lunedì 13 luglio 2015

NINNA NANNA di Teresa Regna



Ninna-o, ninna-o,
questo bimbo a chi lo dò:
se lo dò all’uomo bianco
se lo tiene un giorno soltanto;
se lo dò alla befana
se lo tiene una settimana;
se lo dò all’uomo nero
se lo tiene un anno intero.
La mamma mi cantava sempre questa ninna nanna, quando ero piccolo. Ora la canta al mio fratellino, Marco, che dorme nella culla, vicino al mio lettino. Ha meno di un anno, non sa parlare e cammina a quattro zampe, ma io gli voglio bene. Anche se ho appena compiuto sei anni e sono grande: frequento la prima elementare.
Marco, invece, ha solo dieci mesi. A quell’età si contano i mesi, me l’ha spiegato la mamma. Ora la ninna nanna è finita, e la lampada grande è stata spenta. Rimane soltanto il lumicino da notte, a forma di candela, a farci compagnia. Ho chiesto io il lumicino: le mie notti sono popolate di uomini bianchi, befane, e uomini neri. Soprattutto uomini neri, che tentano di rapire me e Marco per un anno intero. E poi se mio fratello si sveglia piangendo, al buio la mamma non può prenderlo in braccio e consolarlo, né dargli un po’ di camomilla quando ha male al pancino.
Ho tanto sonno, e so che è notte perché dagli scuri accostati non passa nemmeno un po’ di luce, ma un rumore strano mi ha svegliato. È una specie di respiro soffocato, seguito da un passo pesante. Apro gli occhi, poi li stropiccio con la mano. Un’ombra scura è vicino alla culla di Marco. Non è la mamma: è più alta e più magra. Forse è l’uomo  nero, che  vuole  portare via mio fratello per un anno. Mi metto a sedere sul letto, e mentre mi sistemo l’ombra si china su Marco.
Urlo, con tutto il fiato che ho in gola. L’ombra si gira e mi guarda: è una vecchia bruttissima, con i capelli bianchi legati con un laccio, un lungo vestito nero e il naso grosso e rosso. Non mi sembra la befana: è molto più brutta. E ha gli occhi cattivi, che mi fissano per un momento. Quando il passo della mamma si avvicina, la vecchia scompare.
“Mamma, Marco sta bene?” chiedo. La guardo mentre si avvicina alla culla, si china sul mio fratellino e lo accarezza.
“Sta benissimo, tesoro” mi assicura. “Hai urlato perché credevi che stesse male?”.
“No. Perché una vecchia brutta voleva rapirlo. E non era la befana”.
“Avrai sognato”, dice la mamma. “Non c’è nessuno qui. Torna a dormire”.
Le obbedisco, però non è riuscita a convincermi. Ora non c’è nessuno, ma poco fa la vecchia c’era. Io ci vedo bene, e non stavo sognando.
È domenica mattina, e non devo andare a scuola. Ho deciso di chiedere alla nonna chi è quella vecchia brutta e cattiva che mi ha spaventato stanotte. La nonna abita sul mio stesso pianerottolo, all’11/b. Vado a trovarla e le racconto quello che è successo stanotte.
“Sta’ attento”, mi dice. “Potrebbe essere una janara”.
“Una cosa?”, chiedo. Sono curioso: forse lei sa chi è quella donna.
“Una janara: una strega che uccide i bambini nel sonno. Corrisponde alla descrizione che mi hai fatto: capelli lunghi e bianchi, vestito nero, naso grosso e sguardo cattivo”.
La nonna è una che sa il fatto suo, perciò le domando “Cosa posso fare per difendere Marco?”.
Questa è una cosa che non sa, perché scuote la testa. “Prova con l’aglio: se funziona con i vampiri potrebbe spaventare anche le janare”.
La ringrazio e scappo a casa, a giocare con il nuovo computer che mi hanno regalato per il compleanno. Marco attraversa a quattro zampe tutta la casa, allegro come sempre. Non si è accorto di niente: io, invece, ho paura. La vecchia, janara o non janara, può tornare stanotte.
È passata una settimana da quando la janara ha tentato di uccidere il mio fratellino. Abbiamo dormito, come angioletti, per sette notti. La mamma ha smesso di guardarmi con un’aria preoccupata e il papà non dice più che ho troppa fantasia. Secondo me, la fantasia non è mai troppa, ma è un pensiero che tengo soltanto per me.
Ho un orologio, che in questo momento è posato sul comodino, ma non so ancora leggerlo. Perciò non so che ora è. So solo che è notte, e che mi sono svegliato all’improvviso. Sto sudando, ma non fa caldo: sono agitato. La janara è tornata, e questa volta sta venendo verso di me. Forse l’aglio che ho nascosto sotto il materasso della culla la tiene lontana, o ha soltanto cambiato idea e vuole uccidere me. Nel mio letto non c’è l’aglio, e non ho abbastanza voce da urlare per chiamare aiuto: ho la gola secca e quasi non riesco a respirare. Ho paura: una paura che non avevo mai provato prima.
