venerdì 21 febbraio 2014

IL PAESE INCANTATO di Fabio Calabrese

    

Lo sguardo di Antonio era andato a cadere sulla piccola libreria che si trovava nella camera da letto, proprio dove si scorgevano i dorsi di alcuni libri che risaltavano più scuri sugli altri, perché rivestiti di una sovraccoperta di robusta carta blu opaca. Niente di speciale, li aveva letti e riletti tutti più volte e oramai erano lì da anni a ingiallire e a ricoprirsi di polvere. Quei libri erano quelli che possedeva da più tempo, era stato lui stesso a mettere quelle sovraccoperte, poi… poi non aveva avuto più tempo e voglia di farlo. Ora quella pesante carta oleata bluastra, che si usava ad esempio per foderare i cassetti, non era nemmeno più in commercio, sostituita da involucri più frivoli.
Bizzarro, ora che aveva tempo, non aveva più la forza di fare nulla tranne che giacere tranquillo nella penombra.
Antonio non sapeva se sarebbe riuscito a riprendere le forze, sapeva che i medici l’avevano dimesso dall’ospedale perché non potevano fare niente per lui, l’avevano rimandato a casa a morire, ma tutto questo era successo più di una settimana prima, e almeno per ora era sempre debole e allettato ma almeno lucido e vivo, in qualche modo era riuscito almeno per un po’ a ingannare la Grigia Mietitrice.
L’ingresso di Manuela nella stanza interruppe il corso dei suoi pensieri.
“Ciao, papà”, disse la donna, “io esco per andare a fare la spesa. Stai bene, ti serve qualcosa?”
“Sto bene, grazie”, rispose Antonio, “vai pure tranquilla, non mi serve nulla”.
Sua figlia uscì chiudendosi la porta alle spalle, e dopo poco Antonio udì lo scalpiccio dei suoi passi giù per le scale.
“Brava ragazza, Manuela”, venne da pensare ad Antonio; non riusciva a pensare a lei se non come una ragazza, anche se aveva due figli già adolescenti.
Antonio aveva due figli, Manuela e Marco: il maschio si era trasferito per lavoro in una città lontana. Informato delle condizioni del padre, Marco aveva fatto sapere che sarebbe venuto appena possibile. Nel complesso, Antonio non si lamentava di loro, né della moglie, Giulia, che era stata una compagna affezionata e fedele fino a quando due anni prima l’aveva preceduto nell’Ultimo Viaggio.
Alzò gli occhi verso il soffitto.
“Dio mio, perché?”, si domandò.
Si perché, tanti perché senza risposta. Si vive, si lavora, si soffre, si incontra qualche raro momento di gioia, si fa del proprio meglio per costruire qualcosa che può crollare da un momento all’altro come un castello di sabbia, e che comunque a un certo punto dovremo lasciare, per che cosa? Non era disperazione, non era un recriminare, era solo un vago senso di amarezza, il doversene andare con tanti interrogativi irrisolti.
Durante gli anni del lavoro e della carriera aveva la sensazione e la convinzione di essere diventato una persona importante; se ne era invece reso conto al momento della pensione: era solo uno fra tanti, il che era come dire nulla.
Chiuse gli occhi, non aveva voglia di pensare, eppure avrebbe dovuto saperlo: il flusso dei pensieri non s’interrompe così facilmente, non a comando.
Incongruamente, si ritrovò a ripensare alla carta blu opaca delle sovraccoperte. Quel ricordo ne aveva fatto emergere un altro più vecchio. Ad Antonio era venuto in mente che una carta di colore simile, ovviamente meno spessa, avvolgeva le confezioni di pasta che sua madre acquistava nel negozio di alimentari sotto casa, o come allora si usava dire, “la bottega” per antonomasia. Gli spaghetti, ricordava, erano venduti in confezioni circolari, dei tubi mangerecci. E poi il latte che si vendeva in bottiglie col coperchio di stagnola. C’era quella panna così buona che si formava sotto il coperchio … Qualche volta, non spesso, la mamma comprava anche delle caramelle o delle cioccolatine. Antonio aveva l’impressione di non aver mai più sentito nel corso della sua vita un gusto simile a quelle inenarrabili delizie.
Erano là in un cassetto della sua memoria, non più toccati da decenni ma sempre intatti, vivi i ricordi della sua infanzia.
C’era quel tratto di strada un tempo così familiare che andava da casa fino alla scuola, un plesso dove c’erano sia la scuola materna sia le elementari, e lui le aveva frequentate lì entrambe.
