mercoledì 11 settembre 2013

OLTRE LA SIEPE di Donato Altomare

                            
 
Quando entrai per la prima volta in quella villa non feci eccessivamente caso all’alta siepe che la circondava. Cercavo un luogo isolato, fuori dal mondo per concentrarmi indisturbato e scrivere quel libro che da tanto tempo mi frullava nel cervello. La costruzione era a un solo piano a livello del suolo con grandi arcate, bianchissima, di stile prettamente mediterraneo. Di una bellezza semplice, pulita, dava un gran senso di pace, forse anche per quel silenzio nel quale il rumore dei miei passi pareva profano. Riuscii presto ad adattarmi e i primi giorni passarono velocemente. Avevo comprato provviste per una settimana deciso a non uscire più di un altro paio di volte in quel mese di affitto. Volevo che nulla mi disturbasse perché sentivo che presto la mia mente avrebbe partorito un'opera eccezionale.
Avevo accuratamente esplorato l’interno della villa, la rimessa e persino il piccolo pozzo che risultò soltanto un abbellimento. Il giorno dopo fu la volta del giardino. Pochi arbusti, qualche cespuglio di fiori che fiancheggiava il vialetto d'accesso, un piccolo aranceto alle spalle... e la siepe.
Era altissima, intorno ai quattro metri, ben squadrata e curata. Non un ramo cresceva fuori posto o sporgeva più degli altri. Mi chiesi chi potesse avere la pazienza di tenerla in uno stato cosi perfetto, ma poi tutto fini lì, senza dare al fatto eccessivo peso. In fin dei conti ero stato proprio io a cercare su internet un posto veramente isolato. E avevo visto quello. Non ce n’era uno migliore per le mie esigenze. Nessun. rumore veniva dall'esterno, ma quello che mi sorprese di più fu l'assoluta mancanza di un cinguettio o del canto di una cicala. Non riuscii a vedere un solo insetto.
Finalmente l'ispirazione giunse e fu un fiume tumultuoso. In tre giorni buttai giù quasi due capitoli scritti cosi bene che fui subito certo che avrebbero avuto bisogno soltanto di una leggera revisione e questo era davvero raro data la mia estrema pignoleria. Stavo per attaccare il terzo capitolo quando distrattamente il mio sguardo si posò sulla siepe oltre la finestra.
C'era qualcosa che non andava. Lasciai il portatile e uscii fuori un tantino perplesso. Ricordavo che, sulla destra della villa, proprio dalla parte della finestra, vi era un boschetto di pini molto più alti della siepe, quindi dall'interno avrei dovuto vederne le cime, ma oltre la siepe non si notava nulla. Davvero strano. Non era possibile che avessero abbattuto tutti gli alberi vicini al confine, almeno non in quei pochi giorni che ero li. E in assoluto silenzio. Sollevai le spalle e tornai al mio romanzo.
Quella sera mangiai distrattamente. Due passi fuori nel giardino per digerire. L’aria era calda, non afosa, piacevole. Il cielo doveva essere coperto perché non mi riuscì di vedere una sola stella. A pochi. chilometri c'era una grande città e certo, guardando verso est, avrei dovuto vedere il chiarore delle luci nel cielo notturno. Ma il cielo era di un nero opprimente. Andai a dormire con la bocca amara.