Penso alla nonna, e ai suoi consigli. Quando una presenza malvagia ti minaccia, scacciala facendo il segno della croce, mi dice sempre. Ci provo: alzo la mano destra,  e  tremando  la porto alla fronte. “Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”, dico con un filo di voce. Funziona: la janara ride, mostrando i denti sporchi, e sparisce.
È meglio l’aglio o la croce? Domani lo chiederò alla nonna. Ora mi sforzo di tornare a dormire, come fa Marco, che non si è accorto di nulla.
La nonna mi ha detto che posso usare l’aglio e la croce: due rimedi sono meglio di uno. Perciò ho infilato uno spicchio d’aglio sotto il mio materasso e preso un crocifisso dall’armadio della mamma. L’ho messo nel cassetto del mio comodino, sotto i fumetti e le foto di quando ero piccolo.
Stanotte la janara è tornata. Sto piangendo come una fontana, e nemmeno la nonna riesce a consolarmi.
“Raccontami com’è andata”, dice.
Tiro su col naso e comincio. “Un rumore di passi mi ha svegliato. Anche se è capace di scomparire, e di muoversi molto velocemente, la janara fa rumore quando cammina”.
“Se non lo facesse, nessun bambino al mondo si salverebbe dalla sua ingordigia”, mi spiega la nonna.
Annuisco. “Ho visto l’ombra nera vicino alla culla di Marco. Sono sceso dal letto, per cercare il crocifisso che ho messo nel cassetto del comodino, e lei si è girata verso di me. Mi sembrava altissima, e mi sono sentito morire. Ero come paralizzato: non riuscivo a muovermi, e nemmeno ad urlare. Poi ha riso. Una risata orribile: il suono di un mitra, o di pentole che cascano tutte insieme. Un rumore metallico, forte, che ha rimbombato nelle mie orecchie. I suoi denti erano scuri e appuntiti, ma non lunghi come quelli di un vampiro. Ho tirato un lungo sospiro, e mi sono girato per prendere il crocifisso. È stato allora che ha parlato, con una voce metallica  come  la sua risata. ‘Non serve a nulla’, mi ha detto. ‘Ho l’antidoto’. Ha toccato una catena che portava al collo, e la pietra nera che era appesa lì ha sprizzato qualche scintilla. Non le ho dato retta: ho aperto il cassetto, ho afferrato il crocifisso e l’ho puntato contro di lei”.
Mi sfugge un singhiozzo soffocato. La nonna mi abbraccia con dolcezza mentre ricomincio a piangere. “Coraggio, continua”.
“La janara ha riso di nuovo, mi ha strappato il crocifisso dalla mano e l’ha gettato in un angolo della stanza. Poi si è chinata sulla culla, ha preso Marco tra le braccia, e l’ha baciato come fa una mamma con il suo bambino, però sulla bocca. Quando l’ha rimesso nella culla, la sua testa era curvata all’ingiù. Prima di scomparire, la janara si è voltata verso di me, dicendo ‘La prossima volta toccherà a te’. Ho urlato, con tutto il fiato che avevo in gola, finché non sono venuti mamma e papà. Hanno portato subito Marco in ospedale, ma è stato tutto inutile: era già morto”.
“Le janare si nutrono così: succhiano dalla bocca dei bambini il soffio della vita, per diventare un po’ più giovani, e vivere centinaia di anni”, mi spiega la nonna.
“Cosa ha detto il dottore?”, chiedo.
“Ha parlato di arresto cardiaco”.
“Noi due sappiamo che non è per quello che mio fratello è morto. E io sarò il prossimo”. Le lacrime scorrono sulle mie guance, cadendo a bagnarmi la felpa. “Quando ho detto alla mamma quello che è successo, mi ha urlato di stare zitto e di non inventare storie. Anche il papà non vuole ascoltarmi. Nonnina, se l’aglio e il crocifisso non funzionano, come posso difendermi?”.
L’abbraccio della nonna è caldo e confortante. “Chiederò alle vecchie  comari:  sono  sicura  che  conoscono  il   modo   per sconfiggere le janare”.
Si è fatto tardi: devo tornare a casa. E affrontare il pericolo: non sono più un bambino piccolo. Ma ora so qual è l’ultima strofa della ninna nanna che ho sempre odiato.
Ninna-o, ninna-o,
questo bimbo a chi lo dò:
se lo dò alla janara
non se lo tiene ma lo fa fuori.

1 commento:

  1. Interessante questo racconto. Si legge con piacere ed e` scorrevole. Mi ha anche portato a documentarmi sulla leggenda delle Janare, interessante capitolo del folklore pagano italico.
    Danilo Concas

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