Nella direzione opposta la strada terminava in una piazzetta con un piccolo giardino, niente di speciale, con quattro aiole e due panchine, dove nei pomeriggi dopo lo studio si trovava con altri bambini e ragazzi alcuni più grandi, altri più piccoli di lui, a tirare quattro calci a una palla, saltare, correre, urlare, rientrare a casa per l’ora di cena con le ginocchia sbucciate e qualche livido.
Gli bastava chiudere gli occhi e fare un piccolo sforzo e le rivedeva tutte quelle facce, come erano prima che il trascorrere degli anni e le ingiurie del tempo rendessero le fisionomie irriconoscibili.
Qualcuna di quelle facce, mutata quanto la sua, l’aveva vista sui banchi delle superiori, qualcuna gli era sembrato di intravederla anche dopo nel corso della sua vita adulta e lavorativa, ma dei più non aveva più saputo nulla.
La strada si snodava poi nella direzione opposta, passava di fronte a casa sua e proseguiva attraverso abitazioni e negozi fino alla scuola e al bar del signor Emilio. Il bar era il terminale finale, non nel senso che la strada non andasse oltre, ma nel senso che era posto un poco più in là del cancello del plesso scolastico, ed era lì che la mamma si fermava quando lo accompagnava a scuola, gli prendeva una merendina se non aveva avuto il tempo di preparargli qualcosa a casa, e un caffè per sé, e si soffermava se c'era l'occasione, a scambiare quattro chiacchiere con le altre madri.
Antonio ricordava che dell'assortimento di pasticceria del bar gli piacevano soprattutto le focaccine con l'uva; sotto i denti, il gusto lievemente asprigno degli acini formava un contrasto delizioso con il dolce della pasta. Nei decenni seguenti aveva cercato invano un sapore altrettanto gradevole.
Il signor Emilio, il titolare del bar, era un uomo robusto che, dalla sua prospettiva di bambino, ad Antonio sembrava imponente, era di un'età indefinibile, con gli occhi chiari, i capelli di un castano così chiaro da sembrare quasi biondi e un paio di baffetti biondicci che parevano di stoppa. Era un uomo cordiale, gli piaceva scherzare con le mamme che accompagnavano i bambini a scuola. Se per caso qualcuna di loro tardava a venire a prenderli alla conclusione delle lezioni, i ragazzi sapevano che il bar di Emilio era il punto di riferimento dove trovarsi, e lui con pazienza bonaria teneva d'occhio i monelli schiamazzanti che affollavano il bar verso l'ora di pranzo. Quando qualcuno dei piccoli clienti ordinava un bicchiere di aranciata o qualche altra cosa, spesso Emilio sbagliava a loro favore nel dar loro il resto, e qualche volta offriva lui.
Antonio si ricordò di un giorno che era nevicato, una giornata ormai quasi primaverile; la neve era venuta giù abbondante avvolgendo la città in un'atmosfera magica, ovattata che dava una sensazione di intimità, paradossalmente di calore; bastava essere ben coperti e il freddo proprio non lo si sentiva. Ricordava di aver giocato a palle di neve con altri ragazzi del quartiere, una vera e propria battaglia combattuta con bianchi proiettili. Centrare il bersaglio era una soddisfazione, ma quando era la volta di essere colpiti, non era nulla di tragico, bastava scuotere la neve dal cappotto con la mano guantata, e perfino quando il proiettile arrivava sulla faccia scoperta, quel contato umido e morbido non era poi spiacevole.
Negli anni seguenti non aveva più visto una nevicata come quella, forse perché il clima era cambiato, perché era aumentato lo smog. Cadeva un leggero strato che non faceva in tempo a depositarsi agli angoli delle strade, che era già diventato di uno sporco grigio-marrone-giallastro marcato dallo smog, dall'immondizia, dalla sporcizia impalpabile che aleggiava nell'aria e si respirava tutti i giorni senza accorgersene.
Ora che i ricordi dell'infanzia che credeva di aver dimenticato, o ai quali semplicemente non pensava da moltissimi anni, erano riaffiorati, Antonio si rendeva conto di una cosa che gli era sempre sfuggita o su cui non si era mai soffermato a riflettere: la sua vita era come spezzata in due con un taglio netto; quando stava per iscriversi alla prima media, i suoi avevano traslocato, erano andati ad abitare in un altro quartiere della città. Dopo tanti anni, Antonio non ricordava se l'avevano fatto per qualche necessità o semplicemente per avere una casa più grande o più comoda, ma la cosa non aveva poi molta importanza. Per lui aveva significato una frattura brusca: da una parte il tempo magico dell'infanzia, il Paese Incantato, dall'altra tutta la sua vita successiva, il tempo degli impegni di studio, poi il lavoro, il matrimonio, la carriera, i figli, la responsabilità.
