venerdì 7 novembre 2014

TRA CANE E LUPO di Pierre Jean Brouillaud



Crepuscolare       
Mi scuso con Nikolaj Vasilyevich per aver preso in prestito uno dei suoi personaggi. Costui è, a dire il vero, così famoso da appartenere al patrimonio comune dell'umanità. È che una scusa?
 Da ore mi abbandonavo a una delle mie passioni, esplorare instancabilmente una delle più belle città del mondo. Dalla punta della Strelka, nei pressi dell'antico porto, ai piedi della colonna rostrata, mi ero attardato ad ammirare la vista sulla fortezza di Pietro e Paolo, da un lato, e sull’'Ermitage, dall’altro.
Avevo dimenticato di guardare l'orologio, e, in quell'ora crepuscolare, non si vedeva più molto bene.
Arrivando al ponte del palazzo che mi preparavo ad attraversare per lasciare l'Isola Vasilevsky e raggiungere l'altro lato del fiume dove si trovava il mio hotel, ho avuto la spiacevole sorpresa di scoprire che la campata era sollevata per far passare i battelli e perciò impraticabile. Eccomi condannato ad attendere che fosse abbassata per consentire il traffico pedonale. Fino a che ora? Non riuscivo più a ricordare gli orari.
Fu allora che un uomo uscì dalla penombra. L'apparizione era di piccola taglia e, per quanto fosse possibile distinguere nell’alone della lampada, piuttosto miseramente vestita. Il cranio era nudo. Ma ciò che mi ha maggiormente colpito, era il volto bianco come neve. Poco rassicurato, l’ho visto avvicinarsi. Mi guardò a lungo prima di dire, con voce rauca:
- Si è lasciato sorprendere. Non è una cosa molto scaltra. Ma è vero che lei non è di qui.
- Come lo sa?
- Oh! Moi dorogoi¹. Fece con un sorriso un po' triste, noi sappiamo molte cose.
- A che ora rendono il ponte al traffico pedonale?
- Alle 02:55, poi lo sollevano di nuovo. In seguito, dovrebbe aspettare le 04:50... Si chiederà cosa fare per tutto questo tempo. Nella sua situazione, ha ancora delle possibilità. Siamo alla fine di maggio. Le notti sono già brevi. Presto, avranno luogo le famose notti bianche di San Pietroburgo. In quanto a vedere ciò che andrà a fare, lei è scrittore, no? È abituato ad ammazzare il tempo.
Io tentai di consolarmi:
- È vero che la città è bella di notte quanto di giorno...
- Più bella ancora. A causa del mistero...
- Sì. Ma pojalouisto², abbia almeno la gentilezza di tenermi compagnia per qualche istante.
Nella frescura facemmo su e giù per la banchina. Lui si fermò e sembrò osservare per un momento le acque nere della Neva. Sotto il lampione, distinguevo meglio i suoi vestiti; una sorta di uniforme obsoleta, rattoppata con pezze che sembravano di colori diversi.
- Akaki Akakievich! Ho esclamato.
- Sì, l’uomo col cappotto.
- Io pensavo...
- Che andasse come nella storia, che una volta morto dal dispiacere per il furto del mio cappotto nuovo, che mi era costato tanto e di cui andavo così fiero, mi sarei vendicato aggredendo e spogliando i passanti. In quel caso, potrei permettermi, invece di questi stracci, una bella redingote, un abito di velluto col collo di castoro, una pelliccia d’orso, o che altro posso dire.
- È vero che a crederci...
- Andiamo! Lei è nelle migliori condizioni per saperlo. Gli scrittori sono, a modo loro, grandi bugiardi. Non ho mai derubato né spogliato chicchessia. Ma senza il famoso cappotto, le chiedo, chi si ricorderebbe di Akaki Akakievich? Questo cencio è la mia vergogna quanto la mia identità, la mia ragione d’essere. Mi si attacca alla pelle. Toglietemelo, e io non esisto più. Tanto per dire d’altronde, perché, per gli altri, io sono morto da oltre due secoli. Ciò, d'altra parte, non è privo di vantaggi. Prima, avevo paura di tutto. Morto, non hai più niente, più nessuno da temere. Non più bisogno di tremare e umiliarti di fronte a un assessore di terza classe³. È la vita che fa di noi dei codardi.
