciai però certo che mi spiegasse i fondamenti d'una tale classificazione.
Strana cosa: i suoi argomenti che m'erano risultati inizialmente piacevoli, ad un tratto m'irritarono, indubbiamente per il viscerale rifiuto che provo per l'irrazionalità e l'errore. E benché io avessi dissimulato il mio fastidio, accolsi con gioia il momento in cui Boitus infine si accomiatò con la sua consunta cartella, le sue scatole ed i suoi pacchetti.
Poiché la porta al pianterreno è chiusa permanentemente a chiave, dovetti accompagnarlo per consentirgli l'uscita dall'edificio. Di ritorno all'appartamento m'accorsi che Boitus aveva dimenticato su una sedia uno dei suoi pacchi.
Era una scatola di cartone, rotonda, alquanto simile a quelle che venivano usate per conservare cappelli da uomo. Due nastri verdi, fuoriuscenti dal bordo e ora caduti a fianco, avrebbero dovuto avere la funzione di trasportarla comodamente.
Alzai il coperchio ed all’istante tornai a riporlo. Andai in cucina, scaldai del caffè e mi sedetti a fumare una sigaretta di riflessione finché il mozzicone non giunse al minimo.
Nonostante non avesse ancora potuto giungere a casa propria, chiamai Boitus. La suoneria squillò cinque volte ed entrò in funzione la segreteria telefonica: lasciai un messaggio il cui tono —pur se cortese, perentorio— non lasciava adito a dubbi.
Quella notte Boitus non mi richiamò. Tanto meno il giorno seguente. Tornai a chiamarlo ed a lasciargli messaggi in segreteria per vari giorni ed in orari diversi.
Chiamandolo una settimana dopo squillò non so quante volte ma non risposero né Boitus né la segreteria. “Non sarà connesso”, mi dissi.
Alcune ore più tardi dette risposta alle mie chiamate una voce femminile che recitava: “Telecom informa che il numero richiesto non appartiene a nessun cliente abilitato”. Più avanti, al comporre il numero di Boitus seguì un silenzio assoluto, come se già non esistessero più né il suo numero, né il suo apparecchio.
Quando in ufficio commentai l'accaduto, Rossi, la cui scrivania è attigua alla mia, si offrì di venire a casa:
—Sempre che non t'infastidisca —aggiunse.
—Al contrario —dissi—, ti ringrazio per l'aiuto.
Al termine dell'orario di lavoro Rossi —per la prima ed ultima volta— visitò dunque il mio appartamento. Scoperchiando la scatola ebbe un gesto di contrarietà:
—Perbacco —disse—. La questione sembra complicata.
—Ovviamente si: già t’avevo preavvertito.
Rossi perse poi ogni interesse alla scatola e si distrasse guardando attorno. Riuscì in pochi secondi ad innervosirmi. È egli un inquieto e si lanciò a perlustrare tutto l’appartamento e ad esprimere svariate critiche o suggerimenti che non gli avevo sollecitato del tipo, ad esempio, “Qui faresti bene a mettere uno specchio” oppure “Non hai paraspifferi alle porte? Paiono esservi correnti d’aria”.
Si soffermò davanti al portaritratti di Cecilia Capelli, lo tenne in mano alcuni istanti, gli cambiò di posto leggermente e commentò:
—Così questa è la tua fidanzata? Bella ragazza, mi congratulo con te.
Mi dissi che avrebbe potuto risparmiarsi il commento e le congratulazioni: il mio idillio con Cecilia s’era già venuto alquanto deteriorando e più volte avevo provato la tentazione di togliere il ritratto, visto che la sua sola presenza m’arrecava disturbo.
Passò poi ad analizzare la biblioteca ed approfittò per chiedermi in prestito una Storia del calcio argentino. Detesto prestare libri (e parimenti chiederne in prestito), poiché però era stato tanto gentile da venire a casa per aiutarmi, non osai dirgli di no.
