domenica 10 agosto 2014

LA BABYSITTER di Giuliana Acanfora

In città girano molte voci sulla babysitter dei Cardisi. C’è chi la descrive colpevole e chi ne fa una vittima; chi ne parla come se fosse una leggenda metropolitana. Tutti sono concordi nel giudicare la sua una storia orrenda. Ma cos’è accaduto davvero, lo sanno solo tre persone. Una di queste sono io.
Era un mercoledì pomeriggio di fine ottobre, quando mi trovai per la prima volta davanti a villa Cardisi, nell’area residenziale che s’inerpicava su per la collina. Si trattava della zona dei “nuovi ricchi”, persone che avevano fatto fortuna partendo dal niente, e ci tenevano a rimarcare il proprio status costruendosi la casa dei sogni appena fuori città. I Cardisi avevano un’azienda a conduzione familiare, specializzata in attrezzature sportive. La loro villa era l’ultima, la più recente, circondata da una cancellata di vernice lucida che delimitava un prato curato all’inglese, intervallato con armonia da cespugli bassi, declinati nelle calde tonalità autunnali. Sullo sfondo il bosco, intricato e selvaggio, riprendeva il suo dominio sul territorio. Un vento arrabbiato lo faceva ondeggiare e gemere come una creatura viva, che sembrava cingere la villa in un abbraccio inquieto. Il cielo illividito minacciava pioggia.
– Chi è? – gracchiò una voce femminile dal citofono.
– Sono Carmen Lago, la babysitter.
La serratura del cancello scattò e una donna apparve sull’ingresso di casa. Alta, sottile, rigida nella posa e nell’espressione. Osservò il mio incedere ballonzolante senza nascondere un certo disgusto, ma quando le porsi la mano, stirò le labbra in un sorriso e si presentò: – Benvenuta. Io sono Simona Cardisi, abbiamo parlato al telefono. Grazie per aver accettato con così poco preavviso; la ragazza a cui ci rivolgiamo di solito ha avuto un contrattempo.
Varcai la soglia e mi trovai in un corridoio luminoso. La vegetazione proseguiva anche all’interno, con piante lunghe e sottili, alloggiate in vasi decorativi. Grandi fotografie in bianco e nero ornavano le pareti. La signora mi guidò in soggiorno, dove il bambino a cui dovevo badare giocava insieme al padre. L’uomo sgranò gli occhi su di me, poi venne a stringermi la mano.
– Gianni – si presentò. Fece un cenno al figlio, che gli corse accanto. – E questo giovanotto è Luca.
Il piccolo mi fissò a bocca aperta e diede voce a quello che senza dubbio anche i genitori avevano pensato: – Come sei grassa!
– Luca! – lo ammonì la madre, mal reprimendo un sorriso. E a me: – Perdonalo, sai come sono i bambini.
– Sinceri – risposi. E piegandomi su Luca recitai con enfasi: – Quando i bambini che guardo fanno i monelli… – feci il gesto di afferrarlo – me li mangio!
Luca sussultò. Sorrisi e gli strizzai l’occhio e lui scoppiò a ridere.
Si capiva che Luca era abituato a stare con babysitter. Quando i Cardisi uscirono, dopo saluti e raccomandazioni di rito, sembrò quasi che fosse lui a dover badare a me. Da piccolo padrone di casa, me ne mostrò ogni angolo, soffermandosi sulle cose a lui più care, come le fotografie in corridoio.
– Qua ci sono io appena nato con mamma e papà, questi sono i miei nonni nella casa al mare e questo sono io con la zia Laura, che è la mia zia preferitissima.
– Somiglia molto alla tua mamma.
– Sì, sono sorelle. Ti faccio vedere la mia cameretta?
– Va bene.
Lo feci giocare fino all’ora di merenda, poi ci spostammo in cucina, dove preparai a Luca una fetta di pane e nutella che divorò a grandi morsi, sporcandosi di cioccolata il naso e le guance.
– Fila a lavarti faccia e denti – lo esortai quando ebbe finito.
Accompagnata da un tuono, la serpentina di un fulmine si disegnò in quel blocco di ardesia che era il cielo. Mi affacciai alla finestra. Aveva iniziato a piovere da pochi minuti, ma sull’asfalto davanti a casa si era già formato un ruscello, che trascinava a valle rametti, foglie e qualunque altra cosa incontrasse nel tragitto. Mentre ne seguivo assorta il percorso lungo la strada deserta, suonò il citofono. Per la sorpresa feci uno scatto e rovesciai il bicchiere che tenevo in mano. Il succo d’arancia si sparse sul davanzale e colò sul pavimento.
– Oh Signore, che disastro – esclamai.
Il citofono insisteva e dovetti dargli precedenza.
– Chi è? – domandai.
– Laura.
Aprii il portone d’ingresso. La zia “preferitissima” di Luca era al cancello e si riparava dalla pioggia con il bordo della giacca sollevato sulla testa. Feci scattare la serratura e lei con una corsetta si rifugiò in casa.
– Sono la babysitter – le spiegai. – I signori Cardisi sono usciti.