- Lì ha tutto sommato ragione, Akaki. Ma allora...
- La verità, se ce n'è una, è che Nikolaj Vasilyevich, che lei ammira sotto il nome di Gogol, ha voluto rafforzare la fine della sua storia. Ha perciò inventato quel fantasma, quest’altro me che, derubando i passanti, si prende la rivincita per l'eternità.
- Akaki, le voglio porre una domanda indiscreta. Sono certo che lei non molesta i passanti in alcun modo. Piuttosto il contrario. Ma vi capita spesso di apparire loro e farci una chiacchierata? O devo ritenere che in due dei nostri secoli ha riservato questo privilegio a me e a me solo?
- Devo soddisfare la sua vanità d’autore?
Ho riso.
- Bene, ha ripreso lui. Lei può immaginarlo: non abbiamo la stessa percezione del tempo, lei ed io. Due secoli, che cosa rappresentano per un morto che ha l'eternità davanti a sé? Ma, lo riconosco, quello che, per me, è stato duro da passare, è il settantennio del regime bolscevico. Quello, l’ho trovato lungo. È che non io non rientravo nel modello del realismo socialista. Quando cercavo di apparire loro, le persone avevano paura. Facevano finta di non vedermi o mi voltavano direttamente le spalle. Uno di loro mi ha perfino denunciato alla milizia – vale a dire alla polizia -. Questo ha raddoppiato le ronde per sei mesi. Per tutto quel tempo, mi sono astenuto dal manifestarmi. Nel loro regime, moi dorogoi, un consigliere impiegato in qualunque ministero - il mio caso – benché fosse un funzionario di terza classe e non avesse che uno stipendio di quattrocento rubli, non aveva alcuna possibilità di passare per un proletario. Le mie mani erano macchiate, ma solo dall'inchiostro...
Ho avuto il cattivo gusto di scherzare:
- Akaki, non ha mai pensato di emigrare?
- Emigrare, io che sono legato a questa dannata città con tutte le mie fibre! Se almeno avessi una tomba sulla quale la gente venisse a deporre qualche fiore, come al cimitero della Lavra Alexander Nevsky, – da buon turista – avrà senz’altro visitato il museo di arte funeraria. Ci sono molte tombe di musicisti, scrittori, attori, perché non le tombe dei personaggi? Con il loro nome inciso in lettere d'oro patinate. Sulla lapide non sarà incisa quella parentesi con otto cifre su cui voi vi soffermate, ma solo una data, quella della nostra nascita. Non c'è bisogno d’immagini che ci fossilizzino in un’epoca o in un’altra. La nostra immagine è molteplice, infinita, numerosa come i nostri lettori e gli artisti che hanno cercato di incastrarci... Mi dica, ha mai visto le marionette di un burattinaio? Quei piccoli corpi di stoffa, di filo e di legno?
- Sì, e allora?
- Chi ci dice che, durante il sonno, non sognino, che non conducano una seconda vita? E non è forse lo stesso per i suoi personaggi? Cosa fanno nei momenti in cui li lascia inattivi, in cui non li manipola? Lei sa bene che, quando crede di comandarli, spesso le sfuggono. Lei ha dato loro una forma di vita. Che cosa gli impedisce di avere i loro sogni o un'altra vita LORO? Sogni più folli dei suoi. Se riuscisse a capirli, lei scriverebbe soltanto (ridacchia) capolavori.
- Una tomba? Lei non ne ha bisogno, Akaki Akakievich. Tutta questa città, teatro della sua avventura, è un monumento alla sua memoria. Morto, lei è più vivo di me, e lo sarà per l’eternità.
