sabato 18 ottobre 2014

SCHIZOFRENIA di Giuseppe C. Budetta



Si chiamava Sophie, un nome datale dalla povera madre francese, morta quando lei aveva appena nove anni. Da allora, era vissuta a Roma col padre italiano che non si era risposato. Vivevano in un bel quartiere verso il Palatino, non lontano dalla Chiesa di San Paolo fuori le mura dove si tramandava che Galla Placidia, imperatrice dei Romani, si era rifugiata a pregare durante l’irruzione dei Goti, nel 410 dopo Cristo. Andando a scuola, Sophie vi entrava spesso a pregare. Era la stessa chiesa, dove aveva sostato secoli prima Galla Placidia. Era fissata per la storia dell’antica Roma e faceva collezione di foto e disegni che ritraevano imperatori ed imperatrici romane. Prima di addormentarsi, pensava spesso a Galla Placidia la cui vita avventurosa la entusiasmava. Quella donna magnifica e bella era stata la nipote di tre imperatori, figlia di un grande imperatore, quale fu Teodosio, sorella di due imperatori, moglie di un re e dopo di questi di un imperatore, madre di Valentiniano III e zia di due altri imperatori. Fu donna nobilissima, molto bella e corteggiata da Romani e re barbarici. Fu prigioniera dei Visigoti e ne divenne la regina, avendo sposato il re Atatulfo, ucciso a sua volta in un duello. Sophie aveva di lei alcune gigantografie, in particolare da quello conservato a Ravenna, nel Mausoleo che ne prende il nome: il Mausoleo di Galla Placidia, appunto. A Sophie, piaceva molto quel nome antico: Aelia Galla Placidia. Come lei, avrebbe voluto vivere in quell’epoca della Roma antica, travagliata e avventurosa. La principessa romana era nata a Costantinopoli intorno al 390 dopo Cristo e morta a Roma intorno al 450, nel periodo in cui i feroci Unni capeggiati da Attila, il flagellum dei,  avevano invaso parte dell’Impero Romano d’Occidente.     Sophie si firmava sui suoi quadernoni di scuola “Aelia Galla Placidia”. Le amiche che le chiedevano perché si firmasse così, rispondeva di ammirare quell’antica principessa, molto bella e ricca, che al presente quasi tutti ignoravano. Aelia GallaPlacidia esisteva solo nell’anima di Sophie che stava per esserne assoggettata. Occorre aggiungere che la rassomiglianza tra le due era perfetta. Le prime a meravigliarsene erano state le amiche di scuola: “Ma questa sei tu.”
Quattordicenne, un suo amichetto col quale cominciava ad uscire il sabato, ed al quale aveva mostrato la foto della principessa romana, ne era rimasto impressionato: “Ma tu sei uguale a lei.”
Lei ne andava fiera. La rassomiglianza s’incrementava man mano che il corpo diventava come di una donna matura. Una rassomiglianza dunque perfetta. Si sarebbe potuto pensare ad una miracolosa reincarnazione. Sophie cominciò a convincersi di essere lei, l’altra. Era sempre più certa di essere l’incarnazione di Galla Placidia, resuscitata nell’evo contemporaneo. Ventenne, aveva accompagnato il vecchio genitore prossimo alla pensione a Tokio. Nel vedere i Giapponesi, Sophie ebbe un leggero stato di panico perché quel popolo così evoluto, rassomigliava tanto agli orribili Unni, in particolare negli occhi, nel colore della pelle gialla e nei capelli, neri e lisci. Come gli Unni, i Giapponesi erano abitanti dell’Asia profonda, molto al di là dei Sarmati. Pensò che si trattasse di lontani discendenti degli Unni, o di un popolo confinante coi loro territori asiatici. Guardando ammirata le luminose vetrine nel centro di Tokio, dimenticò i timori ancestrali. Pensò solo allo shopping. A volte, non poteva non pensare al suo passato remoto, il passato appartenuto all’esistenza di Galla Placidia, in lei rinata. Accadeva se restava per un poco da sola in albergo e con il televisore spento. Dalla finestra dell’albergo guardando giù la folla dei grattacieli altissimi, si ricordava per una strana concatenazione di sentimenti, ripensava alle orribili devastazioni barbariche nella sua Ravenna. Quella gente dagli occhi a mandorla la riportava indietro nei secoli, davanti agli orrendi e sanguinari guerrieri delle tundre asiatiche. Essendo Galla Placidia immersa nei suoi ricordi ancestrali, rivedeva le squadre degli operai che lavoravano sulla Via Popilia, mentre altre squadre sollevavano nubi di polvere per ripristinare l’abbandonato acquedotto che una volta portava acqua potabile a Ravenna. Sia la Via Popilia che il lungo acquedotto proveniente dai monti Appennini erano stati devastati dai barbari di Attila. Una volta ormai anziana, aveva attraversato la Venetia e visitato la città di  Concordia, rima­sta un cumulo di macerie dopo l’invasione barbarica. Anche lì, altri operai che stavano ricostruendo la