giovedì 12 settembre 2013

A PRANZO DAGLI ZII di Fabio Calabrese



                  
L'odore delizioso del pollo arrosto cucinato al punto giusto solleticò le mie narici cogliendomi di sorpresa.
Mi facevo un dovere di andare regolarmente a trovarli, gli zii, ma devo essere sincero, era un dovere alquanto piacevole perché zia Marta era un'ottima cuoca e mi pregava invariabilmente di rimanere a pranzo, e lo zio Ernesto, il fratello minore di mio padre, un maresciallo dei carabinieri in pensione, aveva sempre un sacco di storie interessanti da raccontare circa la sua passata attività di tutore dell'ordine.
L'odore del pollo arrosto, tuttavia, mi aveva colto alla sprovvista perché sapevo che negli ultimi anni mio zio aveva smesso di mangiare carne.
«Ma non eri diventato vegetariano?», chiesi a zio Ernesto.
L'anziano milite dell'Arma ammiccò in quella sua maniera caratteristica.
«Eh, mio caro», disse, «Io non avrei nulla in contrario a una buona bistecca o a un pollo come si deve, ma il fatto è che non ti puoi fidare. La normativa europea è molto rigorosa sugli OGM per l'alimentazione umana, ma non pone limiti per i mangimi animali, e così va a finire che gli OGM ce li ritroviamo nel piatto lo stesso, ma questo è un pollo ruspante allevato a terra alla vecchia maniera che ho avuto da un mio amico contadino.»
«Ma zio», dissi, «Tu sei una persona molto razionale e sai che l'Europa ha adottato una messa al bando molto rigorosa sugli OGM per l'alimentazione umana per accontentare gli ambientalisti, che alle volte hanno preoccupazioni serie ma certe altre delle autentiche fisime. Sai che non è mai stato provato che gli OGM arrechino danni o nocività di qualunque genere all'organismo umano.»
«Dici?».
Mio zio mi diede una strana occhiata, come di qualcuno che sa molte più cose di quelle che può dire.
«Ti racconterò una storia», aggiunse, «Una cosa che mi è capitata poco prima del pensionamento, poi mi saprai dire tu.
Una mattina riceviamo una telefonata dalla sede locale della Collebeato; lo sai, quella grossa azienda multinazionale che si occupa di biochimica, biotecnologie, farmaceutica, prodotti zootecnici, sementi, mangimi, diserbanti, un po' di tutto, francamente non so in che cosa non abbiano le mani in pasta.
La sera prima un loro ricercatore, il dottor Alessandro Borri, si era trattenuto in laboratorio per portare a termine un esperimento importante.
La mattina, poco prima dell'arrivo del personale, era passata la donna delle pulizie e l'aveva trovato morto stecchito.
Presi una gazzella e andammo io e il carabiniere Rattazzi.
In tutti gli anni di servizio ho imparato a fidarmi delle mie sensazioni. Vedi, in un lavoro come il mio si finisce per sviluppare una specie di istinto, e io avevo capito subito appena ricevuta la telefonata che quella faccenda era strana, perché tre mesi prima alla Collebeato era morto un altro ricercatore, Carlo Pacini. Un grosso contenitore di acido era scoppiato mentre il poveretto gli si trovava vicino. Oltre allo shock dell'esplosione, Pacini aveva riportato ustioni gravissime, era entrato in coma ed era morto tre giorni dopo all'ospedale senza aver ripreso conoscenza.
Durante il tragitto, mentre Rattazzi guidava, un sacco di pensieri mi si affollavano nella testa. Il caso Pacini era stato appena archiviato come incidente e non avevamo avuto alcun motivo per pensare che – appunto – di un incidente non si fosse trattato, ma due a così poca distanza di tempo erano una coincidenza piuttosto sorprendente, e nel mio lavoro ho imparato a non credere alle coincidenze.
Arrivammo alla Collebeato e fummo portati nel laboratorio dove era stato trovato il cadavere che giaceva là sotto un telo. Scostai il telo e rimasi esterrefatto: in tanti anni di carriera, e sì che ne avevo viste di cose, non avevo mai visto un cadavere in quelle condizioni. Vedi di non fraintendermi, non voglio dire che fin allora non avessi mai visto corpi altrettanto e anche più ripugnanti, basta che pensi agli incidenti stradali che qualche volta la gente è ridotta peggio che su un bancone di macellaio; no, voglio proprio dire che non avevo mai visto un cadavere di quel tipo, e non avevo proprio idea di che cosa avesse potuto ridurlo così: era rinsecchito, incartapecorito come se qualcosa gli avesse succhiato via tutto il sangue e gli umori vitali.»
«Come una mummia?», chiesi.