- Sa - in definitiva, non proprio - ma può immaginarlo - l'eternità, a volte, è un po' monotona. Di tanto in tanto torniamo a fare un giro tra coloro che si credono vivi, quelli che noi chiamiamo “beneficiari di moratoria”. Noi abbiamo i nostri indirizzi. Si scivola dolcemente, nel cuore delle vostre notti, quando la bolgia è chiusa per i vivi. Si coglie l’occasione. È pazzesco che i morti abbiano sete. Ancor più che i vivi. Una sete inestinguibile, a misura d'eternità. La vodka è di contrabbando, da bucarsi lo stomaco, ma, le chiedo, cosa rischiamo? Si dice che i russi abbiano una pellaccia...
- Sì. Soldati di Napoleone sostenevano che dovevano ucciderli più volte.
- Uhm. Un modo per giustificare il loro fiasco. Naturalmente, una volta ci basta. Per la maggior parte, è anche troppo. Questo, lo capirà, non è il mio parere. Ma, dall’altra parte, ci si da alla pazza gioia. Dopotutto, non si danneggia nessuno. Ciascuno a casa propria. Nessun vivente può sentirci. È un peccato, in un senso. Il coro dei morti è abbastanza impressionante. Soprattutto i bassi, sa. Non cantiamo solo canzoni da bevute. Ma anche dei buoni vecchi ritornelli delle nostre parti. Otchie Tchernye? per esempio. (Cominciò a canticchiare). E anche importanti arie d’opera. Si festeggia. Finito, la zuppa di crauti che era stato mio rancio, finché ero quel che chiamate vivo. E poi, che vuole, ci s’incanaglisce un po’.

Improvvisamente ci siamo trovati in una sorta di taverna che non saprei dire dove si trovasse. In una stanza bassa, mal illuminata, che io, al primo impatto, ho creduto fumosa tanto le forme che la occupavano apparivano offuscate. Più che fumo si trattava di una nebbia che sfocava le siluette degli occupanti. Una nebbia tale che non riuscivo nemmeno a leggere l’ora sul mio orologio. Delle siluette, come dire? Trasparenti. Sì, ci si vedeva attraverso. Un antro abitato da spettri la cui bisboccia si sviluppava in un silenzio totale. Voglio dire, nessun suono mi perveniva da quest’altro mondo in cui ero entrato, ma con il quale, nonostante l’intermediazione di Akaki, non potevo comunicare se non attraverso quelle immagini sfocate. Come se osservassi illegittimamente, dal buco della serratura, un'azione con cui non potevo interagire. Come se fossi entrato con un’effrazione in un sogno che non era il mio. E di cui non potevo avere che uno scorcio. Un sogno, sì.
Credetti di riconoscere la sagoma di un mercante ebreo vestito dell’ombra di un caffettano. Quattro fantasmi giocavano a carte intorno a un tavolo su cui un ubriacone sembrava dormire. Altri stavano attaccando un pranzo da cui si sprigionava una vaga fumata. In un angolino una coppia apparentemente mezza nuda faceva l’amore. O, almeno, i gesti dell’amore. Come saperlo?
I gesti... ho pensato alle marionette avevano menzionato Akaki. Fantasmi di marionette.
Un Pince-nez, un monocolo, un colletto bianco di celluloide, un gioiello appeso a un riflesso venuto dal nulla. No, non sentivo nulla, ma curiosamente, mi arrivavano, a ventate sfuggenti, sentori di pelliccia, di pelle di montone, d’alcool, di tabacco, di aringhe, di cetrioli crudi, di barbabietole e di aneto, il loro condimento preferito.
Avrei giurato che i giocatori intonassero una canzone. A giudicare dalla loro mimica: teste riverse, bocche apparentemente aperte, i piedi che battevano il tempo.
Senza sosta, queste immagini impallidivano ancora, finivano di sbiadire, si cancellavano, o, piuttosto si trasformavano lasciandone apparire altre, come per un effetto di dissolvenza concatenata.
