venerdì 4 settembre 2015

C’E’ UN UOMO CHE HA L’ABITUDINE DI PICCHIARMI CON UN OMBRELLO SULLA TESTA di Fernando Sorrentino

C’è un uomo che ha l’abitudine di picchiarmi con un ombrello sulla testa. Proprio oggi ricorrono i cinque anni dal giorno in cui iniziò a picchiarmi con l’ombrello sulla testa. I primi tempi non potevo sopportarlo; ora mi ci sono abituato.
Non so come si chiami. So che è un uomo comune, dal vestito grigio, un po’ canuto, dall’espressione vaga. Lo conobbi cinque anni fa, in un calda mattinata. Stavo leggendo il giornale, all’ombra di un albero, seduto su una panchina del parco Palermo. Ad un tratto, sentii che qualcosa mi toccava la testa. Era lo stesso uomo che, adesso, mentre sto scrivendo, meccanicamente continua imperterrito a darmi ombrellate.
In quell’occasione mi girai pieno di indignazione: lui continuò ad assestarmi colpi. Gli chiesi se era pazzo: non sembrò neppure sentirmi. Allora lo minacciai dicendogli che avrei chiamato un agente di polizia: imperturbabile e sereno, continuò la sua opera. Dopo alcuni istanti di indecisione e vedendo che non interrompeva la sua azione, mi alzai in piedi e gli diedi un pugno in faccia. L’uomo, emettendo un debole lamento, cadde a terra. Immediatamente, e facendo, in apparenza, un grande sforzo, si rialzò e riprese silenziosamente a picchiarmi con l’ombrello sulla testa. Il naso gli sanguinava e, in quel momento, ebbi compassione di quell’uomo e provai rimorsi per averlo colpito in quel modo. Perché, in realtà, l’uomo non mi dava delle vere ombrellate; piuttosto mi assestava dei leggeri colpi, del tutto indolori. E’ chiaro che questi colpi sono infinitamente fastidiosi. Tutti sappiamo che, quando una mosca ci si posa sulla fronte, non sentiamo alcun dolore: proviamo fastidio. Ebbene, quell’ombrello era una mosca gigantesca che, a intervalli regolari, si posava, una volta e poi un’altra, sulla mia testa.
Convinto di trovarmi davanti a un pazzo, volli allontanarmi. Ma l’uomo mi seguì in silenzio, senza smettere di picchiarmi. Allora iniziai a correre (qui devo puntualizzare che ci sono poche persone veloci quanto me). Lui prese ad inseguirmi, cercando invano di assestarmi qualche colpo. E l’uomo ansimava, ansimava, ansimava e sbuffava a tal punto che pensai che, se avessi continuato a costringerlo a correre così, il mio torturatore sarebbe morto proprio lì.
Perciò rallentai la corsa e ripresi il passo. Lo guardai. Sul suo volto non c’era né gratitudine né disapprovazione. Semplicemente mi picchiava con l’ombrello sulla testa. Pensai di presentarmi in commissariato e dire: “Signor ufficiale, quest’uomo mi sta picchiando con un ombrello sulla testa”. Sarebbe stato un caso senza precedenti. L’ufficiale mi avrebbe guardato con sospetto, mi avrebbe chiesto i documenti, avrebbe cominciato a farmi domande imbarazzanti, magari avrebbe finito per arrestarmi.