«Si, più o meno», rispose lo zio, «Hai presente le mummie del museo egizio? Beh, lui non era molto diverso, era impossibile credere che meno di ventiquattr'ore prima quell'uomo era stato vivo e vegeto.
Non riuscivo a capire: se Borri era morto dissanguato, ci sarebbe dovuta essere in giro una grande quantità di sangue, invece non ce n'era nemmeno una goccia, tutto era pulito.
Andammo a interrogare il guardiano notturno. L'uomo ci disse che la sera prima aveva fatto il suo giro d'ispezione verso le 21, e tutto era in ordine, tranquillo come sempre. L'unica persona presente nell'edificio era il dottor Borri che gli aveva detto di doversi trattenere per portare a termine un'importante ricerca, ed era vivo e, a quanto pareva, in buona salute e di umore assolutamente normale. Il guardiano l'aveva salutato, aveva ripreso il suo giro d'ispezione senza trovare nulla d'insolito, poi era uscito dall'edificio e aveva passato la notte nella guardiola adiacente al cancello, così come faceva d'abitudine. Per quello che gli risultava, durante la notte non era entrato né uscito nessuno.
Prima che tu me lo chieda, ti dirò subito che, certo il guardiano poteva essersi addormentato durante la notte, ma la cosa non avrebbe fatto nessuna differenza, perché c'era un doppio sistema di allarme con telecamere a circuito chiuso, uno all'interno dell'edificio, l'altro alla recinzione esterna e al cancello. Le telecamere erano predisposte per la visione notturna a infrarossi. La Collebeato, come sai, è un'azienda molto importante e non ha mai badato a spese per la sicurezza dei propri impianti e dei propri brevetti, non solo per difendersi dallo spionaggio industriale, ma anche da gruppi ecoterroristi che più di una volta hanno degnato le sue sedi di un'attenzione indesiderata.
Terminato il giro d'ispezione, prima di ritirarsi nella guardiola, il guardiano aveva inserito entrambi gli allarmi. Noi poi abbiamo visionato la pellicola delle telecamere a circuito chiuso e non avevano registrato nulla, solo ambienti vuoti e immobili all'interno e all'esterno.
Dopo di noi sono arrivati quelli dei RIS a fare i rilievi, e ti posso dire che le sole impronte che hanno trovato nel laboratorio erano quelle di Borri. Poi il cadavere è stato portato all'obitorio.
Mi era stato ordinato di dare la notizia del decesso alla convivente di Borri. Lì per lì pensai che ci dovesse essere un errore: l'indirizzo che mi era stato dato, lo ricordavo bene, era lo stesso di Pacini. Il capitano mi spiegò che non c'era nessun errore: dopo la morte di Pacini Borri si era trasferito nella villetta appartenuta al collega.
Oh, me la ricordavo bene, una villetta con giardino un po' fuori mano. Il giardino era piuttosto incolto, trascurato, avrebbe avuto bisogno di un buon giardiniere. L'unica pianta che appariva rigogliosa e in buona salute era un grosso arbusto di una specie a me sconosciuta, una pianta dalle grandi foglie palmate di un verde scuro e lucido che aveva in cima un unico grande fiore con il calice a imbuto da cui spuntava un pistillo lungo e grosso. La pianta si trovava proprio a un passo dal vialetto d'ingresso.
La cosa che mi colpì, è che il fiore nella mia precedente visita di tre mesi prima mi era parso di colore bianco, mentre ora i suoi petali avevano una tonalità rosata, ma non me ne intendo di botanica abbastanza da dire che fosse una cosa anomala.
Mi venne ad aprire Elsa Pacini, me la ricordavo bene dalla mia precedente visita che avevo fatto in quella casa. All'epoca avevo già superato i sessant'anni, ma credimi, ero ancora in condizioni di riconoscere una bella donna quando la vedevo, ed Elsa Pacini avrebbe risvegliato gli istinti di un morto. L'abito semplice e il trucco appena accennato non nascondevano né le curve perfette della figura né la carica di sensualità che emanava da quella donna.
Le diedi la triste notizia, e lei mi fece accomodare e mi spiegò che dopo la morte di Carlo, Sandro le era stato molto vicino e di conforto, finché lei l'aveva invitato a trasferirsi lì lasciando l'appartamento da scapolo piuttosto piccolo dove lui aveva abitato fin allora.
Non lo lasciai trasparire, ma non ero convinto per niente: tutte e due le volte la sua reazione era stata fin troppo contenuta. Uscii dal nostro breve colloquio con la convinzione che se volevo risolvere il caso, dovevo riaprire il fascicolo di Pacini, che i due casi erano collegati.