Ho asserito Rossi essere un inquieto. Constatai alcuni giorni più tardi che, al pari, amava parlar troppo. Il signor Linares mi convocò in effetti il venerdì nel suo ufficio e, dopo il mio ingresso, chiuse la porta. Al dittafono ordinò:
—Flavia, fino a nuovo avviso non mi passi per favore nessuna chiamata.
Mi fece sedere davanti alla sua scrivania e, con un sorriso che pretendeva essere cordiale ma era teso, mi disse:
—Non è che mi piaccia intromettermi nella vita del prossimo, mio caro Sainz, ma in certo qual modo, essendo lei un giovane di circa ventotto anni, relativamente nuovo nella compagnia, ed essendo io …
“Ora va a cacciarmi nel labirinto della sua prosa impervia”.
—…un uomo con qualche anno in più, con più esperienza di vita, e pure suo direttore, una specie di padre nell’ambito della ditta, no?, ho come una specie di, come potrei dire, di obbligo morale d’aiutarla. Non è così…?
Siccome Linares attendeva una risposta, in breve assentii mosso dal desiderio che cessasse di parlare prima possibile.
—In modo che —continuò—, se lei me lo permette, domani, che è sabato e che abbiamo tempo, farò una capatina a casa sua a vedere cosa possiamo fare…
Non potei esimermi dall’accettare la sua proposta. Quando tornai alla scrivania Rossi evitò il mio sguardo. Qualche minuto dopo, tuttavia, s’avvicinò e mi bisbigliò all’orecchio:
—Non credere che sia stato io a raccontarglielo. Egli lo sapeva già: non è facile tenere nascoste certe cose.
Mi chiesi come sapesse Rossi che Linares lo sapeva.
Il sabato dovetti alzarmi presto poiché non potevo ricevere il signor Linares in un tipico appartamento da scapolo che non veniva pulito da almeno due settimane. Dedicai gran parte della mattina al detestabile compito di far correre l’aspirapolvere sui pavimenti, ripassare i mobili con un panno di flanella, lavare il bagno e la cucina… Alla fine, verso le undici, casa mia era ormai in condizioni presentabili per poter ricevere il signor Linares.
Non arrivò solo, ma accompagnato da Araujo, il commesso dell’ufficio appassionato di giochi d’azzardo e da un signore —a me sconosciuto— in abito completo, cravatta e occhiali.
—Il dottor Venancio —lo presentò il signor Linares— è lo scrivano altresì detto notaio che redigerà l’atto. Quanto ad Araujo —aggiunse assai affabilmente—, non necessita di presentazioni. Chi è che non deve qualche favore ad Araujo, non è vero?
Araujo, vestito con l’uniforme di servizio, sorrise timidamente.
—Araujo è qui solo in veste di testimone, affinché il dottor Venancio possa apporre la sua firma nell’atto.
—Va bene —dissi—. D’accordo.
Il signor Linares aprì la scatola e, col coperchio nella destra, osservò attentamente il contenuto; lo stesso fecero poi il dottor Venancio ed il commesso Araujo.
—Tutto a posto, Araujo? —chiese Linares.
—Si, signore, nessun problema.
Il dottor Venancio dispiegò l’atto sulla tavola da pranzo. Erano tre fogli; firmò a margine dei primi due e quindi in fondo al terzo. Indicò poi ad Araujo che doveva fare lo stesso; questi firmò con una certa lentezza: si vedeva che non era persona avvezza a carte e scritture.
—Io devo firmare? —chiesi.
—Non è necessario —rispose il notaio—, ma neppure è sconveniente. Mi rimetto al suo criterio.
—Firmerò, nel dubbio.
Approfittai per leggere l’atto e constatai che il suo contenuto era rigorosamente aderente al vero. Allora firmai.
—E lei, Linares, desidera firmare?
—No, dottore, non mi pare imprescindibile. Né tanto meno prudente.
Tra qualche parola anodina sullo stato del tempo i miei visitatori s’accomiatarono.