Antonio dalla sua posizione distesa non riusciva a vedere la finestra che dava luce alla stanza, ma ebbe l'impressione che nevicasse; forse qualcosa come un cambiamento nella qualità della luce.
Cercò di sollevarsi per guardare il vano della finestra. Dapprima non gli riuscì, qualsiasi piccolo sforzo pareva una richiesta eccessiva per il suo povero corpo usurato dagli anni e dalla malattia, poi quasi di colpo si accorse di avercela fatta: si ritrovò seduto sul letto a fissare oltre i vetri, là fuori dove la neve scendeva a fitti bioccoli. Strano, gli venne da pensare, eppure si era in maggio anche se naturalmente poteva sbagliarsi, e maggio, se ricordava bene, era un mese in cui non nevicava, non alle latitudini italiane e al livello del mare.
Rimase ammirato a guardare i fiocchi che si depositavano al suolo formando strati che si sovrapponevano uno sull'altro. Era dall'infanzia che non ricordava una nevicata del genere. Non riusciva a capire: ci sarebbero dovute volere ore perché la neve raggiungesse una simile altezza, forse giorni, invece tutto era cominciato e finito in pochi minuti. Ora oltre i vetri si scorgeva uno strato compatto di neve che si stendeva a perdita d'occhio, giusto all'altezza del suo davanzale, eppure pareva di ricordare ad Antonio che l'appartamento non si trovava al pianterreno ma diversi piani più in su, e se era così, allora la città doveva essere sommersa sotto uno spessore da età glaciale.
Per alcuni minuti rimase a fissare quella superficie candida indeciso sul da farsi. I dolori e il senso di stanchezza plumbeo che l'avevano perseguitato per tutti quei giorni, sembravano scomparsi. Quel mondo ovattato, bianco, luminoso oltre la finestra pareva esercitare un'attrazione irresistibile. Si trovò fuori all'aperto quasi senza accorgersene, doveva aver scavalcato la finestra senza pensarci; la cosa strana era che il vetro era chiuso e lui proprio non ricordava di averlo aperto. Mosse alcuni passi in avanti aspettandosi di sprofondare nello strato nevoso, invece sembrava offrire un appoggio abbastanza consistente.
Come quella dei ricordi della sua infanzia, quella neve pareva trasmettere incongruamente una sensazione di tepore. Antonio toccò con la mano un monticello lì vicino: non era affatto fredda, era anzi vagamente tiepida.
Respirò a fondo: si sentiva meglio, molto meglio di quanto non si fosse sentito negli ultimi tempi.
Si avviò a rapidi passi nella neve; era vestito leggero ma non provava freddo, anzi gli sembrava di essere avvolto da un bozzolo di gradevole tepore. Quanto tempo era che non riusciva più a muoversi con quella scioltezza e quella elasticità di passo giovanili? Molto tempo, senza dubbio troppo.
Scorse delle figure davanti a sé, figure umane, e notò un'altra cosa strana: da come si muovevano, dovevano essere a livello del piano stradale, e questo lo sorprese, perché nell'ipotesi che una bufera di neve si fosse ammucchiata sopra casa sua fino all'altezza del suo appartamento situato al quarto o quinto piano (non ricordava bene), per raggiungere il livello stradale avrebbe dovuto scendere, invece aveva l'impressione di procedere in salita, una dolce, leggera salita per nulla faticosa, ma salita.
Avvicinandosi, Antonio poté vedere meglio le figure davanti a lui, erano bambini che si davano battaglia a colpi di palle di neve.
Mentre si stava avvicinando, una palla lo colpì in pieno petto. Affondandovi le dita per scuotersela di dosso, Antonio sentì che non era né fredda né umida, pareva una via di mezzo fra cotone e panna montata.
Preso da un improvviso impulso, raccolse un grumo di neve, lo compresse leggermente fra le mani per farne una palla, e la lanciò contro il ragazzo che l'aveva colpito. Ne ricevette altre due in risposta. Ben presto si trovò coinvolto in una gazzarra di monelli. Fu colpito più volte e rispose scagliando palle in tutte le direzioni. Erano decenni che non si divertiva a quel modo. La cosa che più lo stupì, fu che quei ragazzini avevano preso subito a trattarlo come uno di loro, sebbene non avesse più per nulla l'aspetto di un ragazzo: era un uomo maturo, un anziano, un vecchio – era il caso di dirlo – .
Poi, sempre battagliando con la riserva di bianchi proiettili disseminata dappertutto, guardò meglio i suoi avversari e rimase per un istante senza fiato. Avrebbe giurato di riconoscere i lineamenti immutati nel tempo dei suoi antichi compagni di giochi. Sforzandosi, gli parve di riuscire a collegare ad alcune facce qualche nome, ma di quello era meno sicuro. Ciò di cui si sentiva sicuro, invece, era che qualche strano miracolo gli aveva permesso di ritrovare il Paese Incantato dell'infanzia.