Uscendo sul vialetto che portava al cancello, mi fermai vicino alla strana pianta. Da lontano o guardato senza attenzione il fiore appariva rosato, ma a un esame più attento ci si accorgeva che in realtà i petali erano screziati da venature sanguigne.
In ufficio trovai ad attendermi i risultati dei rilievi dei RIS e il rapporto del medico legale. Il rapporto dei RIS non diceva molto, non erano state trovate impronte tranne quelle dello stesso Borri, né tracce di rilievo.
Il referto del medico era sorprendente: sul corpo del ricercatore c'erano alcune piccole ferite come delle punture d'insetto o di spine vegetali.
Alessandro Borri sarebbe potuto essere dissanguato, addirittura disseccato di tutti gli umori vitali attraverso esse? In teoria si, anche se ci sarebbe voluto un tempo lunghissimo. La morte per dissanguamento richiede molto tempo ma non è particolarmente dolorosa, perché con la perdita di sangue si perdono la sensibilità e la coscienza; solo che qui la situazione mi sembrava spinta un po' troppo all'estremo.
Poco dopo avevo appuntamento con il guardiano notturno della Collebeato che era stato l'ultimo a vedere Alessandro Borri vivo.
Lo feci accomodare e, dopo che mi ebbe ripetuto quel che mi aveva detto nella sede dell'azienda, lo invitai a riflettere bene se gli veniva in mente ancora qualcosa, qualsiasi particolare per quanto irrilevante gli fosse sembrato.
“Si”, mi rispose, “Ora che ci penso, quando facevo il mio giro d'ispezione,  dovevano essere le 21 e 10, mi è sembrato di sentire un rumore, un rumore molto leggero, non sono nemmeno sicuro di averlo udito davvero. Mi sono diretto dove mi era sembrato che provenisse. C'era uno stanzino vuoto, c'era solo uno scopettone con degli stracci per terra, e questo era strano perché quella era una cabina elettrica, non il ripostiglio delle scope”.
Ebbi un'improvvisa intuizione.
“Uno scopettone”, dissi, “Immagino che la luce fosse scarsa. Non poteva essere invece una pianta, una specie di arbusto?”
“Questo non posso escluderlo”.
Ero sempre più convinto che ci fosse un legame fra la morte di Borri e quella di Pacini, e che non sarei riuscito a risolvere il caso senza riprendere in mano la pratica di Pacini.
Mi feci portare dall'archivio il fascicolo di Pacini e cominciai a esaminarlo, era piuttosto voluminoso. I ragazzi avevano lavorato con accuratezza: c'era la trascrizione dei file che erano stati ritrovati nel computer di Pacini. L'ultimo era la stampa di un foglio excell che risaliva allo stesso giorno dell'incidente. Pacini era impegnato a calcolare un sequenziamento di DNA, non chiedermi di che cosa.
Una cosa che tre mesi prima non avevamo notato o non le avevamo dato importanza, era una cifra digitata in fondo al foglio, staccata dal resto dei calcoli: 80221.
E se, l'idea mi fece quasi girare la testa, Pacini avesse voluto lasciare un indizio per incastrare il suo assassino? Era possibile? Si che lo era. Quando una persona viene colpita anche alla testa o addirittura se prende una pallottola al cuore, la perdita di coscienza spesso non è istantanea come chiudere un interruttore, passano alcuni secondi in cui si può ancora tracciare qualche segno o digitare qualcosa.
Questo implicava molte cose, e prima di tutto che Pacini non era morto o aveva perso i sensi nel laboratorio di chimica ma nel suo ufficio mentre era al computer, poi doveva essere stato trasportato nel laboratorio di chimica già morente o solo esanime, e l'incidente era una messinscena abilmente costruita.
80221 cosa significava? Non era un numero telefonico, poteva essere il numero di una cassetta di sicurezza o un codice bancomat.»
«Un codice bancomat di sole cinque cifre mi sembra improbabile», commentai.
«Infatti», replicò zio Ernesto, «E' un'ipotesi che ho scartato quasi subito anch'io. Poi tieni conto che Pacini era un uomo molto intelligente, avrebbe cercato di lasciare un indizio che sarebbe sfuggito al suo assassino che altrimenti l'avrebbe cancellato, ma che un investigatore in gamba avrebbe potuto decifrare.
C'erano degli appunti di Pacini scritti a mano; li sfogliai: aveva un modo particolare di scrivere i 2 con il tratto orizzontale alquanto inclinato, bastava far scendere un trattino verticale dal ricciolo e diventavano delle R.
Pacini aveva scritto a tutte lettere o a tutti numeri il nome del suo assassino: Borri.