Avevo convenuto di recarmi quella sera al cinema con Cecilia. Verso le sei del pomeriggio però mi chiamò per disdire l’uscita:
—Il problema è mio papà —mi spiegò—. Se problema lo si può chiamare. A me pare che non abbia nulla a che vedere, ma a lui si: ritiene che nell’attuale campagna elettorale la tua situazione possa fargli perdere il municipio.
Ebbi voglia di mandarla al diavolo assieme al suo distinto padre, poveraccio invischiato negli intrighi della politica, ma mi limitai a dirle:
—Va bene, d’accordo.
E pensai: “Meglio così, ne ho già abbastanza”.
Cercai in una guida su Internet il numero telefonico di Boitus e constatai che viveva in calle Fraga, a Chacarita. La domenica, al mattino, mi avviai alla casa in questione; trovai uno steccato in legno ed un cartello che diceva: DEMOLIZIONE TOTALE E NUOVA COSTRUZIONE. APPARTAMENTI DA DUE E TRE AMBIENTI.
Eccezion fatta per qualche circostanza particolare, la mia vita seguitò il suo corso normale.
Non occorse molto tempo perché ottenessi una nuova promozione la quale comportava un vantaggio ed un inconveniente.
Il primo consisteva in un aumento di stipendio assai sostanzioso: passavo in pratica a percepire quasi il doppio di quanto guadagnassi in quel momento (che poco non era). L’inconveniente derivava dal fatto di dover svolgere le mie nuove mansioni nella succursale Béccar, di certo abbastanza lontana dal mio domicilio di calle Costa Rica.
Soppesai i pro ed i contro ed alla fine accettai la promozione rassegnandomi ad effettuare il lungo viaggio tra Palermo e la mia nuova destinazione. L’ideale sarebbe stato comprar casa a Béccar o a San Isidro, ma per mettere assieme il denaro necessario avrei dovuto assolutamente prima vendere l’appartamento di calle Costa Rica.
Acquisii pure, senza cercarla, una certa notorietà e mi resi conto che provarla non era cosa sgradevole. Ricevetti cronisti e fotografi dei quotidiani La Nación e Clarín e delle riviste Caras e Gente; fui sottoposto a reportages e fotografato —ora sorridente, ora serio— accanto alla scatola rotonda. Fui anche invitato in televisione a vari programmi giornalistici cui partecipai con una certa vanità. E non declinai inviti a presenziare a frivoli programmi di chiacchiere e pettegolezzi.
Il “dottor” Ignacio Capelli, ad ogni modo, non riuscì a farsi eleggere sindaco di Tres de Febrero, del che mi rallegrai non poco. Dato ch’ero in urto con Cecilia, qualche giorno più tardi colsi un occasionale pretesto e troncai le relazioni.
D’altra parte, qualcosa d’assai piacevole m’era occorso. All’uscita dall’impiego solevo andare a far merenda in un caffè prossimo alla stazione di Béccar. Alla stessa ora, dopo la fine della giornata scolastica, v’affluivano alcune maestre d’una scuola vicina, ragazze molto simpatiche che ciarlavano ad alta voce e se la ridevano a crepapelle.
Mi sentii attratto da una di loro (già sapevo che il suo nome era Guillermina) e più d’una volta i nostri sguardi —gli occhi suoi erano chiarissimi— s’incrociarono da un tavolo all’altro. Un giorno, all’uscita, finsi l’incontro sul marciapiede e potei intavolare un primo dialogo. Qualche istante dopo l’accompagnai, prima in treno fino a Belgrano, poi a piedi per alcuni isolati fino a casa sua. Aveva venticinque anni, si chiamava Guillermina Grotz e viveva ancora con i genitori.
Fatto sta che non tardai molto a diventare suo fidanzato e, dopo qualche settimana, ad entrare in intime relazioni.