L'indomani cercai di concentrarmi sul libro senza riuscirci. Inevitabilmente lo sguardo dal foglio scivolava alla finestra e correva oltre per posarsi sulla siepe. Dovevo chiarire quel fatto. Ero certo che c'era sotto il solito stupido errore da parte mia e che si sarebbe tutto concluso con una risata. Ma dovevo farlo, cosi andai su tutte le furie quando non riuscii a trovare le chiavi del cancello. Di ferro lavorato in barre quadrate di un paio di centimetri di lato, molto robuste, dalla parte esterna, gli era stata saldata una spessa lamiera che non permetteva a un estraneo di guardare dentro, ma, e ci feci caso soltanto allora, anche a me di guardare fuori. Quel fatto mi era piaciuto all'inizio poiché mi teneva lontano da sguardi indiscreti, ma in quel momento aumentò il mio nervosismo.
Cercai di calmarmi convincendomi che prima o poi la chiave sarebbe sbucata fuori da qualche parte. Eppure quella siepe...
Pensai di salire sul terrazzo della villa, ma non c’era modo. Avrei avuto bisogno di una scala di oltre tre metri e mezzo, ma non ne trovai neanche una più piccola nella rimessa.
C'era un ulivo i cui rami contorti si avvicinavano quasi a sfiorare il tetto della villa. Decisi di arrampicarmi su quell'albero per salire più in alto possibile. L'arrampicata fu facile e non priva di una certa soddisfazione per la buona efficienza del mio fisico non più giovanissimo. Volsi lo sguardo verso la siepe. Nulla. Era impossibile. Per quanto mi sforzassi non riuscivo a distinguere nulla che non fosse quel cielo celeste chiaro che mi sovrastava. Certo il terreno intorno era tutto pianeggiante senza neanche una collina che fosse più di un cumulo di terra, ma, almeno in lontananza, qualcosa avrei dovuto vedere. Non so, il tetto di un edificio, un serbatoio d'acqua sopraelevato, un campanile. Nulla.
Scesi nervosamente procurandomi numerose escoriazioni. Ormai tutto era diventato assurdo. Decisi di passare alle maniere forti. Quasi di corsa entrai nella rimessa dove, appesa a un chiodo, avevo visto una grossa cesoia. L'afferrai e con decisione andai verso la siepe.
I primi rami vennero via facilmente, poi ne incontrai di più grossi e divenne più difficile tagliarli fin quando mi trovai di fronte una impenetrabile barriera vegetale fatta di robusti rami con almeno cinque, sei centimetri di diametro che si intrecciavano gli uni con gli altri e che non riuscii a tagliare in alcun modo. Non c’era neanche un buco nel quale infilare le cesoie. O attraverso il quale guardare oltre.
Con rabbia gettai a terra l'arnese e cercai di arrampicarmi.
Fu tutto inutile. I piccoli rami superficiali si spezzavano facilmente mentre le mie mani e i miei piedi non riuscivano a trovare un appiglio su quelli più grossi molto bene intrecciati tra loro. Con un enorme sforzo di volontà riuscii a calmarmi, ormai stavo per dare fuoco all'arbusto certo però di non ottenere nulla. Era troppo fresco per prendere fuoco.
Mi ritirai sconfitto in casa in preda a una spiacevole sensazione di prigionia.