fabbrica d’armi dell’esercito. Aquileja, più a nord era stata rasa al suolo dai soliti Unni e la sua gente trucidata. I pochi superstiti, terrorizzati erano fuggiti verso le zone paludose alle foci dell’Adige, rintanandosi su quelle isolette malsane. Poco prima che Attila fosse stato sconfitto ai Campi Catalaunici, il porto di Grado vicino ad Aquileja, era sempre pieno di squadre di operai che piantavano i pali e montavano le assi di nuovi pontili d’at­tracco e bacini di carenaggio per la flotta romana. Qualche anno dopo, tutto la furia degli Unni aveva distrutto. Ricordi che all’improvviso entravano in lei, o meglio in Sophie-Galla Placidia. Ricordi più forti del vento che spirava dall’epoca presente, nel cui sottile vortice era immersa. L’atmosfera abbagliante e grumosa di Tokio l’attirava nel mondo moderno, ma anche la respingeva nel passato remoto della sua (di Galla Placidia) epoca antica. A Tokio, tutto girava in un turbine rapido e vorticoso. Un nuovo vortice esistenziale che ne abbagliava l’esistenza. C’era sempre un programma da rispettare: quando uscire per fare shopping, quando andare a visitare i musei d’arte, le passerelle di moda, la visita panoramica alla città brulicante di luci, quando cenare col vecchio genitore, quando rilassarsi. Non c’era un momento adatto per una prolungata riflessione dell’anima. Dall’alto, la città illuminata coi suoi grattacieli giganteschi e miracolosamente in piedi. Sophie-Galla Placidia si sentiva al culmine di una impressionante reatà che le traballava, appariva e spariva, in continuazione intorno: “Cosa mai è accaduto durante la mia assenza in tanti secoli? Quale metamorfosi dello spirito ha generato tutto questo portento della tecnica? I barbari dei miei tempi erano solo dei caproni sanguinari. Erano puzzolenti come un caprone e feroci come una belva sanguinaria e famelica che attacca la preda, se questa non ha valide difese.”
A Tokio, non c’erano più i barbari e di conseguenza, non c’erano più i Romani che li combattevano. Tuttavia, i ricordi remoti tornavano all’improvviso. Ripensò all’uomo che aveva davvero amato. Quell’uomo era vissuto secoli prima, decine e decine di secoli addietro. Quell’amore restava indelebile, qualunque cosa accadesse ora. Un amore eterno, appunto. Un amore che riaffiorava nel presente e nei momenti più impensati. Solo tanti secoli prima, lei era stata giovane con l’ardente amante. Il suo ardente e giovane amante, re dei Visigoti e che di nome faceva Atatulfo. Il re dei Visigoti, il suo vero ed unico amore. Lunghe cavalcate per i colli boscosi e poi si rilassavano, stendendosi sotto una secolare quercia sudati e gioiosi. La luce del giorno che sfiorava i roveti, finendo come una corona di perle intorno ai loro corpi. Cullati dalla brezza estiva, si baciavano e facevano l’amore fino a che il sole non fosse calato oltre le Colonne d’Ercole. Il suo biondo, giovane e valoroso amante che le sorrideva oltre remoti mondi. Per le vie di Tokio (in compagnia di Sophie), trovava interessanti le boutique e lo shopping experience. Andava pazza per gli abiti eleganti e costosi che le facessero risaltare le linee del fondo schiena e le sfilate e dritte cosce. Gli abiti color carminio di Amanda Pizzo erano per lei divini, degni di Diana o di Afrodite. A volte, la signorina che le serviva (Sophie e la principessa dei Romani) s’imbrogliava, talmente forte era la rassomiglianza tra Sophie e l’altra che stava in lei. Loro ci ridevano su. A rifletterci, avevano gli stessi gusti in materia di moda, la stessa sensibilità per la qualità, per la moda costosa e sofisticata, forse  essendo entrambe giovani e belle. Allo specchio nelle boutique, erano insuperabili e gli abiti all’ultima moda esaltavano i lineamenti dell’una e dell’altra in un magico e giocoso rimando, mentre suonava il sottofondo di Bob Marley:…iron lion Zion…
Stando spesso insieme (l’una nell’altra), le due donne cominciavano ad avere medesime preferenze in campo di moda, di attori da ammirare e di località famose da visitare. Avevano gli stessi gusti, come vere gemelle monovulari. Sophie e Galla Placidia se ne tornarono in Italia piene di forti emozioni e bei ricordi tra cui lo Shinkansen, il treno proiettile. Una cosa inaudita per Galla Placidia e un’esperienza fuori dal comune per Sophie. I paragoni col passato remoto dell’epoca in cui l’Impero Romano d’Occidente era moribondo non esistevano in alcun modo. Se a quell’epoca avessero intuito la potenza della tecnica e della scienza...Impossibile prevedere la radicale rivoluzione nella vita di ognuno che l’intelligenza umana avrebbe potuto attuare sulla Terra.  Invece di scannarsi a vicenda in quei secoli bui, invece di depredare ed uccidere, avrebbero dovuto avere la lungimiranza di migliorare la civiltà, valorizzando l’intelligenza e la tecnica umana, sia quella dei nobili che quella dei plebei. L’interconnessione della tecnica e dell’intelligenza umana: la strategia vincente. Nessuno mai ne ebbe il motivo di pensarci.