Una certa sera —eravamo a letto, in un hotel— mi disse:
—Non sarebbe più economico invitarmi nel tuo appartamento?
Sorpreso, la guardai negli occhi:
—Non sai forse il problema che ho…?
—Come non lo so: lo sa il mondo intero. Però non credo che la questione sia tanto terribile…
Nel suo sorriso c’era una tale generosità che mi commosse. Sentii una lacrima spuntarmi e la dissimulai.
Il sabato seguente andai con Guillermina ad un cinema di Belgrano. La invitai poi a cena in un ristorante di avenida Cabildo:
—Bene —dissi—, ora andiamo a casa a concludere degnamente la notte.
Entrati nell’appartamento ed accesa la luce Guillermina esclamò:
— Finalmente conosco il misterioso bunker del signor Sainz!
Tuttavia, prima di perlustrare gli altri ambienti, si fermò davanti alla scatola rotonda. Dopo un istante d’esitazione, sollevò il coperchio. L’espressione del suo viso non mutò minimamente, disse però:
—Avevi ragione. Sarà meglio continuare come prima…
Onde indurla a spiegarsi le chiesi:
—Andiamo in camera da letto o te ne vuoi andare?
—Se non t’offendi, preferirei andar via.
—Perché dovrei offendermi? È nel tuo pieno diritto…
Guillermina abitava in Cuba e Mendoza. In strada le presi un taxi e m’accomiatai da lei.
Ma non per sempre, non v’era alcun motivo d’interrompere le relazioni; al contrario: la cosa ci avvicinò ancora di più.
Tre mesi dopo ci sposammo ed andammo a vivere in un minuscolo appartamento che prendemmo in affitto a San Isidro e che finì riempito oltre misura dalla mobilia che Guillermina ed io avevamo preso dalle rispettive precedenti abitazioni. Il mio arredo da pranzo era composto da un tavolo e quattro sedie, ma di queste ne potei portare a San Isidro solo tre.
Sul lavoro sopportai alcune domande, tanto ingenue quanto attendibili, e diversi lievi inconvenienti burocratici che non impedirono il mio continuo esser promosso.
Sotto quest’aspetto direi anzi che non mi posso lamentare. Ogni nuovo successo generava un nuovo avanzamento e la mia carriera continuava a progredire in gerarchia e stipendio.
Un venerdì pomeriggio (il migliore momento della settimana) fui convocato alla sede centrale. Lo stesso amministratore generale mi fece le sue congratulazioni e mi palesò che, senza ombra minima di dubbio, prima che passasse un anno sarei stato nominato direttore della succursale di Mar del Plata:
—Di modo che, stimato Sainz, le conviene predisporre le sue cose per tempo.
Mar del Plata è un magnifico trasferimento che, tuttavia, obbligherà Guillermina a rinunciare al suo incarico di insegnante ed a noi cambiare domicilio. Una volta colà non sarà difficile per mia moglie trovare lavoro in un’altra scuola.
Guillermina ed io siamo diventati taccagni sino all’estremo della più gretta avarizia: desideriamo avere disponibilità sufficienti per poter comprare, a Mar del Plata, un appartamento relativamente spazioso, e credo che riusciremo a farcela. L’unico modo è risparmiare, risparmiare, risparmiare poiché non potremo contare nella somma che ci darebbe l’impossibile vendita della mia ex casa di calle Costa Rica, immobile per il quale —sia detto di passo— ho dato disdetta a tutte le utenze: elettricità, telefono, gas, acqua… Ho pure smesso di pagare le spese di condominio e le imposte municipali.
—T’intenteranno un’azione legale e ti metteranno all’asta l’appartamento —suole commentare Guillermina.
Immancabilmente io replico:
—Non troveranno però chi l’acquista.
—Vero —risponde Guillermina ogni volta —, ma non è questo problema nostro.
 
(Tratto da El crimen de san Alberto, Buenos Aires, Editorial Losada, 2008. Traduzione italiana © Mario De Bartolomeis)

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