Corpi ed epoche si miscelavano. Con l'eccezione dell’epoca sovietica di cui non intravvedevo alcun rappresentante. Nemmeno l’accenno di un piccolo funzionario dell’era stalinista che avrebbe allentato la cravatta pur di divertirsi un po’. Per non parlare di un burocrate.
Nessuno mi prestava attenzione.
Ma ben presto ebbi l’impressione che le siluette divenissero un po’ più nette. Io mi adattavo, in qualche modo. I volti erano più bianchi, più netti.
E quei giocatori di carte sembrano - sì - girati nella mia direzione. Si poteva credere che avessero subodorato, se non percepito, la presenza di un intruso.
Che cosa facevano in questi casi? Come fanno i morti a sbarazzarsi di un vivo? Al rovescio mi sembrava relativamente facile. Non è sufficiente per i vivi dimenticare i morti? A meno che... Ah! Le questioni strampalate che possono sorgere in questo genere di situazione!
Mi è parso che uno dei giocatori a momenti mi guardasse, si tolse il pince-nez e si stropicciò gli occhi, accarezzò i baffi spioventi, e poi si rivolse a uno dei suoi compagni, indicava me. L'altro scosse la testa. Imbarazzato, gli indirizzai un cenno con la mano che non suscitò, tra questi “personaggi” altra reazione che qualche sobbalzo apparentemente causato dalle risate.
Una donna in un vestito vaporoso, stile frufrù 1900 si stava dirigendo verso di me. Probabilmente voleva andare verso l'altro lato della stanza e raggiungere qualcuno. Chi? Dall'altra parte non vedevo nessuno. Nient’altro che l'ombra del muro. Mi sono detto: all'ultimo momento si scosterà, si scuserà. Lei mi ha attraversato. Fui io che, meccanicamente, mi scusai. Lasciava dietro di sé una traccia di profumo a buon mercato. Poi è tornata sui suoi passi. Ho appena avuto il tempo di scansarmi. Lei mi ha sfiorato. Che voleva di preciso?
Tutti cominciavano a gesticolare.
Adesso, li sentivo! Sentivo le conversazioni animate. Non stavano forse protestando contro questo “beneficiario di moratoria” che imponeva loro la sua presenza inopportuna? Cosa dicevano esattamente? Il livello della mia percezione era flebile, troppo flebile per consentirmi di capire discorsi pronunciati in una lingua che non padroneggiavo alla perfezione.
Allora ho avuto una strana reazione. Mi sono detto: se inizi a vederli meglio, a sentirli, significa che sei passato dalla loro parte. Dall’altra parte...
Morte improvvisa! Attacco di cuore.
Io indubbiamente non mi ero accorto di nulla mentre percorrevo la banchina. Ma mi sovveniva di aver avuto, negli ultimi tempi qualche malessere, segni premonitori.
Così, Akaki, che passava per morto, era vivo, ed io, che passavo per vivo, ero morto. Questo ristabiliva una specie di equilibrio.
L’uomo col cappotto mi aveva mostrato con che facilità si saltava da uno stato a un altro, in questo caso, dalla banchina alla taverna, senza transizione.
Tutto ciò spiegava il mio incontro con lo spirito. Ora appartenevamo allo stesso mondo... Ma allora perché Akaki aveva mi aveva recitato la commedia collocandomi tra i “beneficiari di moratoria”? Ah! Sì! Per preparare questo nuovo defunto, aveva finto che fossi ancora vivo. Mi aveva dato il tempo di abituarmi alla mia nuova condizione.
Non ero un intruso. Ero uno nuovo. E ora sapevo cosa aspettavano da me gli occupanti della sala. Che mi presentassi secondo delle usanze che, disgraziatamente, ignoravo. E che, per celebrare l'occasione, offrissi un giro, accompagnato da un discorso di circostanza e dall’inevitabile brindisi. Che dire loro? Bah! Io ero uno scrittore, no?
