giovedì 4 luglio 2013

L’AUTOBUS di Giuseppe Novellino

                        
È stata una uggiosa giornata di lavoro in ufficio. Il cielo nuvoloso ha costretto a tenere quasi sempre le luci accese nei locali. E ora si è messa anche la pioggia.
Carlo Maria Tutarelli, ultracinquantenne impiegato del catasto, aspetta alla fermata. L’impermeabile e il cappello sono già completamente bagnati. E il 66 tarda ad arrivare. L’orologio sulla torre della piazza segna le 17.45.
Ma ecco l’autobus sbucare dall’angolo di via Cavour. No, non è il suo, ma il 32 – Circonvallazione Est. Tutte le persone che erano in attesa chiudono gli ombrelli e salgono.
Solo lui rimane a terra.
Un suv passa molto rasente al marciapiede e gli spruzza addosso l’acqua untuosa di una pozzanghera.
– Maledizione! – impreca.
Poi l’irritazione si stempera perché il mezzo pubblico sta arrivando.
Sì, è proprio il 66.
L’impiegato Carlo Maria sale con un balzo e si siede nel primo sedile che trova libero.
Un sospiro di sollievo. In un quarto d’ora al massimo si troverà proprio davanti al portoncino del condominio in cui abita. Potrà rifugiarsi nel suo trilocale da vecchio scapolo. Si riscalderà dei ravioli al microonde, e poi passerà una tranquilla serata nel suo mondo virtuale di Facebook a ciattare con gli amici. O magari finirà per guardarsi quella videocassetta che gli ha prestato il cugino Michele: un film porno che deve promettere qualche emozione. Nel caso prevarrà questa seconda opzione, se lo sparerà in camera da letto, in pigiama, con un paio di birre al doppio malto a portata di mano. E poi… nanna, prima di affrontare un’altra giornata di lavoro noioso in mezzo a scartoffie polverose e colleghi fastidiosi.
Solo un paio di minuti dopo essere salito sull’autobus, si guarda intorno.
Strano, la vettura e semivuota. Ci sono solo otto passeggeri, oltre lui e l’autista. Eppure, a quell’ora di punta tante persone tornano a casa dal lavoro.
Carlo Maria osserva la vecchia che sta seduta nell’altra fila di poltroncine. È trasandata, gli abiti strappati in più punti, le scarpe logore e sfondate. Porta un cappellino decisamente fuori moda. Ma il viso non è brutto, solo alquanto triste, con gli occhi persi nel vuoto.
Gli altri passeggeri sono più indietro, nella penombra, figure avvolte nei loro indumenti inumiditi dalla pioggia. Carlo Maria riesce a capire che due sono anziani, forse marito e moglie; uno invece è giovane, muscoloso, con un giubbotto di pelle e un casco da motociclista sulle ginocchia. Poi ci sono due uomini sui cinquant’anni. Uno dei due è obeso, con la testa china sul petto; l’altro è magrissimo con una faccia grigiastra, pelle e ossa. Indossa un cappotto invernale sopra quello che sembra un pigiama. Più indietro, sulla sua stessa fila, sono sedute due donne, una anziana e l’altra giovanissima, le cui facce sono poco visibili per la scarsa luce.
Carlo Maria guarda attraverso i vetri del finestrino e vede negozi, persone con gli ombrelli che si rincorrono o si incrociano con passo frettoloso. Ma la via non gli sembra del tutto familiare. Che il 66 si sia messo a fare un altro percorso?
Ma adesso si rende conto che l’autobus non ha ancora fatto una fermata. Eppure sta viaggiando da qualche minuto, forse dieci.
Scopre il quadrante dell’orologio da sotto polsino della camicia: sono ancora le 17.45.
Forse si è fermato, pensa.
– Mi scusi – si rivolge alla donna con il cappello fuori moda, – mi sa dire che ora è?
Quella gli dedica un sorriso neutro. Guarda il suo orologio e dice:
– Sono le 9.32.
Caspita! Come fa quella a rifilargli un orario tanto fasullo?
Allora volge lo sguardo all’indietro, con aria interrogativa.