Adesso i pezzi del puzzle cominciavano ad andare a posto. Avevo saputo che Borri poco prima di morire era in odore di promozione, sarebbe diventato direttore della filiale perché pare fosse riuscito a selezionare una nuova varietà di mais ad alto rendimento, e questo era strano, perché era più un amministrativo che un ricercatore vero e proprio. E se avesse rubato l'idea di Pacini?
Poi c'era Elsa, era la storia più vecchia del mondo: la donna che fra il genio incompreso fallito e il rampante arrivista di successo sceglie il secondo. Ero sicuro che Elsa e Borri dovessero essere amanti ben prima che Pacini morisse. Era chiaro che a questo punto Pacini era diventato una presenza scomoda per i due.
Mi fermai un attimo a riflettere. Una prova come quella che avevo in mano non avrebbe mai retto in tribunale, ma la cosa non aveva importanza: Borri aveva già pagato.
Questo però mi riportava al punto di partenza: che cosa aveva ucciso Borri? Non ne avevo la minima idea. Avevo la forte sensazione che se c'era una risposta, era nelle carte di Pacini che la si doveva cercare.
Terminato l'orario d'ufficio, mi presi il fascicolo di Pacini e me lo portai a casa per studiarmelo con calma.
Il fascicolo, te l'ho detto, era molto voluminoso perché alla Collebeato era rimasta un'ampia documentazione delle ricerche di Pacini.
Da quello che riuscivo a capire, quell'uomo doveva aver goduto di molta autonomia all'interno dell'azienda: era il tipo che si metteva a trafficare seguendo una sua idea secondo schemi che riusciva a capire solo lui e alla fine, il più delle volte ma non sempre, ne usciva fuori qualcosa che fruttava all'azienda fior di quattrini, anche se era il tipo che si muoveva male nel lavoro di equipe e coi rigorosi protocolli di laboratorio. Non so se rendo l'idea, se fosse vissuto all'epoca di Galileo o almeno a quella di Edison, sarebbe stato un grande.
La parte più interessante erano i suoi manoscritti. Alcuni erano annotazioni di lavoro piuttosto esoteriche per un povero maresciallo dei carabinieri che ha fatto gli studi molti anni fa letteralmente in un'altra epoca, ma molte erano annotazioni personali che formavano una specie di diario, e mi hanno permesso di capire molte cose della sua personalità.
Penso che fosse un tipo più passionale di quanto lasciasse trasparire. Quando è venuta fuori la nuova normativa europea sugli OGM un po' troppo restrittiva per i suoi gusti, era imbufalito come un toro infuriato.»
Interruppi un'altra volta il racconto dello zio.
«Vuoi dire», gli chiesi, «La proibizione di alterare il patrimonio genetico degli animali, di produrre OGM animali nemmeno a fini sperimentali?»
«Precisamente quella», rispose zio Ernesto, «I suoi appunti sono pieni di espressioni al limite del turpiloquio verso i burocrati di Bruxelles, come li chiamava, e anche verso i nostri politici che con il trattato di Lisbona avevano venduto un bel pezzo della nostra sovranità senza consultarci e senza nemmeno informarci.»
«Mi sa», commentai, «Che più che a Galileo o a Edison, somigliasse al dottor Frankenstein.»
«Può essere», replicò lo zio, «Ma a ogni modo l'ha pagata molto più cara di quanto meritasse. Comunque la Collebeato doveva per forza adeguarsi alla legge, e così anche il dottor Pacini. Deve essere allora che gli è venuta quell'idea assolutamente folle: violare lo spirito della legge rispettandone la lettera.
Guarda che io non sarei capace di spiegarti quello che sto per dirti, e nemmeno di capirlo se non avessi letto e studiato per bene gli appunti di Pacini. Noi pensiamo che animali e piante siano due cose del tutto differenti: gli animali sentono, si muovono, reagiscono agli stimoli dell'ambiente; le piante no, vegetano e se ne stanno lì a farsi cogliere o brucare. In realtà non è proprio così, tutti gli esseri viventi – animali e piante – hanno la stessa origine.
Le piante hanno una certa capacità di percepire l'ambiente: se crescono in un ambiente male illuminato, tendono a piegarsi verso le fonti di luce. Se rovesci il vaso di una pianta d'appartamento, anche un comune geranio, tende a piegare il fusto in modo da crescere verticale. I girasoli percepiscono la posizione del sole nel cielo e si orientano rispetto a essa. Le piante carnivore avvertono il tocco di un insetto che gli si posa sopra, e riescono a distinguere il contatto di un insetto da quello di un rametto. E hanno capacità di movimento: i girasoli seguono il moto del sole, le piante carnivore intrappolano gli insetti.
