lunedì 10 giugno 2013

SEGNI D'ARIA di Giuliana Acanfora



Il vento spostava le nuvole a gran velocità, creando un gioco di ombre in movimento sulla pianura sottostante, rigogliosa di fili d'erba che si piegavano come accarezzati da una mano invisibile. Una superficie all'apparenza morbida, ma colma di spighe e rametti che intrufolavano le punte dentro i calzettoni bianchi e irritavano la pelle. Nicholas si grattò la caviglia con il fianco della scarpa e tornò immobile, le gambe da stambecco in tensione nell'attesa dello scatto. I riccioli, piccole fiamme, gli frustavano il viso pallido punteggiato di efelidi. Non era ancora il momento. Non voleva rovinare, con una partenza incauta, tutto il lavoro.
A sinistra il canneto costeggiava il fiume e ne chiudeva la vista. Era lì che Nicholas aveva cercato due canne, resistenti e flessibili, che avessero il diametro del suo dito mignolo. Alla sera aveva chiesto aiuto al padre per tagliarle, legarle e rivestirle di carta rossa. Aveva dato all'aquilone la forma classica a losanga. Più tardi, nella sua cameretta, l'aveva rifinito, aggiungendo tre frange di filo, cui aveva legato dei fiocchi di carta velina gialla e azzurra. A lavoro ultimato si era concesso un sorriso enorme e nello specchio a forma di dinosauro erano apparsi i due incisivi inferiori, che stavano ricrescendo, e la finestra lasciata da quello superiore, che aveva perso due giorni prima.
Il vento aveva smesso di girare in tondo, come un gattino che insegue la coda, e tirava forte in un'unica direzione. Nicholas si buttò avanti, nella mano destra l'aquilone, nella sinistra il rocchetto con il filo. Il cuore gli balzava in petto al ritmo delle sneakers che battevano il terreno. Lanciò l'aquilone, che oscillò nel vento e prese quota: una macchia cremisi nell'azzurro sfilacciato del cielo. Gonfiò il petto, troppo emozionato per sorridere.
Ti veglierò dal cielo. Le parole della mamma gli si formarono nella mente, con il timbro della sua voce carezzevole e gli sembrò di sentire la mano di lei che gli scuoteva i ricci. Il mio fuoco, lo chiamava. Per questo lo aveva fatto rosso: se la mamma era vento, l'aquilone era la chioma di Nicholas da scompigliare ancora una volta.
Le lacrime affiorarono sul ciglio degli occhi e lui ci passò sopra il dorso della mano. Grosso errore! Aveva permesso al filo di allentarsi e l'aquilone stava sbandando. Nicholas lo strattonò e ne perse il controllo. Lo vide avvitarsi e precipitare nel canneto.
Por... – Si bloccò. A mamma non piaceva che lui dicesse le parolacce.
Corse al canneto. Si mosse di spalle, per incunearsi negli spazi sottili lasciati dalle canne, un braccio alzato a proteggere il viso dal contatto con le foglie. Arrivò vicino al fiume, in una zona dove si apriva una piccola radura. L'aquilone era lì, illeso.
Mancava poco a raggiungerlo, ma appoggiò il piede sopra a una zolla di terreno franoso, storse la caviglia e scivolò lungo la pendenza che conduceva al fiume. La mano cercò a vuoto degli appigli e la caviglia, già provata dalla storta, incontrò lungo la corsa un ostacolo pungente e duro che fece urlare Nicholas di dolore. Strinse la mano attorno a uno spuntone di legno e tenendosi a quello arrestò la sua corsa, finendo con le gambe dentro al fiume. Fece leva sui gomiti per issarsi fuori dall'acqua. La mano destra, sporca di terra, era graffiata in più punti e dove i graffi erano meno superficiali usciva qualche goccia di sangue. Bruciava. Era bagnato dalle ginocchia ai piedi, aveva i pantaloni fradici avviluppati alle gambe e sentiva l'acqua muoversi dentro le scarpe. Ma il vero macello era nella caviglia destra: provava un dolore costante e fitte acute al minimo movimento. A quell'altezza i pantaloni erano strappati in un lungo taglio e sulla tela beige si andava allargando una chiazza di sangue.