Mi sembrò meglio tornare a casa. Presi il 67. Lui, senza smettere di colpirmi, salì dietro di me. Mi sedetti sul primo sedile. Lui si sistemò, in piedi, di fianco a me: con la mano sinistra si reggeva al sostegno; con la destra brandiva implacabilmente l’ombrello. I passeggeri iniziarono con lo scambiarsi timidi sorrisi. L’autista si mise a guardarci attraverso lo specchietto. A poco a poco andò diffondendosi per tutto l’autobus una grande risata, una risata fragorosa, interminabile. Io, dalla vergogna, ero paonazzo. Il mio persecutore, indifferente alle risate, continuò con i suoi colpi.
Scesi —scendemmo— sotto il cavalcavia del Pacífico. Percorrevamo l’avenida Santa Fe. Tutti si voltavano stupidamente a guardarci. Pensai di dir loro: “Cosa guardano, imbecilli? Non hanno mai visto un uomo che picchia un altro con un ombrello sulla testa?”. Ma pensai anche che, molto probabilmente, non avevano mai visto un simile spettacolo. Cinque o sei ragazzi iniziarono a seguirci, gridando come ossessi.
Ma io avevo un piano. Una volta a casa, decisi di chiudergli brutalmente la porta in faccia. Non ci riuscii: lui, con mano salda, giocò d’anticipo, afferrò la maniglia, spinse un attimo ed entrò con me.
Da allora, continua a picchiarmi con l’ombrello sulla testa. Che sappia io, non ha mai dormito né mangiato niente. Si limita semplicemente a picchiarmi. Mi segue in tutti i miei movimenti, anche in quelli più intimi. Ricordo che, all’inizio, i colpi mi impedivano di addormentarmi; ora credo che, senza di essi, mi sarebbe impossibile dormire.
Comunque, i nostri rapporti non sono stati sempre buoni. Molte volte gli ho chiesto, con ogni tono possibile, di spiegarmi il suo modo di agire. Fu inutile: continuava, in silenzio, a picchiarmi con l’ombrello sulla testa. In molte occasioni gli ho propinato pugni, calci e —Dio mi perdoni— persino ombrellate. Lui accettava i colpi con mansuetudine, li accettava come facenti parte del suo gioco. Ed è proprio questo l’aspetto più allucinante della sua personalità: questa sorta di tranquilla convinzione nel suo lavoro, questa assenza di odio. In sostanza, questa certezza di stare compiendo una missione segreta e superiore.
Nonostante sia privo di necessità fisiologiche so che, quando lo picchio, sente dolore, so che è debole, so che è mortale. So anche che con uno sparo mi libererei di lui. Ciò che ignoro è se lo sparo deve uccidere lui o me. Non so nemmeno se, quando entrambi saremo morti, smetterà di colpirmi con l’ombrello sulla testa. Ad ogni modo, questo ragionamento è inutile: riconosco che non mi azzarderei ad ucciderlo né ad uccidermi.
D’altra parte, negli ultimi tempi ho capito che non potrei vivere senza i suoi colpi. Ora, con sempre maggior frequenza, mi perseguita un certo presentimento. Una nuova angoscia mi corrode il petto: l’angoscia di pensare che, quando forse più ne avrò bisogno, quest’uomo se ne andrà e io non sentirò più quelle dolci ombrellate che mi facevano dormire così profondamente.
(Traduzione di Alessandro Abate)