Pacini aveva pensato di esaltare le caratteristiche “animali” dei vegetali, di creare un “animale vegetale” che fosse una cavia perfetta per gli esperimenti di ingegneria genetica senza violare la legge. Ha incrociato i genomi di diverse piante carnivore, di girasole, di ficus strangolatore e di paletuviere.»
«Paletuviere?», chiesi.
«E' una pianta molto interessante, molto particolare», rispose lo zio, «Si trova nelle foreste del Sud Est asiatico, i nativi la chiamano “l'albero che cammina”.»
Mi venne da pensare che quella particolare indagine doveva aver dato un contributo decisivo alla cultura di zio Ernesto, almeno nel campo delle scienze naturali.
«Pacini», proseguì lui, «Era riuscito a creare un ibrido vegetale, ma all'inizio non era molto vitale, e lo ha curato con robuste iniezioni di DNA animale, del proprio DNA».
«La figlia di Rappaccini!», esclamai.
«Non Rappaccini, Pacini», mi corresse zio Ernesto.
«Lascia perdere, zio», dissi, «E' un riferimento letterario.»
«Non so se comprendi», disse lo zio, «Questo l'ho imparato sempre dagli appunti di Pacini, ma il nostro DNA subisce delle lievi modificazioni nel corso della vita. Le modificazioni del DNA cerebrale sono quelle che permettono la fissazione dei ricordi. Forse Pacini non se ne era reso conto, ma stava creando una specie di duplicato vegetale di se stesso.
D'improvviso tutto quadrava. Fu come una folgorazione. Mi resi conto che c'era ancora una persona in pericolo. Mollai tutto e saltai in macchina guidando a rotta di collo verso la villetta di Pacini.
Credo di aver guidato in maniera spericolata come non mi era mai successo né ho fatto più dopo di allora. Credo di aver mancato di rispettare anche un paio di stop, e fu solo fortuna se non tamponai nessuno.
Quando arrivai davanti alla villetta di Pacini era già l'imbrunire ma non c'era nessuna luce accesa.
Suonai il campanello ma non ebbi risposta.
Scavalcai la recinzione e mi addentrai nel giardino.
La porta dell'abitazione era socchiusa. Dentro era tutto buio e silenzioso.
Trovai Elsa in camera da letto al primo piano, distesa sul letto, e mi bastò un'occhiata per capire che era morta. Ero arrivato troppo tardi.
Il cadavere era nelle stesse condizioni di quello di Alessandro Borri, era chiaro che i due erano morti, erano stati uccisi nello stesso modo.
Non mi restava altro da fare che avvisare i colleghi.
Uscii dall'abitazione e percorsi il vialetto che andava al cancello. Mi fermai davanti a quella strana pianta su cui ormai si concentravano tutti i miei sospetti: appariva turgida come se il fusto fosse stato rigonfio di umori. I petali del fiore non erano più rosati ma di un rosso acceso, sanguigno.
Forse era solo suggestione, ma mi parve di vedere una goccia rossastra scendere dall'estremità del pistillo.
Mi chinai a osservare la base della pianta, la terra era smossa come se le radici fossero state estratte e poi rimesse nel terreno.
Non c'erano occhi o organi di senso visibili, ma ebbi una forte impressione che la pianta mi osservasse mentre la esaminavo con sospetto.»
Lo zio Ernesto si interruppe.
«E poi?», chiesi.
«E poi niente», rispose lo zio.
«Come niente?», domandai.
«Ti dirò», disse, «Ero tentato in un primo momento di andare a prendere una tanica di benzina, innaffiare quella pianta e darle fuoco, ma poi ho deciso di lasciar perdere. Vedi: la differenza fra la giustizia e la vendetta, è che la giustizia non condanna mai nessuno senza un processo, senza dare prima a chiunque la possibilità di difendersi. E cosa potevo fare, mettere le manette a una pianta? D'altra parte, se davvero in quel vegetale era contenuto qualcosa della personalità e dell'identità di Carlo Pacini, condannato a una semi-vita vegetativa, aveva già cominciato a espiare in anticipo.
I casi di Alessandro Borri e di Elsa Pacini sono rimasti aperti, ma nessuno si affanna troppo a indagare, e hanno avuto pochissima eco sui media. La Collebeato non vuole pubblicità negativa, ha le sue leve e sa come muoverle, e almeno stavolta per me va benissimo così.
A ogni modo ne ho avuto abbastanza per il resto della vita di organismi geneticamente modificati.»
In quel momento arrivò la zia Marta portando in tavola il pollo arrosto.
Presi una coscia e vi affondai i denti.
Era squisita.