– Lo so, sono andati a un funerale.
A parte la giacca, non era molto bagnata per essere stata sotto la pioggia. E non c’era nessuna automobile, oltre la mia, parcheggiata nelle vicinanze. D’altronde, dalla finestra l’avrei vista passare. Come diavolo era arrivata?
Il grido di esultanza di Luca mi distolse dai pensieri. Il bimbo si buttò tra le braccia della zia, poi la tirò per una mano. – Vieni in cameretta a giocare? Dai…
Laura fece un sorriso e si lasciò trascinare.
– Vi raggiungo tra un momento – dissi.
Tornai in cucina a pulire le tracce del succo d’arancia. Poi, già che c’ero, lavai un paio di piatti che la padrona di casa aveva lasciato nel lavello. Mi stavo asciugando le mani, quando sentii la chiave girare nella porta d’ingresso. Arrivai in corridoio giusto mentre i Cardisi chiudevano l’ombrello ed entravano in casa.
– Tutto bene? – mi chiese Simona.
– Tutto perfetto, Luca è stato un angelo. Adesso è in camera sua con la zia Laura.
Alla donna sfuggì la borsa di mano. Mi chinai per raccoglierla, ma il marito mi arpionò la spalla, costringendomi a sollevare lo sguardo. Le sue dita stringevano da farmi male. – Che cosa hai detto? – domandò.
– La sorella di sua moglie è arrivata poco fa. È in camera con il bambino.
– Se è uno scherzo è di cattivo gusto – intervenne Simona. – Torniamo adesso dal funerale di mia sorella. A Luca non abbiamo ancora detto che è morta, le era molto affezionato.
Deglutii, incapace di reagire. I Cardisi mi guardavano con un misto di furia e di timore.
– La persona che è entrata in casa è identica a quella donna – balbettai indicando la foto, – lei stessa ha detto di essere Laura e il bambino l’ha riconosciuta.
Gianni Cardisi mi spostò da parte con un braccio e corse ad aprire la porta della stanza di Luca. Simona e io lo seguimmo.
La scena che ci apparve non me la toglierò mai dalla mente.
Il bambino, disteso, fluttuava a mezz’aria, con la testa reclinata, e una Laura dalla pelle traslucida e un’espressione demoniaca dipinta in volto, gli teneva una mano appoggiata sul petto.
Simona lanciò un urlo e cadde in ginocchio. – Che cosa gli hai fatto? – gridò.
La voce di Laura si propagò nella stanza come un’eco: – Quello che voi avete fatto a me. Lo so che è così, confessate!
Mentre la moglie piangeva, Gianni ammise a mezza voce. – Sì, abbiamo manomesso noi i freni della tua auto, non è stato un incidente. Quando hai detto a Simona che ci avresti denunciato per frode… Ma lascia stare Luca, ti prego, lui non ha colpa.
– Non lo meritate. Starà meglio con me.
– Bugiarda! Mostro! – urlò Simona. – Lascia stare mio figlio!
– È troppo tardi.
Tutti gli oggetti della stanza iniziarono a tremare. Laura sollevò la mano e il corpo di Luca cadde scomposto sul letto, la bocca aperta, gli occhi sbarrati, privi di espressione. Tutti e tre urlammo. Il fantasma di Laura scomparve in un istante.
La paura mi aveva legato le gambe; appena riuscii a riprenderne il controllo corsi via, salii in auto e mi allontanai da quell’incubo.
Una mezz’ora dopo la polizia venne a cercarmi: i Cardisi mi avevano denunciato per l’omicidio del figlio. Le prove contro di me erano schiaccianti. Sul corpo di Luca, oltre a quelle dei genitori, c’erano solo le mie impronte. E loro avevano un alibi: più di un testimone li aveva visti al funerale di Laura. L’ora del decesso era di poco precedente al loro rientro. E le orme della mia fuga precipitosa erano ben marcate nel giardino umido di pioggia. Alla centrale restai in silenzio, senza sapere come difendermi.
Durante il processo, i Cardisi sedevano composti al banco dell’accusa. Persi la testa. Li accusai di voler rovinare la vita a un’innocente solo per coprire i loro loschi traffici. Li accusai di frode e dell’omicidio di Laura. Raccontai del fantasma, di com’era si era voluto vendicare uccidendo il bambino. Implorai il giudice di riaprire il caso di Laura, di riaprirne la tomba, di aprire i libri contabili dell’azienda. I Cardisi si mostrarono freddi, appena turbati dai miei vaneggiamenti. Dio, come potevano farmi questo? Avevo solo vent’anni. Non avevano coscienza.
Meno mi veniva dato credito e più mi infervoravo a sostenere la mia versione dei fatti, agitandomi, urlando, denunciando, sbraitando…
Fui condannata a trent’anni, da scontare in manicomio criminale. Mi rinchiusero in una stanza sporca e maleodorante con altre cinque donne, fui imbottita di medicine e sottoposta a terapie; affrontai interrogatori estenuanti e arrivai a confessare un delitto che non avevo commesso.
Il corpo di Luca che si tendeva a mezz’aria mi tormentava in sogno ogni notte.

