venerdì 10 gennaio 2014

LO SCRITTORE E LA GORGONE di Paolo Durando



Lo scrittore, seduto alla sua scrivania male illuminata, tra le scartoffie, poteva soltanto, e con fatica,  parlare. Da molto tempo infatti era perfettamente rigido, impossibilitato, nonché a scrivere, a muovere qualunque parte del suo corpo.  Di fronte a lui, indifferente, stava Medusa,  con i serpenti neri e nervosi che, sibilanti,  le scendevano attorno al viso.

LO SCRITTORE: mi è stata tolta la parola. Me la sono tolta.  Eppure una parte di me vorrebbe ancora dire. Una parte di me non crede all’ammutolimento e alla sua necessità. Lì sono ancora adolescente. Quella risacca  presuntuosa e appassionata. Lì sono ancora capace di credere di aver visto, di aver la possibilità di vedere. Di capire in modo individuale, particolare e vero. Vero anche perché, appunto, individuale, personale, ma non soltanto per questo. Vero perché sofferta conoscenza, discriminazione intuitiva tra arte e non-arte. Ma la parte di me adolescente è la risacca che sta per tornare indietro, per essere impotente per sempre. È quella parola che sta per essere detta. Che forse non sarà mai detta. Un ancora che sta per diventare un ormai. Per tutto il resto, per tutto il restante peso di coscienza, pensiero, la parola mi è stata  tolta e, togliendomela io stesso, prevengo e collaboro all’immolazione. Come se questa fosse l’unica via di uscita. Impuntata, infantile. Soprattutto teatrale. Ma in verità attraggo l’attenzione di chi? Poiché chi riconosce la mia parola  è assente oppure ha perduto autorevolezza, chi non le  crede ascende al paradiso terreno. Chi mi ha tolto la parola ha avuto le  prove  di sapere come stanno veramente le cose. Il mondo intero è parso schierarsi dalla sua parte. E perciò dalla tua. Io chi sono per sottrarmi al plauso? Non posso oppormi a quella gigantesca verità. Il fiato è minimo, la plausibilità della mia contrazione praticamente nulla. Non c’è la terra. Non c’è l’acqua che può irrorarla. Sono dunque vissuto per molti anni in buona misura ingannandomi, vedendo beatamente quello che non esisteva, confondendo una parte con il tutto.  Ed usavo le parole per modellare orgoglio e traumi. Ora quale parola mi può essere data e posso darmi, e per riferirmi a che cosa?
MEDUSA: ti eri fermato alle parole, non eri andato oltre. Ora tu lo sai. Avevi dato forma, colore, sostanza a un mondo di parole. Ora quel mondo non esiste più. Io l’ho fatto sparire. E tu sei diventato di pietra.
LO SCRITTORE: tu hai guardato il mio mondo di parole, cancellandolo con la  felicità e la forza positiva a cui attingi ogni giorno, adamantina, indistruttibile. Cancellando quel mondo mi hai fatto vedere di che sostanza era fatto realmente, sotto la coltre di quelle parole. C’era solo qualche grumo sfilacciato, batuffoli di sostanza pregna galleggianti nel vuoto. Nulla di intero, di tondo e definito. Nulla di solido, da poter colpire con mano schietta. Perché bastava uno sguardo. Il tuo sguardo di Medusa.
MEDUSA: non ti eri temprato nel vissuto che penetra e scuote, non avevi neppure mai scelto, non avevi avuto coraggio. Mai. Eri molle come il fango. Per questo ora sei pietra.
LO SCRITTORE: e qual è il mio futuro?
MEDUSA: in verità non ci sono che tre strade. Quelle che tu stesso, nel tuo affannarti inconsistente, vedi chiaramente e vedevi anche poc’anzi. La prima strada è l’uscita allo scoperto. La franchezza come stile. La lotta, la rottura. Ma temo che non sia  per te.
LO SCRITTORE: è perché io sento come un valico insormontabile lo scontro diretto. Comunicare una mia idea o passione a chi penso non le condivida mi espone al rischio di perderle, tanto sono influenzabile e capace di comprendere le ragioni altrui. È l’empatia di chi non è nessuno, di chi fluttua senza avere un centro a cui saldarsi. Laddove non potrei fare a meno di resistere, perché attorno all’osso scarnificato resta pur sempre qualcosa di essenziale, di imprescindibile, allora  perderei forse il mio interlocutore. Potrei permettermi questo lusso? Sono davvero alla portata della condanna – o privilegio -  della solitudine? Preferisco dunque l’azione laterale, con la tentazione persino dell’azione nascosta, alle spalle. Non posso salvarmi da questa inettitudine. Forse è la ragione stessa del mio scrivere. Erigere muri di parole essendo incapace di erigerli di roccia. Incapace di essere corpo, ed in mancanza dell’anima.
MEDUSA: fa parte di questa strada anche l’ironia. Non ci pensavi più?
LO SCRITTORE: non a questo proposito. L’ironia è salsa per tutte le pietanze, può soccorrere qualsivoglia scelta. La sento invocare di continuo, in questi tempi. Vi ricorro con notevole fatica; come se essa adombrasse un sacrificio reale, per il quale non ho la generosità né l’altezza.
MEDUSA: eppure l’ironia ti riesce bene, quando ci provi.
LO SCRITTORE: ma in verità non amo la parola depotenziata, il disfattismo dell’uomo diviso.
MEDUSA: la parola ti serviva per accettarti, per difenderti e confonderti. Era una mediazione, come lo è sempre. La protesi che ti consentiva di affacciarti e di non vedere la cloaca ma l’aiuola in fiore.
LO SCRITTORE:  giusto, giusto… ma torniamo alle tre strade…
MEDUSA: subito: la seconda non può essere altro che la resa, il riconoscimento del fallimento. Un fallimento che potrà non conoscere vere sventure. Hai titillanti ossessioni, meandri che, entro certi limiti, ti proteggeranno dal vuoto. E questo crepuscolo durerà fino a quando  la morte ti sfiaterà sul collo, se non decidi di anticipare tu stesso – faccio per dire - la mia illustre collega.
LO SCRITTORE: è la condizione a cui ho pensato più volte, abbandonandomi fiaccamente alla linea incorrotta del tempo. È quella  già ora presagita e per certi versi già realizzata. Potrebbe definirsi una volta per tutte, cucendo gli ultimi squarci. Finito l’effetto dell’anestesia, ritiratasi l’onda lunga del sopore della rassegnazione, il fondo irriducibile di sofferenza e nonsenso  resterebbe definitivamente scoperto, fino a prevalere. A quel punto dovrei… fare ciao ciao con la manina, uscire dalla porta di servizio. La resistenza all’ironia di cui ti dicevo non mi permetterebbe di salvarmi sul limitare. Non sarei né il primo né l’ultimo. E neppure il più interessante.
MEDUSA: quell’epilogo potrebbe non esserci affatto. Non crogiolarti. L’estremo e la grandezza, se di grandezza si può parlare in quel caso – cosa che non credo – non fanno per te. Ma c’è l’ultima strada. Quella che ti illudi talvolta di avere scelto. La strada che è la tua speranza ma anche il tuo alibi.
LO SCRITTORE: già lo so? Figurarsi se non avevo fritto anche quest’aria… e senza mai cambiare l’olio, tra quattro mura di cucina…
MEDUSA: la strada dell’amore.
LO SCRITTORE: innegabile. Amore più ironia, di nuovo. L’ironia non è forse in quell’orbita? Perché tutto nacque dall’amore e tutto confluirà nell’amore.
MEDUSA: ma ricorda: l’amore , se è la tua speranza, rischia soprattutto di essere il tuo alibi. Potrai parlare d’amore perché non avrai il coraggio di voltarti altrove. Ti sentirai nobilitato dall’amore, perché in fondo aspiri all’armonia ed all’evoluzione, e invece sarai solo stato pavido, sforzandoti come sempre di tenere tutto sotto controllo.  Ancora non avrai saputo dire di no, in momenti cruciali della tua storia.
LO SCRITTORE: ma l’amore è superiore a qualsiasi cosa, anche alla pavidità stessa.
MEDUSA: certamente, per questo non devi confondere le due cose. Ma tu sei un inetto e questa confusione potrà cullarti in un‘illusione perpetua.
LO SCRITTORE: ti rammento che cose profonde mi legano a chi sceglierei di amare senza riscatto. Ci sono momenti in cui ritengo di appartenere, nonostante tutto, realmente o potenzialmente, al loro universo. E se anche sarà un’illusione? Sarò vissuto di questa, perché mi sarò fermato sulla soglia della vera consapevolezza. Ma ci avrò comunque guadagnato. Avrò ammesso i miei limiti e aderito alla condotta conseguente. L’unica possibile.
MEDUSA: così pensi che dipenda unicamente da te. Praticheresti in realtà la sospensione del giudizio, pretendendo che anche gli altri facciano altrettanto. Tutti ti piacciono e nessuno ti piace.  Fai e disfi. Attento, potresti essere facilmente smascherato. L’illusione non vale che per se stessi.
LO SCRITTORE: ma potrebbe invece bastare. Infine anche gli altri dovrebbero arrendersi. O almeno avere il tarlo del dubbio.
MEDUSA: fai come vuoi, come credi. E’ una vicenda che non mi riguarda.  Io ho svolto il mio compito. Io ho svelato, prosciugato, preparato il pieno che, ora come ora,  è anche un vuoto da riempire. Il tuo vuoto. La scelta sta a te. Puoi riempirlo di te stesso o delle tue macerie.

