giovedì 10 dicembre 2015

SOGNI di Peppe Murro


Con sollievo, con umiliazione, con terrore, comprese che era anche lui una parvenza, che un altro lo stava sognando.
 
Le lettere gli ballavano davanti agli occhi, si tolse stancamente gli occhiali e si massaggiò le tempie: forse era ora di dormire. Eppure non se la sentiva di consumare nel sonno il tempo che gli restava.
 Già, quanto tempo gli restava prima che lo scoprissero? il mondo era diventato un bolgia pazzesca... Europa e Russia si erano frantumate in una miriade di staterelli a base pseudo-etnica o appena dialettale, la Cina aveva letteralmente comprato gli Usa, e dovunque proliferavano feroci dittature militari o labili e plebiscitarie democrazie televisive: chi poteva si era costruito un bunker, altri erano fuggiti verso luoghi inospitali e selvaggi; lui era semplicemente rimasto nella sua stanza, tanto, pensava, che può accadermi di peggiore della vecchiaia? e aveva ripreso la sua vecchia abitudine di leggere.
Pochi libri gli erano rimasti, celati alla polizia, sfuggiti con cura alla Grande Distruzione (the Big Bonfire, lo avevano chiamato i nuovi sanfedisti) in un estremo ed unico suo atto di ribellione, tanto per dirsi che era vivo e libero di decidere.
Con una punta di meraviglia si era accorto di una sua lieve, quotidiana mania: leggeva e rileggeva sempre lo stesso racconto.
Ricordava vagamente che anche Descartes e Spinoza forse avevano avuto pensieri simili, ma gli autori che consumava di più erano Lope de Vega e Borges: l'idea che lo affascinava era, in quel tempo miserabile e faticoso, molto consolante, cioè che niente esistesse realmente, che tutto fosse un sogno.
Sì, lo spagnolo aveva detto che la vita è sogno, e l'argentino cieco gli aveva risposto che era il sogno di un dio.
Gli piaceva l'idea di essere quel sogno, andare lungo il fiume degli anni senza memorie e senza dolore, anche se qualcosa lo inquietava, perché le poche volte che ricordava i suoi sogni, sentiva con asprezza la pena e l'orrore di scoprire che quel sollievo era solo un sogno: fortunatamente, però, poi, ogni mattina, il rito del caffè d'orzo e il dolore alla schiena gli davano la piacevole certezza di essere vivo e reale. Comunque, in cuor suo, gli sembrava bello e importante sentirsi finalmente qualcuno, essere il sogno di un dio....
Stupidate di vecchio, pensò, che tenta di resistere agli anni con una testardaggine quasi infantile. Guardò la muffa che si era formata agli angoli della stanza, spense la candela e spostò il cartone che sostituiva i vetri della finestra.
Volse gli occhi sulla strada e verso l'orizzonte: lì, dove una fila di case basse permetteva lo sguardo, si levava ogni tanto un bagliore, ma la città era nera, nera di desolazione e di odio, non solo per la mancanza di luci. Sorrise fra sé pensando al mondo roboante di vetrine e di gente scintillante che aveva conosciuto in gioventù: alles gestorben, sentenziò sommessamente, tutto morto. Finito.
Rimise con cura il cartone e strascicando le pantofole si avvicinò lentamente al tavolo. Tastò un po', aprì un piccolo involucro e tirò fuori qualcosa che una volta doveva essere commestibile.
Si sedette, accese di nuovo la candela: i suoi libri stavano lì, come a guardarlo, come a dirgli che provavano pena per l'umanità che gli era rimasta.
Inforcò gli occhiali ed aprì quelle pagine che sapeva a memoria...il dio del fuoco faceva un dono, ma voleva essere pagato. Forse ogni dio, pensò, vuole essere pagato per i suoi doni, quando ve ne sono.
Beveva le parole come un respiro fresco, si sentiva a mano a mano in un benessere ovattato, soddisfatto in ogni sua fibra. Pensò di essere in un posto pieno di luce, pensò che era meraviglioso quel posto ed aprì gli occhi: di fronte a lui non c'era nulla, né luce né buio, né oggetti né le sue mani. Il suo corpo non c'era né altro, solo la sua disperazione...così ci si sente, rifletté, quando il risveglio ci scopre coi suoi artigli di verità. Eppure avrebbe davvero voluto sognare come il viaggiatore dell'argentino, non avere ricordi né pene. Sognare un suo mondo, quasi una nuova creazione...sognare come sogna dio, magari anche sognando in quel mondo di essere il sogno di dio.
Poi, quasi all'improvviso, capì Borges e ne scoprì l'orrore...l'orrore e il dolore di non esistere se non come un sogno. Si tolse gli occhiali, poggiò la fronte sulle mani strette a pugno.
 
Sentì dei rumori sul pianerottolo, grida confuse ed aspre, lo schiocco rauco di uno sparo: non si voltò neppure. Con ironia, con rassegnata amarezza si disse che lui, e il mondo, e tutto erano solo il pensiero distratto di un dio infingardo e cialtrone. O forse il suo incubo peggiore.
Un colpo alla sua porta che cedette di schianto, il suo ultimo singulto di sopravvivenza: sogno o realtà, i lupi che ci divorano sono sempre affamati; stanno urlando, tornano, anche se le prede sono tutte morte. Tornano, hanno sempre fame.

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