Galla Placidia era incantata per i kimono e ne aveva acquistati molti. Ad entrambe il kimono vestiva bene, aumentando il fascino e la flessuosità dei due giovani corpi.
Gli attacchi del male divennero evidenti non molto tempo dopo, a Roma. Sophie era entrata piena di terrore nella chiesa di San Paolo fuori le mura e vi si era chiusa dentro, sbarrando le porte. Il parroco che era sceso in chiesa dalla sagrestia aveva cercato di fermarla, ma lei lo aveva assalito, picchiandolo con un pesante candelabro. Mentre assaliva il povero parroco il sagrestano era rimasto lontano dalla scena, verso l’altare maggiore. Aveva udito la giovane gridare: “Non aprite la chiesa. Fuori ci sono i Goti che ci vogliono distruggere. I Goti mi vogliono prigioniera. Aiuto.”
Il sagrestano era saliti di corsa in parrocchia ed aveva telefonato alla polizia. La povera ragazza era stata internata in una casa di cure nei pressi di Roma. La diagnosi: schizofrenia. Appresa la notizia, il povero padre era deceduto per un infarto acuto al miocardio. Il giovane primario che teneva in cura Sophie, osservava la sua paziente mentre girovagava nell’antistante aiuola recintata. Conservava ancora freschi i concetti appresi nel corso di specializzazione in malattie neuro-psichiatriche. Ecco cos’era infine ciò che noi definiamo col termine scientifico “schizofrenia”.
La schizofrenia non è una vera malattia, ma ciò che ci distingue come esseri umani e che ci differenzia dalle scimmie. Lo avevano affermato numerosi scienziati tra i quali l’ottimo 
Horrobin DF. Nei libri di psichiatria, si leggevano la seguenti affermazioni di base. La nostra Mente è ricca sia di ricordi immaginifici cui l’esperienza ci rimanda, sia di ricordi di esperienze cui ci rimandano le immagini, sia d’immagini oniriche, queste ultime emergenti alla coscienza nello stato di sonno. Sophie era dunque vittima delle immagini conservate presso la Basilica di S. Apollinare in Ravenna e che ritraggono l’antica principessa romana, tanto somigliante a lei?
C’è difficoltà a credere che la conoscenza del mondo esterno non è diretta, ma mediata da immagini mentali, risultanti da numerose computazioni inconsce. L’ausilio di algoritmi e della quotidiana esperienza, dimostra che il processo conoscitivo è prevalentemente deduttivo ed è ciò che Lin, Z., (2008) e Lin Z. ed He S., (2009) definiscono inferenza inconscia. Siamo ignari di queste funzioni (essendo inconsce) e le diamo per scontate. Le comuni metodiche di neuro-immagine, finalizzate alla comprensione della Mente umana non possono chiarire il meccanismo con cui il cervello arriva a creare il nostro mondo mentale. Ciò che la Mente conosce proviene dal cervello, non essendoci un collegamento diretto col mondo esterno tridimensionale. Da qui la natura illusoria della Mente. L’esperienza basata sulla facile e diretta interazione con le cose non corrisponde alla realtà obiettiva del mondo fisico. Inoltre, bisogna precisare che questo mondo fisico, oggetto d’indagine da parte della nostra Mente è di per sé enigmatico. D’espagnat B. (1977) dice che la realtà  -  definita come totalità di ciò ch’esiste – è indipendente da noi,  nella sua essenza e nei suoi comportamenti. Pur essendo parte di essa, non ne siamo i regolatori, in alcun modo. D’espagnat dice che né lo Spazio, né il Tempo e neanche lo Spazio – Tempo hanno una esistenza primitiva. Essi non sono parti della realtà come sopra definita. Lo Spazio ed il Tempo appartengono alla realtà empirica: sono modi della nostra sensibilità. Nella Mente, esisterebbe il Tempo psichico dilatabile, non c’è quello fisico che ammesso che esista per davvero, sarebbe una grandezza costante e ben definita. 
La mente di Sophie aveva varcato barriere inusitate di spazio tempo che ci separano dalle epoche storiche più remote? E’ ciò che accade nella mente di molti schizofrenici? Perché la schizofrenia è tanto comune negli artisti più eccelsi?


2 commenti:

  1. Sempre stilisticamente impeccabili i racconti di Giuseppe, e inoltre particolarmente intertessanti, avvincenti.

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  2. Interessante e bello questo racconto di una fanciulla che vive il presente con i ricordi di un passato avventuroso...

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