Medusa si ritrasse e lo scrittore rimase di pietra.
Dopo un tempo che nessuno poté misurare, qualcosa iniziò a scricchiolare dentro di lui. E il suo corpo riprese, poco a poco, a muoversi.
Ricordando il futuro.
Per rivivere?

6 commenti:

  1. Un cordiale benvenuto, nella famiglia di Pegasus, a Paolo Durando, scrittore e collega.

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  2. Benvenuto Paolo.
    Molto curioso il tuo racconto. Mi ha ricordato un vecchio film giapponese la cui trama coinvolgeva solo due personaggi.
    Scritto bene.

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  3. Benvenuto Paolo! Il tuo racconto è stupendo, complimenti!

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  4. Bel racconto in forma di dialogo. Attraverso l'incredibile incontro con la Medusa, lo scrittore sostanzialmente si confronta con se stesso e con il significato della sua arte. La narrazione coniuga brillantemente l'introspezione e la riflessione di tipo filosofico con la dimensione fantastica.

    Giuseppe Novellino

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  5. Più che un racconto, una sorta di manifesto in forma di dialogo. Molto interessante, ma in particolare mi hanno colpito le considerazioni sull'uso dell'ironia, davvero tutt'altro che banali.
    Benvenuto anche da parte mia.

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  6. Grazie per questi commenti e per avermi accolto nella famiglia di Pegasus, per essere letto e leggere...

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