... ca vacca! – sbottò Nicholas. Attese che il dolore si attenuasse, per alzarsi e tornare a casa, ma più il tempo passava e più la caviglia diventava gonfia e dolente. Non ce l'avrebbe fatta, da solo, ad andare via da lì. E di sicuro suo padre non l'avrebbe cercato prima di cena, credendolo a giocare con gli amici. Quanto tempo doveva passare prima che desse l'allarme? E quanto, prima che qualcuno lo cercasse nel canneto?
Aiuto. – Il grido gli uscì strozzato. Schiarì la voce, urlò più forte: – Qualcuno mi sente? Sono qui!
Trattenne il respiro, le orecchie tese a cogliere un segnale. Udì solo il fruscio del vento tra le canne e lo scorrere del fiume.
Aiuto! – gridò ancora, poi si accasciò a terra e scoppiò in pianto.
Qualcosa lo pizzicava. Il pianto l'aveva estraniato, non avrebbe saputo dire per quanto tempo era restato incosciente a se stesso. Alzò il viso, impastato di lacrime e terra, e tornò a sedersi. C'era un nugolo di zanzare che ronzava attorno alla caviglia insanguinata. Estrasse dalla tasca il fazzoletto di stoffa. La mamma non mancava mai di mettergliene uno pulito nella tasca dei pantaloni, e da quando lei non c'era più era lui stesso che si ricordava di farlo, più per ripetere il gesto della mamma che per la reale necessità di avere con sé un fazzoletto. Lo aprì e lo sventolò sopra alla caviglia, per disperdere lo sciame. Una zanzara era rimasta appoggiata. Avvicinò la mano: tre, due, uno... presa! Strinse i denti mugolando: darsi uno schiaffo sulla caviglia non era stata l'idea del secolo.
Il cielo si era fatto di un azzurro più denso e opaco. Era ancora chiaro, ma non avrebbe tardato a imbrunire. E lui non voleva trovarsi lì quando fosse venuto buio. Chissà quale altra razza di animali schifosi si nascondeva nel canneto. Suo padre un giorno gli aveva detto di aver visto dei topi. E se ci fossero stati i serpenti? I coccodrilli dentro il fiume? Se fosse arrivato un lupo a mangiarselo vivo? Le lacrime gli velarono ancora gli occhi.
Il vento gli scompigliò i ricci, la carezza della mamma, poi si spostò verso l’aquilone. La carta rossa iniziò a sbatacchiare. Nicholas si sporse per prenderlo, ma prima che riuscisse a toccarlo, l’aquilone si sollevò. Superò le canne, salì in alto, e quando fu ben visibile a distanza si fermò oscillante, come un segnale. Suo padre l’avrebbe riconosciuto. Il rocchetto rotolò verso Nicholas, lui lo prese in mano e guardò in alto. Sorrise e annuì.
Passò ancora del tempo. Erano voci quelle che sentiva? Era così confuso e stanco da non essere più sicuro di nulla.
Ma sì, erano voci! Di persone che si stavano avvicinando. Ne sentiva i passi, e rumore di canne spostate o spezzate. Il cuore gli saltò un battito quando riconobbe, tra le altre, la voce di suo padre.
Papà! – urlò con tutto il fiato.
Nicholas?
Sono qui!
Santo cielo, cos'è successo?
Mi dispiace, papà. Non ti ho aspettato. Volevo far volare l'aquilone e...
Non fa niente Nic, me lo racconti a casa. – Il padre s'era chinato accanto a lui. – Mettimi le braccia al collo.
I due uomini insieme al padre fecero strada, aprendo un varco tra le canne. Nicholas, in braccio al padre, aprì la mano in cui teneva il rocchetto, che cadde a terra srotolandosi. L'aveva stretto così forte da avere i segni delle unghie conficcate nel palmo.
Grazie mamma – sussurrò, alzando il viso al cielo.
L'aquilone dondolava lento nella carezza del tramonto.

2 commenti:

  1. Che sfilza di ghost-storie! |1)
    Racconto ben scritto, che forse pende appena dalla parte del realismo rispetto al fantastico puro; nonostante mi sia piaciuto mi ha anche lasciato un po' di amaro in bocca, forse l'idea di base è meno originale di altri tuoi racconti. Colpa tua che mi hai abituato troppo bene!

    Sauro Nieddu

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  2. Lettura piacevole per le descrizioni e la tensione che circonda il personaggio. Una bella storia di fantasmi, un po' convenzionale ma efficace.

    Giuseppe Novellino

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