martedì 5 gennaio 2016

APNEA di Pietro Pancamo

I
 Eran fissi come al solito, gli uomini: guardavano solleciti lo schermo casalingo, che in cambio (a mo’ di ricompensa) mostrava in diretta plenaria, e a reti congiunte, la ripresa ravvicinata d’un robusto pietrone, intento da sé – ovviamente per miracolo o volontà divina (senza cioè che nessuno lo spingesse) – a rotolare pian piano di lato e dischiudere lentamente l’imbocco d’una caverna angusta, rannicchiata nella roccia. Intanto la voce fuori campo di uno speaker postillava il prolungato, flemmatico scivolamento, pronunciando un discorsetto: «E figuriamoci: c’è pure Quello che non riesce a trattenere la vita per più di tre giorni. Magari si sforza, si impegna allo spasimo. Ma niente da fare... In Lui, che è di costituzione eterna e imperitura, il soffio della vita ricomincia ben presto a fluire (rinnovandogli il corpo, rinfocolandogli la carne), proprio come il respiro torna subito o quasi ad irrorare l’organismo e i polmoni di chi – fra noi mortali – prova, prova e riprova... ma poi si deve arrendere all’evidenza di non saper trattenere il fiato per più di venti o trenta secondi».
 
                                                                  II
I corsi e ricorsi della storia (o, se preferiamo, della sconfitta): forse immusonito dalla vergogna dell’insuccesso, l’Unto del Signore – lì all’aperto, sulla soglia del sepolcro rupestre (una minuscola grotta naturale) in cui l’ennesimo esperimento fallito aveva preso luogo – cercò di giustificarsi davanti ai microfoni e alle telecamere del mondo intero, farfugliando le solite scuse (poche) su quanto fosse comunque rilevante aver vinto di nuovo la morte, spalancando ai fedeli – anche stavolta – vasti orizzonti di redenzione. Dopodiché, per stemperare in qualche modo la delusione che sentiva in cuore, aggiunse in un tono colloquiale, che si fingeva frivolo e leggero: «Che dire... certo che questi, chiamiamoli così, “tentativi d’apnea” son davvero la mia spina nel fianco! O magari... nel capo». E si toccò l’ormai risaputa corona pungente, esibendo all’ingiro sorrisetti deboli e striminziti, che domandavano perdono e complicità ai giornalisti che lo attorniavano. Subito, però, uno di essi colse la palla al balzo e - per tutta risposta – commentò sghignazzando, con una battuta: «Beh, più che la sua spina nel fianco o nel capo, sarebbe il caso di definirli la sua lancia nel costato, non crede?».
All’ilarità insolente e canzonatoria che dilagò generale fra cronisti, reporter ed inviati vari di emittenti o quotidiani, il Messia reagì pieno di confusione, dapprima grattandosi perplesso, attraverso il sudario, una vecchia cicatrice che aveva sul petto e, quindi, assurgendo nervosamente ai cieli, determinato a piantare in asso i media impuniti e i loro rappresentanti, per rifugiarsi nel profondo del Paradiso a smaltire in privato malinconia e imbarazzo.

2 commenti:

  1. Racconto dal fascino enigmatico. I risvolti teologici sono trattati attraverso una specie di allucinata distorsione. Il linguaggio volutamente non piano aggiunge fascino alla materia narrata. Mi è piaciuto.

    Giuseppe Novellino

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