La strada sulla quale ora si trovava, a parte la superficie innevata e i grossi cumuli negli angoli riparati, gli sembrava proprio la stessa dove aveva trascorso quei primi anni meravigliosi, ma questo non l'aveva preparato alla sorpresa che arrivò poco dopo, colpendolo con inaspettata intensità. Il bar, il bar all'angolo dove da bambino si fermava prima e dopo la scuola, era lì proprio davanti a lui.
Con il cuore che gli batteva forte, fece ancora pochi metri, spinse la maniglia ed entrò.
Dentro, l'accolse un profumo di caffè, di dolciumi, di brioches appena sfornate, proprio come tanto tempo prima.
Quasi senza meraviglia, osservò l'uomo dietro il bancone: il signor Emilio identico a come lo ricordava sessanta o settanta anni prima.
“Antonio!”
“Emilio!”
L'uomo uscì da dietro il bancone e lo abbracciò: un abbraccio forte, di quelli che arrivavano fin dentro l'anima e la scaldavano.
“Quanto tempo, incredibile!”
“Posso offrirti qualcosa?”, chiese Emilio.
“Hai ancora quelle buonissime focaccine d'uva?”
“Certo, come no, calde calde appena sfornate”.
“Allora”, chiese Antonio, “Una focaccina e un caffè”.
La focaccia, che Antonio mangiò lentamente assaporandone ogni briciola, era la più gustosa che avesse mai assaggiato, e anche il caffè aveva un aroma intenso, corposo, squisito.
Fece per mettere mano alla tasca posteriore per prendere il portafogli, ma Emilio lo fermò con un gesto brusco.
“No, Antonio, mi offendi. Offre la ditta”.
Accompagnato da Emilio, Antonio riguadagnò di nuovo la porta del bar che si affacciava sulla strada; era una via che Antonio conosceva bene: da una parte c'erano la scuola, svariate botteghe e negozi, le case di diversi dei suoi amici, casa sua, e alla fine dove il percorso cessava sbarrato dai muri delle case che si addossavano le une alle altre, la piazzetta dove andava a giocare a pallone coi suoi amici. Dall'altra parte, invece, una doppia fila di abitazioni e negozi che non erano legati ai suoi ricordi personali.
“Sai”, disse a Emilio, “quando ero bambino, il tuo bar vicino alla scuola per me era sempre il termine ultimo delle mie escursioni, accompagnato da mia madre o anche da solo. Ho sempre desiderato andare oltre a vedere cosa c'è, ma ne ho avuto anche un po' paura”.
“Prima o poi”, rispose Emilio con aria pensosa, “tutti devono andare oltre, e ora è arrivato il tuo momento, ma ti confiderò un segreto: tu non hai nessun motivo di temere quello che c'è oltre”.
Si strinsero la mano in un ultimo caloroso saluto, poi Antonio si avviò. Fatti pochi passi, la strada svaniva, c'era solo il biancore di quella neve tiepida che dava un meraviglioso senso di intimità e di protezione, e la luce riflessa da quel bianco nitido che la rendeva nello stesso tempo morbida e intensa.
Man mano che avanzava, la luce cresceva d'intensità.
Appena rientrata a casa, Manuela andò a vedere come stava suo padre. L'uomo aveva gli occhi chiusi e pareva dormisse, ma la figlia si accorse che non c'erano più né respiro né polso. Sapeva che ad Antonio non restava molto da vivere, ma era un rammarico atroce non essere stata lì al momento del trapasso, quando aveva sperato di potergli essere vicina.
Suo padre però – notò – non doveva aver sofferto, doveva essersene andato nel sonno, discreto e gentile come era stato tutta la vita.
Sul suo volto aleggiava ancora un sorriso, sembrava essersi spento con grande serenità e dolcezza.
Piangendo, alzò il lembo del lenzuolo a coprirgli il volto.



5 commenti:

  1. Una moderna fiaba, quella di Fabio, emozionante e intensa. Piacevole scrittura.

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  2. E' un racconto meraviglioso e tanto commovente. Complimenti Fabio, davvero!!!!

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  3. Toccante e piacevolmente malinconico. Ottimo racconto.

    Danilo Concas

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  4. Un racconto dalla grande forza emotiva che è riuscito a far leva sui miei sentimenti.
    Bravo Fabio.

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  5. Davvero molto bello, la scrittura semplice e trascinante, supporta lla perfezione il racconto.

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