***

È ottobre e sono di nuovo davanti a villa Cardisi. Suono il citofono.
– Chi è?
– Ho avuto un guasto alla macchina, mi può aiutare?
Simona apre la porta di casa e per un attimo torno indietro di trent’anni: la stessa pettinatura, la stessa silhouette, la stessa posa ingessata. Sono i suoi occhi che mi riportano avanti nel tempo: lo sguardo stanco, le palpebre che si stringono per mettermi a fuoco, rendendo evidenti anche a distanza le rughe che le solcano il viso. I fili grigi mescolati all’oro dei capelli.
Lei non mi riconosce. Ho perso trentacinque chili e il mio viso ha cambiato lineamenti. La mia pelle è tirata e opaca e dimostro molti più anni di quelli che ho.
– Buone sera, scusi il disturbo – le dico. – Ho avuto un guasto alla macchina e non ho con me il cellulare. Posso entrare a telefonare?
Mi guarda con il disprezzo del primo giorno, poi fa scattare la serratura.
L’ingresso è come lo ricordo, solo la foto di Laura è stata sostituita da quella di Luca seienne. Lo stomaco mi si contrae. Simona mi accompagna in soggiorno, dove il marito è seduto a guardare la televisione. Nemmeno lui mi riconosce. Si alza per venirmi incontro, sono entrambi davanti a me.
Faccio scivolare la mano sotto il cappotto, fino alla tasca dei pantaloni, dove nascondo la rivoltella.
Niente di soprannaturale questa volta.

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