La giovane donna, seduta accanto all’anziana, coglie al volo la sua richiesta.
– La signora, probabilmente ha l’orologio indietro. Per me sono le 16.25.
– Io, invece, faccio le 11.40 – si intromette il motociclista.
– E io le 7.05 – dice l’obeso.
E poi si sente un’altra voce, ma Carlo Maria non capisce a chi dei rimanenti appartenga.
– No, l’ora esatta è la mia: le 13.55.
L’impiegato del catasto trattiene il fiato. Che lo stiano prendendo in giro? Aspetta un momento e poi guarda di nuovo il suo orologio: riporta sempre le 17.45.
Fuori, la pioggia sembra torrenziale, uno strano chiarore illumina le facciate delle case, la gente e i veicoli che vanno e vengono.
Il veicolo pubblico continua a procedere con un’andatura regolare, il che a Carlo Maria sembra un po’ strano, essendoci molto traffico. Finalmente si ferma. Ma si apre solo la porta di ingresso. Quelle di uscita rimangono chiuse. Nessuno si alza, naturalmente neanche Carlo Maria, perché non è la sua fermata.
Sale, con fatica, un signore molto anziano con un bastone e va a sedersi accanto all’impiegato.
Il mezzo si rimette in moto.
Dopo un po’ Carlo Maria gli chiede:
– Sa dirmi l’ora?
L’altro lo fissa a lungo, con aria stranita. Poi guarda il suo orologio.
– Sono le 18.15.
– Quello di Carlo Maria, invece, è sempre fermo sulle 17.45.
Non resta che il conducente.
L’impiegato si alza e, traballando, si avvicina al posto di guida.
– Mi scusi… – ma le parole gli rimangono in gola.
Il conducente dell’autobus 66 non ha volto. Solo una liscia superficie madreperlacea si stende fra il collo e il cappello d’ordinanza.
– Non vede cosa c’è scritto? – gli risponde. – Non parlare al conducente. Torni a sedersi e stia buono.
Carlo Maria Tutarelli di anni cinquantacinque, impiegato al catasto, non può fare altro che ubbidire.
Intanto il mezzo continua la sua corsa, in un ambiente cittadino sempre più trasfigurato da una luminosità lattiginosa. Ma le case, gli angoli, le piazze, non sono quelli di sempre. E il traffico non intralcia l’autobus.
Solo alle fermate, sale qualcuno… sempre uno alla volta. A tutti Carlo Maria chiede l’ora. E tutti dichiarano un orario diverso dal suo e da quello riportato dagli orologi degli altri passeggeri.
Vorrebbe scendere, ma non può. Nessun altro scende.
Quando l’autobus si ferma per far salire un nuovo passeggero, le altre porte non si aprono. E poi non è mai la sua fermata…
Adesso si chiede: cosa avverrà quando il veicolo sarà pieno, con tutti i posti esauriti, quelli a sedere e quelli in piedi?

* * *

– Poveraccio! – esclamò una delle tre persone che era accorsa a soccorrere l’uomo.
Avvolto nel suo impermeabile bagnato, era caduto sul marciapiede, alla fermata dell’autobus. Il cappello era rotolato in una pozzanghera.
– Deve avere preso un infarto… o un ictus – fece un altro.
Intanto si era formato un capannello di gente, gli ombrelli aperti sotto la pioggia scrosciante.
Poi i rumori della città vennero coperti dal suono lacerante di una sirena d’autoambulanza.

3 commenti:

  1. Come il solito, Giuseppe, i tuoi racconti (come appunto il presente, molto suggestivo), sono pieni di vibrante suspense e di una particolare atmosfera di irrealtà davvero inquietante.

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  2. Grande atmosfera! Ha finito per sfasare anche il mio orologio, così sono tornato indietro di qualche anno e mi sono ritrovato davanti al televisore a guardare un vecchio episodio di The Twilight Zone.
    Sauro Nieddu

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  3. Bel racconto, proprio riuscito, sospeso nel tempo. Il finale risulta ancora più sospeso, tra realtà e fantasia.

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