-----------------------------

Existe un hombre que tiene la costumbre de pegarme con un paraguas en la cabeza. Justamente hoy se cumplen cinco años desde el día en que empezó a pegarme con el paraguas en la cabeza. En los primeros tiempos no podía soportarlo; ahora estoy habituado.
No sé cómo se llama. Sé que es un hombre común, de traje gris, algo canoso, con un rostro vago. Lo conocí hace cinco años, en una mañana calurosa. Yo estaba leyendo el diario, a la sombra de un árbol, sentado en un banco del bosque de Palermo. De pronto sentí que algo me tocaba la cabeza. Era este mismo hombre que ahora, mientras estoy escribiendo, continúa mecánica e indiferentemente pegándome paraguazos.
En aquella oportunidad me di vuelta lleno de indignación: él siguió aplicándome golpes. Le pregunté si estaba loco: ni siquiera pareció oírme. Entonces lo amenacé con llamar a un vigilante: imperturbable y sereno, continuó con su tarea. Después de unos instantes de indecisión, y viendo que no desistía de su actitud, me puse de pie y le di un puñetazo en el rostro. El hombre, exhalando un tenue quejido, cayó al suelo. En seguida, y haciendo, al parecer, un gran esfuerzo, se levantó y volvió silenciosamente a pegarme con el paraguas en la cabeza. La nariz le sangraba, y en aquel momento tuve lástima de ese hombre y sentí remordimientos por haberlo golpeado de esa manera. Porque, en realidad, el hombre no me pegaba lo que se llama paraguazos; más bien me aplicaba unos leves golpes, por completo indoloros. Claro está que esos golpes son infinitamente molestos. Todos sabemos que, cuando una mosca se nos posa en la frente, no sentimos dolor alguno: sentimos fastidio. Pues bien, aquel paraguas era una gigantesca mosca que, a intervalos regulares, se posaba, una y otra vez, en mi cabeza.
Convencido de que me hallaba ante un loco, quise alejarme. Pero el hombre me siguió en silencio, sin dejar de pegarme. Entonces empecé a correr (aquí debo puntualizar que hay pocas personas tan veloces como yo). Él salió en mi persecución, tratando en vano de asestarme algún golpe. Y el hombre jadeaba, jadeaba, jadeaba y resoplaba tanto, que pensé que, si seguía obligándolo a correr así, mi torturador caería muerto allí mismo.
Por eso detuve mi carrera y retomé la marcha. Lo miré. En su rostro no había gratitud ni reproche. Sólo me pegaba con el paraguas en la cabeza. Pensé en presentarme en la comisaría, decir: “Señor oficial, este hombre me está pegando con un paraguas en la cabeza”. Sería un caso sin precedentes. El oficial me miraría con suspicacia, me pediría documentos, comenzaría a formularme preguntas embarazosas, tal vez terminaría por arrestarme.
Me pareció mejor volver a casa. Tomé el colectivo 67. Él, sin dejar de golpearme, subió detrás de mí. Me senté en el primer asiento. Él se ubicó, de pie, a mi lado: con la mano izquierda se tomaba del pasamanos; con la derecha blandía implacablemente el paraguas. Los pasajeros empezaron por cambiar tímidas sonrisas. El conductor se puso a observarnos por el espejo. Poco a poco fue ganando al pasaje una gran carcajada, una carcajada estruendosa, interminable. Yo, de la vergüenza, estaba hecho un fuego. Mi perseguidor, más allá de las risas, siguió con sus golpes.
Bajé —bajamos— en el puente del Pacífico. Íbamos por la avenida Santa Fe. Todos se daban vuelta estúpidamente para mirarnos. Pensé en decirles: “¿Qué miran, imbéciles? ¿Nunca vieron a un hombre que le pegue a otro con un paraguas en la cabeza?”. Pero también pensé que nunca habrían visto tal espectáculo. Cinco o seis chicos empezaron a seguirnos, gritando como energúmenos.
Pero yo tenía un plan. Ya en mi casa, quise cerrarle bruscamente la puerta en las narices. No pude: él, con mano firme, se anticipó, agarró el picaporte, forcejeó un instante y entró conmigo.
Desde entonces, continúa golpeándome con el paraguas en la cabeza. Que yo sepa, jamás durmió ni comió nada. Simplemente se limita a pegarme. Me acompaña en todos mis actos, aun en los más íntimos. Recuerdo que, al principio, los golpes me impedían conciliar el sueño; ahora creo que, sin ellos, me sería imposible dormir.
Sin embargo, nuestras relaciones no siempre han sido buenas. Muchas veces le he pedido, en todos los tonos posibles, que me explicara su proceder. Fue inútil: calladamente seguía golpeándome con el paraguas en la cabeza. En muchas ocasiones le he propinado puñetazos, patadas y —Dios me perdone— hasta paraguazos. Él aceptaba los golpes con mansedumbre, los aceptaba como una parte más de su tarea. Y este hecho es justamente lo más alucinante de su personalidad: esa suerte de tranquila convicción en su trabajo, esa carencia de odio. En fin, esa certeza de estar cumpliendo con una misión secreta y superior.
Pese a su falta de necesidades fisiológicas, sé que, cuando lo golpeo, siente dolor, sé que es débil, sé que es mortal. Sé también que un tiro me libraría de él. Lo que ignoro es si el tiro debe matarlo a él o matarme a mí. Tampoco sé si, cuando los dos estemos muertos, no seguirá golpeándome con el paraguas en la cabeza. De todos modos, este razonamiento es inútil: reconozco que no me atrevería a matarlo ni a matarme.
Por otra parte, en los últimos tiempos he comprendido que no podría vivir sin sus golpes. Ahora, cada vez con mayor frecuencia, me hostiga cierto presentimiento. Una nueva angustia me corroe el pecho: la angustia de pensar que, acaso cuando más lo necesite, este hombre se irá y yo ya no sentiré esos suaves paraguazos que me hacían dormir tan profundamente.

2 commenti: