mercoledì 6 luglio 2016

IN ATTESA CHE ARRIVI FIORENZA (Seconda Parte) di Renato Pestriniero

Dìkaia
Sta al telefono da oltre mezz’ora. È stato lui a chiamarla. All’inizio hanno parlato delle solite cose, il lavoro, i problemi del quotidiano, insomma argomenti comuni a tutti e sui quali tutti si trovano d’accordo. Ma appena passati alle rispettive relazioni personali, era stato inevitabile entrare nella sfera del privato. Sono cominciati allora gli attimi di silenzio prima di una risposta, la scelta delle parole per non rivelare certi dettagli.
Dìkaia stava uscendo dalla doccia quando lui ha chiamato. È ancora avvolta nell’accappatoio, i capelli stretti in un asciugamano sistemato nell’abituale aggroppamento a turbante. Con gesti meccanici la donna stringe il collo dell’accappatoio, si friziona una spalla, insiste nel sistemare capelli ribelli che escono dall’asciugamano intrecciato. Indugia con la mano all’interno dell’accappatoio per godere dell’umidore della pelle. Succede che, inoltrandosi nel discorso, la mano accarezzi levigatezze rese ancora più morbide dalla posizione rilassata del corpo sulla poltrona. La mano reagisce alle parole che lui vorrebbe dire. A occhi chiusi, Dìkaia risponde a monosillabi.
Il tempo fluisce veloce, vengono colte sfumature che solo una profonda conoscenza reciproca può permettere, benché non derivata da assidua frequentazione. Poi lo scambio filtra su livelli più personali. Dettagli vengono prima sfiorati, poi trattenuti, quindi approfonditi. Il tempo ha ormai perduto significato. Con la complicità della distanza, entrambi si lasciano andare. Misura e inibizioni vengono allontanate nella consapevolezza che, ormai, quel momento magico non può più essere interrotto. Ma c’è ancora un muro da abbattere, ed è un muro di notevole spessore. Sarebbe più esatto dire che la difficoltà di abbatterlo non sta nello spessore quanto nel materiale di cui è fatto.
Lui si sente in dovere di mantenere l’iniziativa per atavica sindrome maschile, ma risulta evidente che ha bisogno di lei per poter continuare. E per lei, che si trova a dover resistere solo per sindrome identica ma antitetica, è difficile evitare sfumature capaci di indebolire ciò che entrambi si son trovati a costruire.
L’aspetto singolare – in un certo senso buffo – è che lui l’ha chiamata solo per non lasciar morire quel giorno nello stesso grigio silenzio di tutti gli altri giorni.
- I tuoi problemi – sta dicendo Dìkaia. – Sono i miei, le radici da cui provengono sono le stesse. Ci toccano in modo diverso in quanto tu sei uomo e io donna, ma la sostanza non cambia.
- Non so. Non credo tu riesca a capire quanto sia insopportabile l’impossibilità di…
- Di… amare?
- Sì
Un lungo silenzio. È Dìkaia a riprendere: - Non ci siamo frequentati molto ma avevo capito. Solo chi vive certe situazioni sulla propria pelle può intuire certe cose.
- Cosa intendi dire?
- Tu lo sai quanti anni ho. Eppure anch’io sono ancora vergine.
La nuova parentesi di silenzio è lacerante. Poi le parole scrosciano e si intrecciano veloci, le frasi si accavallano, il tempo adesso vola nella sua relatività beffarda.
Dopo che, finalmente, tutto è stato detto, lui chiede: - Ne sei convinta veramente?
- Penso sia un nostro diritto.
- Però dobbiamo aspettare fino a domani. In questo frattempo ciò che adesso sembra chiaro e definitivo potrebbe… e poi c’è una notte da passare… di notte tutto si trasforma… Se dovesse succedere mi chiamerai?
- Sì.
Luis
Non era ancora sceso dalla macchina che la vide affacciarsi alla porta. Durante la notte non c’erano state telefonate. E l’alba era giunta cancellando le lunghissime ore del buio, frastagliate di tradizionalismi, perplessità, ambiguità etiche. Poi l’attesa della sera. E adesso Dìkaia era lì ad aspettarlo, affascinante come mai gli era apparsa per la luce che traspariva dai suoi occhi. In essi c’era trepidezza, struggimento mal trattenuto. Sentì il respiro farsi affannoso ma, per la prima volta, non fece nulla per nasconderlo e, anzi, provò gioia nel poter rivelare l’ansia che aveva sempre costituito il suo limite.
La lampada a stelo accanto al divano era schermata da un pesante scialle damascato. Nella semioscurità della stanza i mobili emergevano come masse dai contorni confusi. Dìkaia gli porse una vestaglia. – Fa con comodo, io torno subito.
Luis cominciò a spogliarsi. Quando fu completamente nudo indossò la vestaglia. Provò eccitazione per le carezze del raso. Nel sedersi sul divano, un lembo della vestaglia scivolò scoprendogli una gamba. Si ricoprì e, per evitare che si ripetesse, tenne la mano sul ginocchio. Sopra un tavolo c’erano due bicchieri, una bottiglia di Gilbey’s intatta e una di Jack Daniel’s vuota per un terzo.
- Ieri sera era piena. – Disse Dìkaia alle sue spalle.
Lui si voltò di scatto. – Non così forte, potrebbe…
La donna scosse la testa: - Non preoccuparti, nemmeno se accendiamo la televisione a tutto volume può svegliarsi. All’ospedale sappiamo cosa usare per certi malati. – Dìkaia fece per spostare la borsa di Luis posata in un angolo. – Ma che ci tieni dentro! – Esclamò.
- Oh, roba d’ufficio, il portatile, quasi un archivio. – Si sforzò in un sorriso.
- Direi che ci tieni pure i mobili.- Si aggiustò il collo dell’abito. Il debole chiarore faceva rilucere l’indaco della seta. Era un abito dal taglio semplicissimo che le scendeva morbido fino ai piedi esaltando con giochi d’ombre ogni movimento del corpo e la trasformava, agli occhi di Luis, in una stupenda sconosciuta. Finalmente, di fronte alla disponibilità di una donna, provava un’emozione pulita, normale. – Hai detto che ieri sera quella botiglia era piena.
- Ho voluto stordirmi per dormire e non correre il rischio di telefonarti. Il bourbon ha fatto il suo dovere anche se stamane avevo la testa di piombo. – Scrollò le spalle. – Ma sono bastate venti gocce per rimettermi a posto.
Luis le appoggiò le mani sulle spalle. – Siamo maledettamente uguali anche nelle piccole cose.
- Anche tu Jack Daniel’s?
Luis annuì. La guardò negli occhi, poi fece scorrere lo sguardo lungo quel corpo inaspettatamente insolito. Una cintura sottile la cingeva ai fianchi. Avrebbe voluto slacciarla per accertarsi che, come la seta faceva intuire, Dìkaia fosse nuda.
Lei sorrise. – C’è anche del gin. - Versò il Gilbey’s nei bicchieri. Poi sedette sul divano. La vestaglia di Luis tendeva ad aprirsi e lui si sforzava per trattenerne i bordi.
– Ti sentirai un po’ a disagio – disse la ragazza. - Ma meglio eliminare qualsiasi causa… - Fece un gesto con la mano per esprimere parole che non trovava.
- Sì, impedimenti, intralci… sei ammirevole per il modo in cui hai affrontato questa decisione.
- Non sei il primo che ha indossato quella vestaglia, solo che…
- Non dire altro. – La interruppe Luis.
- Ma io voglio dirlo! Io so cosa vuole un uomo, io attraggo gli uomini e…
- Sei una donna bellissima, lo sei sempre stata.
- La bellezza non conta, anche una statua può essere bella. Io sono fatta di carne e sangue che però diventano marmo appena la mano di un uomo mi sfiora.
- Adesso siamo insieme.
Dìkaia ebbe un sorriso triste: – Devi aiutarmi. Devi aiutarmi molto.
Luis depose il bicchiere, le prese le mani e le strinse forte tra le sue.
 Luis e Dìkaia
Seduti l’uno accanto all’altra, Luis le accarezzava i capelli, le spalle, e solo quando fu lei a guidargli la mano sul seno, riuscì a introdursi fra le morbidezze della seta e della pelle. Teneva il volto affondato nell’incavo del collo lasciato scoperto dai capelli che Dìkaia aveva scostato, ne aspirava il profumo, continuava a mormorare il suo nome.
- Mi fai sedere sulle tue ginocchia? – Disse Dìkaia con voce quasi aspra. E senza aggiungere altro si alzò e con una torsione del busto e un ampio veloce arco della gamba fu seduta su di lui. –Così siamo più vicini – gli sussurrò all’orecchio. – E possiamo evitare di guardarci. Vorrei che tu non mi guardassi… - Dìkaia lo strinse forte per impedirgli di mutare posizione, per non lasciarsi sfuggire l’ultimo appiglio e naufragare.
- L’unica cosa che dobbiamo fare – Luis le frusciò tra i capelli. – È dimenticare che io sono tuo fratello e tu sei mia sorella. In questo momento tu sei una donna e io un uomo, nient’altro, una donna e un uomo che devono aiutarsi per sopravvivere.
Dìkaia assentiva in silenzio alle parole del fratello, lasciando libero il pianto che si era ostinata a trattenere. – All’ospedale qualcuno aveva sparso la voce che sono lesbica, ma non è vero, io ho sempre desiderato un uomo, e so cosa vi spinge a… vedi? – E con adorabile ingenuità abbassò la voce quasi a un sussurro – Ho scelto calze fumé autoreggenti perché so che questi particolari sono importanti, vero… vero? – E poi guardò Luis negli occhi, lo sguardo annebbiato dalle lacrime. – Ma devi essere dolce, amore mio, noi non siamo come gli altri.
Alfredo
21 marzo
Fiorenza carissima, questo diario sarà un colloquio con te in attesa che tu arrivi. Non so quando succederà, ma quel giorno io sarò qui ad accoglierti. Ho voluto cominciare oggi questo diario perché è il primo giorno di primavera. Anche il tuo nome sa di primavera. C’è il sole, i primi tepori nell’aria. Sono felice.
A volte sento dei bisbigliamenti e il mio pensiero corre subito a te, ma poi mi rendo conto che non è possibile, è ancora troppo presto.
Mia diletta Fiorenza, nell’attesa vivrò parentesi di anamnesi, scenderò gradino dopo gradino fin nel profondo per interpretare e vivere e godere i momenti che ci hanno fatti incontrare.
Alfredo
26 aprile
È passato poco più di un mese eppure mi sembra un’eternità. È sempre così quando si attende qualcosa di molto importante, il tempo ha la facoltà maligna di dilatarsi per creare tormenti.
Sempre più spesso sento scricchi e crepitii, a volte dal pavimento, a volte dalle pareti. Ho eliminato tutti i mobili per rendere echeggiante il minimo fruscio e così la casa possa parlarmi, stabilire un dialogo al quale purtroppo non riesco ancora a partecipare. Però il significato lo conosco, la casa mi sta parlando di te, Fiorenza, e ogni giorno riesco a imparare qualcosa.
Quando ho deciso di stabilirmi qui, mi sono fornito delle cose essenziali e ho tagliato il cordone ombelicale che mi teneva legato al mondo esterno. Da quel giorno, e ormai è passato più di un anno, mi sono dedicato esclusivamente a curare ogni dettaglio per il tuo arrivo. Adesso la natura sta sbocciando, ci sono colori e profumi, però i miei occhi sono solo per quel verde cespuglio, lo guardo per ore, lo spio quando il buio della notte me lo nasconde, e la prima ombra che vedo uscire all’alba sono i suoi rami che si rinforzano, le sue foglie che dilagano e avviluppano.
Ti sento sempre più vicina, Fiorenza, ti vedo nei fiori che stanno macchiando il cespuglio, ti sento nei respiri che la casa mi trasmette soprattutto di notte. Questi sussurri notturni mi hanno riportato alla memoria un’esperienza della mia infanzia, quattro anni, forse meno. Una notte mi svegliai e sentii provenire dalla stanza della mia mamma un respiro affannoso, dei lamenti. Pensai fosse entrato qualcosa di orrendo per farle del male. La porta della sua camera era socchiusa, e vidi che mio padre le era addosso e quell’ansito era il suo respiro e i lamenti provenivano dalle labbra di mia madre. Non c’ era nessun mostro. Cercai di riprendere il sonno coprendomi la testa con le lenzuola ma non ci riuscii, nelle orecchie avevo quei respiri e quei lamenti e negli occhi l’immagine terrificante dei miei genitori che, improvvisamente, si erano trasformati in due persone sconosciute.
Quella notte mi sentii solo perché avevo scoperto che, durante il giorno, il mio papà e la mia mamma portavano una maschera per farsi vedere da me come volevano loro.
Fiorenza adorata, prima ho parlato di taglio di cordone ombelicale. È solo una frase fatta perché nessuno può separarsi dal proprio passato, tutt’al più può metterlo da parte, se ne renda conto o meno.
Anche stanotte ho sentito bisbigli, ma, contrariamente a quelli che mi sconvolsero quand’ero bambino, questi mi recano gioia, e cerco di carpirne le minime sfumature. Sei tu, Fiorenza, che ti stai avvicinando.
 Alfredo
12 maggio
Ieri qualcuno ha bussato. Non so chi fosse, non mi sono curato di aprire né di guardare attraverso i fori che ho praticato nelle imposte. I fori li ho fatti per seguire le piante durante il giorno. Da loro vado solo quando è buio. Ormai le conosco come fossero mie creature, e in un certo senso lo sono. Hanno messo radici talmente profonde e robuste che niente può impedire la loro espansione. Già tutto il tratto del muro a oriente ne è damascato, e anche la parte della casa che dà sul giardino è ormai imprigionata da una ragnatela di rami e foglie e da fiori mai visti da queste parti. Pensa, Fiorenza, che devo bucare continuamente le imposte a mano a mano che i fori vengono coperti dalle nuove foglie. Questo mi dà un immenso piacere.
Dicevo che ieri qualcuno ha bussato. Poi ho sentito il rumore di una macchina che si allontanava. Più tardi ho visto una busta fatta passare sotto la porta. Sarà stato un altro avviso. Ho buttato nei rifiuti anche quella busta. Ormai telefono, luce, gas e acqua sono stati staccati. Per lasciare più spazio possibile ho eliminato anche i vecchi elettrodomestici che usava mia madre. Per muovermi di notte da una stanza all’altra non ho certo bisogno di lampadine o di torce elettriche, la casa la conosco in ogni sua minima parte. In realtà, non è che durante il giorno ci sia molta più luce con tutte le finestre sigillate. Solo attraverso i fori filtrano lame luminose che creano strani giochi di chiaroscuro. Mi piace guardarli e parlare con loro.
Una volta alla settimana vado a comperare un po’ di roba in scatola e qualche bottiglia d’acqua in quell’ipermercato che rimane aperto anche di notte. È faticoso perché ho dovuto vendere la macchina, ma non è un grosso problema.
Mi sento sempre più sereno, Fiorenza. Il vivere in questa oscurità appena trafitta da qualche filo lucente mi dà la sensazione di viaggiare a ritroso nel tempo, e più torno indietro e mi riavvicino a una nuova nascita più mi sento sereno.
A mano a mano che le ore e i giorni passano – l’orologio è l’unico oggetto che mi permette di indicare le date sul diario – mi ritrovo. Dormo dove e quando voglio, mi denudo se sono spinto a farlo, a volte mi piace giocare con i miei escrementi. Sento che tutto si concluderà tra poco, Fiorenza. Le piante stringono la casa in un abbraccio sempre più affettuoso.
Alfredo
7 giugno
Devo state molto attento perché se qualcosa dovesse danneggiare le piante sarebbe la fine. Per esempio mi sono accorto che un cane riusciva a infiltrarsi all’interno del giardino. Ho pensato che avesse scavato una buca sotto il muretto ma non ne ho trovato traccia.
Ad ogni modo ho studiato attentamente i punti dove il cane si soffermava e ho preparato una trappola. Ho applicato a una tavoletta di legno massiccio un sistema di lame trattenute da molle, ventidue lame lunghe quarantasei centimetri, diciotto sistemate lungo i lati e quattro al centro. Ho sotterrato la trappola sotto due o tre centimetri di terra, mascherata con foglie e sassi mescolati a cibo per cani. Poi mi sono appostato a osservare attraverso i fori. La prima volta non è successo niente, il cane è andato a ficcanasare altrove. Forse non aveva fame. Ma la volta successiva è passato sopra la tavoletta e in un attimo il suo corpo si è trasformato in un grumo di visceri lacerati. Ho aspettato che facesse buio, quindi ho messo tutta quella roba dentro un sacco di plastica e l’ho buttata sotto la tangenziale.
Mi dispiace aver dovuto uccidere quel cane. D’altra parte non posso permettere che le piante vengano danneggiate. Ucciderei chiunque.
Questa notte mi è sembrato di sentire un raschiare alla porta, poi ho capito che il rumore proveniva dalla parte prospiciente il giardino. Ho acceso una candela e sono andato a vedere. E finalmente, Fiorenza, c’è stato il primo segno: un pezzo di intonaco si era staccato e dalla porzione di muro lasciata scoperta ho visto che i mattoni avevano lasciato passare un ramo di Darlingtonia. Adesso sono contornato da bisbigliamenti, scricchi e crepitii, suoni che ho cominciato a sentire quando le piante si apprestavano a prendere possesso dei muri.
Era stata la mamma a voler chiudere la rientranza nel muretto, diceva che vi vedeva la faccia di nostro padre. È stata lei a voler mettere le piante per coprire ogni macchia che potesse ricordarle la sua faccia. E io, Fiorenza, mio fiore, ho fatto quello che lei desiderava. Lei diceva che nostro padre era pazzo, ma tu sai che non era così. Lui non riusciva a vivere nella realtà, e ha sempre cercato di trascinare anche la mamma in quel suo mondo fatto di giustizia e di sogni, di immaginazione. Ricordi cosa diceva? Solo la fantasia è vita, e un’esistenza senza fantasia è convivere con la morte. I nostri nomi, per esempio. Aveva voluto chiamare te Dìkaia e me Jorge Luis. Appena se ne andò, la mamma ha cominciato subito a chiamarci con i nomi che avrebbe voluto darci lei, Fiorenza e Alfredo.
La mamma ha fatto molto male a te, sorella cara, a causa di quella sua morbosa determinazione di isolarti, convinta com’era che dentro di te potesse germogliare la stessa visione del mondo che aveva nostro padre, e ha fatto molto male anche a me, il suo Alfredo, Alfreduccio, il suo Duccio.
 Alfredo
16 luglio
L’ultima volta che ho scritto era il 7 giugno. Non mi rendo conto che sia passato tanto tempo, forse il mio orologio si è rotto. Ma ormai per me il tempo non ha più significato. Le pareti interne della casa hanno partorito centinaia di rami e foglie e fiori. La mamma voleva piante che coprissero il muretto e io ho scelto le specie delle Sarraceniacee. Dalle pareti sono spuntate decine di ascidie gonfie come piccole anfore, misteriose come urne, trasformazioni delle foglie di Nepente, di Sarracenia, di Utricularia, piccole trappole che portano ancora dentro di sé i resti di ciò di cui si nutrono. Io le osservo e so tutto di loro, indago nel loro sacco branchiale, nei loro sifoni boccali e cloacali, spio il loro sbocco sessuale.
È venuto il momento del tuo arrivo, Fiorenza, lo sento, sei vicina, forse domani. Intanto scruto questi fiori che spuntano dalle pareti dopo aver lottato per infiltrarsi tra pietra e pietra con forza lenta ma tremenda, facendo gemere la casa. Adesso carezzo i loro sepali, i petali gialli e rossi, i pistilli muniti di ovario, i loro frutti a capsula, le foglie a imbuto.
Fiorenza, tra poco sarai anche tu fra questi fiori e ci riuniremo. Quella sera in cui proprio qui, in questa stessa stanza dove ora mi trovo a scrivere accanto alla vestaglia di raso – che uso come giaciglio –, abbiamo trovato insieme la forza di amare, il tuo corpo ha avuto solo un trasalimento quando la lama ti penetrò. Tutto era pronto, Fiorenza dolcissima, le piante erano in attesa di essere messe a dimora, e non potevano trovare dimora migliore se non nelle tue membra divise. Ricordi come pesava la mia borsa? E il giorno dopo, quando la mamma, uscita dal torpore che le avevi procurato, scoprì che la rientranza nel muretto era stata coperta dalle piante e non avrebbe più visto la faccia di nostro padre, disse Duccio caro mi hai fatta felice.
 Alfredo e Fiorenza
18 luglio
Non c’è più ragione di continuare questo diario perché sei arrivata.
È successo questa mattina, solo poche ora fa. Nel sacco branchiale di un fiore di Nepente ho trovato un frammento di te. Ho staccato il fiore e l’ho assunto come comunione con quanto di prezioso esso conteneva.
Benvenuta Fiorenza.
 

 

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