* * *

L'alba grigia mi trovò con gli occhi spalancati a fissare il candido soffitto. Avevo passato gran parte della notte a cercare la maledetta chiave, ma invano. Non c'era mobile che non avessi spostato e svuotato, non c'era vestito, magari anche mai messo da quando ero lì, che non avessi frugato. Eppure pareva che la chiave fosse svanita nel nulla. I miei appunti giacevano sparpagliati sul tavolo e questo era un sintomo piuttosto evidente della mia esasperazione. Avevo paura di uscire in giardino, avevo paura di trovarmi ancora intorno la siepe. Preferivo restare a letto a convincermi che era tutto il solito banale incubo.
Mille volte, durante quella specie di dormiveglia che era stato il mio sonno, avevo rivisto lo sguardo divertito del proprietario che mi assicurava un isolamento totale, mille volte avevo riudito il rumore del cancello che si richiudeva alle mie spalle. Ero anche arrivato a illudermi che prima o poi qualcuno sarebbe venuto a cercarmi. L'indirizzo l'avevo lasciato a qualche mio amico e in redazione, ma quando? Tutti, amici e collaboratori, sapevano che per circa un mese non volevo essere assolutamente disturbato, avevo anche lasciato loro il mio cellulare a riprova delle mie ferree intenzioni e, con un brivido, ricordai di aver aggiunto: -… quindi non rompete e lasciatemi in pace se volete il nuovo libro. Dovesse crollare il mondo.
Cosa avrei mangiato? Dovevo sopravvivere per riuscire a trovare una soluzione, la dispensa era praticamente vuota. Sarei dovuto uscire a fare spese... già... sarei dovuto uscire...
E un'idea mi attraversò la mente. Nuovamente corsi nella rimessa. C'era una lunga pertica, ormai in disuso, che i contadini un tempo usavano per far cadere le olive dagli alberi negli appositi teloni stesi sotto. Poi erano giunte le macchine e la pertica era finita dimenticata da qualche parte. Era robusta e piuttosto flessibile. L'idea era semplice: avrei cercato di scavalcare la siepe con un salto usando quell'asta. Ai tempi dell'università ero stato un discreto saltatore con l’asta. Certo l'altezza della siepe non era mai stata alla mia portata eppure non era un salto impossibile. Dovevo tentare. Passai un paio di giorni ad allenarmi e con soddisfazione notai che ero in forma. Il bastone si mostrò adatto allo scopo. Mi preparai in maniera impeccabile. 
Il giorno del tentativo era grigio e alquanto freddo. Avevo pulito accuratamente la striscia di terreno che doveva servirmi da pedana e avevo scavato la cassetta, una buca nella quale andava infilata la punta dell'asta, ai piedi della siepe in un punto che ritenni adatto allo scopo. Stupidamente mi parve di sentire la folla acclamante intorno a me e sapevo bene che la mia mente creava quell’impressione per aumentare la mia carica emotiva. Feci un breve riscaldamento. Poi partii. I piedi percuotevano il terreno con forza e decisione e non appena li staccai dal suolo con l'asta inflessa allo spasimo seppi che ce l'avrei fatta, non avevo mai eseguito uno stacco cosi perfetto. Forse sarà stato merito dell'asta, forse della disperazione, non so. Fatto sta che scavalcai abbondantemente la siepe.
E la oltrepassai.
Quello che vidi oltre fu il nulla. Il vuoto. L'Assenza totale.
E' da allora che sto cadendo.

5 commenti:

  1. Bel racconto di Donato Altomare (nome importante della fantascienza italiana) cui diamo un cordiale benvenuto sulle pagine di Pegasus Sf.

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  2. Molto bello e inquietante.
    Leggendolo vivi il senso di oppressione vissuto dal protagonista del racconto.
    Letto d'un fiato.

    Massimo Licari

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  3. Più che un racconto di fantascienza è un racconto fantasy, esemplare nella sua struttura e molto ben scritto. Mi ha catturato per la capacità con cui l'autore sa mantenere tesa la curiosità del lettore, il quale (è proprio il caso di dirlo!)si immedesima nel protagonista della storia e prova la sua stessa angoscia. Molto interessante è il significato, che rimanda a una condizione esistenziale. Qui rappresentata dalla prigione in cui si rinchiude il protagonista con il suo stesso desiderio di isolamento. L'opera da lui concepita, infatti, rimane incompiuta: una piccola perla che risplende nell'aridità e nel nulla trionfanti.

    Giuseppe Novellino

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  4. Grazie a tutti e tre.
    Grazie a Paolo per il benvenuto. Sono sempre disponibile alle iniziative nel campo del fantastico, anche se poi bisogna lasciare il campo ai nuovi scrittori.
    A max dico che il miglior complimento che abbia mai avuto per la mia narrativa è proprio quello di 'letto d'un fiato'.
    Infine Giuseppe. In effetti la differenza tra fantascienza e fantasy in questo racconto non è decisa, ma chi mi conosce sa bene quanto ami la commistione di generi e mal sopporti l'inserimento di un racconto in una gabbia. Hai anche inquadrato bene il fatto che si può essere prigionieri di se stessi. Graaaaaziiiiiiiie per 'la perla', ma credimi, vi sono tanti altri autori italiani che scrivono davvero bene. Il fatto è che gli editori pubblicano 'ob torto collo' antologie di racconti in quanto non piaccino al lettore standar, mentre nei racconti brevi italiani ci sono autentici tesori, credimi.
    d.a.

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  5. Ci si identifica davvero con il panico incalzante del personaggio.
    Mi è proprio sembrato di essere dentro la villa.
    Quando ha compiuto il salto ho tifato affinché ce la facesse, e il finale mi ha fatto sentire il vuoto della caduta.
    Bravissimo.

    Antonio Ognibene

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