Ma è allora che sono spuntate quelle immagini in cui si vede l'anima del defunto uscire dal suo petto sotto forma un altro corpo, un corpo in miniatura. Potrebbe essere che alla morte il corpo raddoppi? In quel caso... il mio doppio avrebbe seguito Akaki, mentre il mio cadavere sarebbe crollato sulla banchina, rischiando, nella penombra, di far inciampare i passanti. Oppure sarebbe precipitato nella Neva divenuta la sua tomba. In questo caso, sarebbe questa mia “anima” a ritrovarsi nella bolgia?
Ciò continuava... Avevo letto troppo Dostoevskij, i suoi tormenti dell'anima e le sue angosce metafisiche?
Non mi andava comunque di cercare di adeguarmi, presentandomi come uno di loro!
No! No!
Tuttavia, se mi rifiutavo, a torto o a ragione, mi occorreva almeno giustificarmi, farmi perdonare la mia presenza indiscreta. Se sono qui, tra voi, dove non ho un posto, è per una concatenazione di circostanze (come si dice “fortuito” in russo?)...
Oh! Ecco che non riconoscevo più la mia voce. Arrivava loro? Risuonava solo nella mia testa? Niente indicava che la sentissero, che avesse su di loro il minimo effetto.
A ogni modo, l'atmosfera cominciava a trasformarsi in un pandemonio di cui io ero la causa o il pretesto.
Come potevo tirarmene fuori senza coinvolgere Akaki?
E poi, dove diavolo era finito?
Mi ero appena fatto questa domanda che mi sono ritrovato sulla banchina, ai piedi del ponte.
Accanto al fantasma che mi aveva preceduto o raggiunto.
- Akaki, la cercavo... Dov’era?
Lui emise una risata che suonava cavernosa:
- Ci sono molte stanze della casa dei morti... e, lei lo vedere, il nostro mondo ha, esso stesso, le sue leggi. A patto di essere introdotto da una guida, eccezionalmente si può dare un’occhiata, ma “i beneficiari di moratoria” non hanno il permesso di soggiorno... Bene, come vede, sono qui. In tempo per salutarla e prendere congedo. Sono le due e cinquantaquattro, secondo il vostro orologio.
- Spassibo. Vî otchen liubiezsni?, Akaki. Sono ben conscio della fortuna che ho avuto e del privilegio che mi ha concesso. E mi permetterò di rivolgerle ancora la stessa domanda: questo privilegio era riservato a me?
- Dipende dagli incontri e dalle circostanze. Non ho tanto spesso l’occasione di cadere, al momento giusto, su un autore. La maggior parte dei “beneficiari di moratoria” che posso incrociare, non percepisce nulla. Spesso addirittura, mi passano attraverso senza vedermi.
- Esattamente quello che mi è successo con quella donna, nella taverna.
Non so se Akaki abbia ascoltato e commentato la mia annotazione.
In quel preciso momento, un cigolio risuonò dietro di me. Mi sono voltato. Cominciavano ad abbassare la campata. Erano le due e cinquantacinque.
Ho guardato Akaki Akakievich.
L’ho visto posare sulla mia spalla una mano senza peso.
- Brat?, ha fatto con la stessa voce roca, potresti prestarmi mille rubli?
(Traduzione dal francese di Sauro Nieddu)
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1) mio caro
2) ve ne prego
3) funzionario di grado inferiore dei tempi degli Zar
4) Gli Occhi Neri, di
Hrebinka
5) grazie, sei molto gentile
6) fratello, o familiarmente “vecchio mio”
Ringraziamenti: L'autore tiene a esprimere la sua gratitudine a Yves e Serena Gentilhomme che lo hanno guidato attraverso le trappole della lingua russa.

2 commenti:

  1. Affascinanti come al solito i racconti di Pierre Jean, cui rivolgo un cordiale saluto.

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  2. Se avessi un cappello me lo toglierei... bel racconto di Pierre Jean che trova le sue muse nelle banchine di fiumi cosí affascinanti come il Neva e il Sena.

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