6 commenti:

  1. Interessante racconto. Scrittura impeccabile, gradevolissima.

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  2. Ottimo racconto, anche se troppo prolisso per i miei gusti.
    Mi ricorda La minaccia verde, di Lovecraft (Lo so, il mio è un brutto vizio.) Molto suggestiva anche la denominazione dell'azienda biotech, Collebeato, in contrapposizione alla sua gemella reale Monsanto.
    Sono inoltre contento che Pegasus SF stia andando molto bene, pubblicando racconti davvero all'altezza della migliore fantascienza.

    Danilo Concas

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    1. Sentendomi chiamato in causa, caro Danilo (chiedo scusa a Fabio se interferisco nei suoi commenti), non posso esimermi dall'intervenire per ringraziarti dei complimenti. Il successo di Pegasus Sf, molto seguito in Italia e all'estero, si deve, come tu del resto fai notare, al valore dei racconti pubblicati. Un grande ringraziamento a tutti gli autori e, in questo caso, a Fabio Calabrese.

      Paolo Secondini

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  3. Arioso racconto con una tematica molto interessante e d'attualità. Mi è piaciuta soprattutto la commistione tra giallo e fantastico. La storia corre via liscia e cattura il lettore.

    Giuseppe Novellino

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  4. Avvincente e scritto in modo brillante.
    Anche questo racconto è riuscito ad acchiappare la mia attenzione.

    Antonio Ognibene

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  5. Anche me il racconto è piaciuto. Bella la tematica e originale la situazione e lo svolgimento. Io ci ho trovato forse due o tre refusi.

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