venerdì 5 settembre 2014

L’INDOMITO di Pierre Jean Brouillaud



Che età avevo quando è apparso per la prima volta dietro la mia finestra? Quindici anni. Si. Pressappoco. Prima, non mi ricordo. Doveva girare nei paraggi. La notte sentivo dei passi e, l’indomani mattina, credevo di aver sognato. Girava già. Mi ammansiva.
Quando è apparso, tra cane e lupo, pioveva. Almeno credo. Ho conservato l’immagine del suo mantello lucente, su cui la lampada appendeva delle goccioline di luce. Egli guardava dall’interno dei suoi occhi inespressivi, globi che riflettevano il bagliore della lampada. Inespressivi? Lo sguardo andava da fuori verso l’interno, alla maniera degli occhi di un cieco. Non più la prima volta delle altre, i cani non hanno ringhiato all'avvicinarsi del visitatore. Ma durante la sua presenza restavano rannicchiati, il naso tra le zampe, l'occhio rotondo, l'orecchio teso. Gelosia? Ho sempre pensato che essi non amassero il visitatore. Lo sopportavano, ecco tutto, come si sopporta un frequentatore abituale, un famigliare della casa.
Naturalmente, eccettuati i cani, nessun altro lo vedeva né lo sentiva. Io soltanto. Restava dritto contro la finestra, in silenzio. Non si scuoteva.
Non ho mai potuto avvicinarlo. All'inizio aprivo un po' la finestra, senza rumore, con l'abilità di un ladro. Un profumo selvaggio, un profumo di libertà – parola sprecata questa volta. Lui non aveva mai conosciuto né il morso né la cavezza né la sella. Indomito. Indomabile.
Non ho mai terminato il mio gesto. Il legno scricchiolava sempre, il vetro spostava un riflesso. Il mio visitatore rientrava nell'ombra.
Una volta, una sola, egli ha avuto il ghigno curioso dei cavalli che alzano il labbro per prendere o  mordere. Se avessi potuto aprire, avrei teso la mano, tentato la mia sorte, sperando di lusingarlo con una carezza. A quel tempo, non sapevo che i cavalli possono leccare la mano, come un cane.
Attraverso il vetro, io gli mormoravo alcune parole. Talvolta mi è parso che le sue orecchie si muovessero. Ma non poteva capirmi. Poi gli ho parlato dolcemente. Sono sicuro che allora mi ha inteso. Ma la mia voce non poteva ricordarla.
Egli è venuto nelle notti di temporale e nelle notti di luna. Verso il cielo gareggiava in velocità con le nuvole, criniera in luce. S'infilava in pieno cielo, sotto la sfera della luna.
Ho voluto dimenticare. Ne avevo abbastanza di questa presenza, di questa inaccessibile amicizia che si nascondeva. Dimenticarlo? Come avrei potuto? Uno di noi (chi?) era l'ombra dell'altro.
Questa sera, egli è tornato, senza rumore. Ma io ho percepito il fruscio dei suoi zoccoli sulla terra morbida. Ho voluto fare una finta, nascondermi, per vederlo senza essere visto, nel vano della finestra. Egli ha scosso la testa.
Attende, davanti alla porta, il nero che splende sul grigio. Come la prima sera, piove. Infine, pioviggina. I fianchi della bestia fumano.
Ora posso aprire. Non se ne andrà senza di me. Egli gratta il terreno con lo zoccolo.
Apro la porta. I cani volevano seguirmi. Li ho rimandati alla cuccia.
Egli è partito.
Ritornerà, come mi torna alla mente la vecchia ballata: Die Toten reiten schnell (1).
I morti vanno al galoppo.

1) Lenore, de Gottfried August Bürger, 1747--1794

(Traduzione dal francese di Paolo Secondini)

4 commenti:

  1. Originalissimo, questo racconto di Pierre Jean, intenso, di un lirismo onirico, surreale.

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  2. Bella la storia del cavallo che ti porta verso il mondo ignoto

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  3. Racconto fantasy ricco di suggestione. Belli e interessanti i risvolti riguardanti il dualismo fantasia realtà.

    Giuseppe Novellino

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  4. Bel racconto davvero: molto poetico.
    G.S.

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