martedì 3 settembre 2013

LA BAMBINA SENZA SOGNI di Cristian J. Caravello

(Tenemos el gran placer de presentar a los lectores de Pegasus Sf al escritor argentino de ciencia ficción Cristian J. Caravello, cuya calidad poética y narrativa es indudable. 
È con grande piacere che presentiamo ai lettori di Pegasus Sf lo scrittore argentino di fantascienza Cristian J. Caravello, dotato di indubbie qualità poetiche e narrative.)

A Mechita piaceva guardare il lago, seduta sulla grande pietra, con i piedi nudi che accarezzavano l’acqua. Si divertiva a schizzare le papere, che scivolavano come per magia, remando con le loro zampette invisibili sotto il pelo dell’acqua. All’improvviso una papera immergeva la testa, poi un’altra, più in là. E la bambina sorrideva. Sorrideva sempre.
Accanto a lei, Canica aveva portato un osso e scavava il terreno con le zampe infangate. Più indietro, Capota lo guardava col desiderio di giocare. I cani giocavano sempre. Si intrecciavano in una lotta finta, mordendosi muso a muso. Mechita sapeva che era finta, perché giocavano sorridendo; e molte volte si buttava in mezzo a loro.
Mamma Samanta guardava la scena con un sorriso triste dalla finestra della cucina.
Ormeggiate a un piccolo molo, un paio di barchette sverniciate dondolavano con le onde della riva. Verso destra il lago si stringeva, fino ad arrivare al suo affluente, che si perdeva in un bosco di olivi selvatici; verso sinistra defluiva in un canale ripido che l’acqua aveva scavato nella collina, per proseguire il suo corso fino a valle. La ripida era attraversata da un ponticello di legno e qualche metro sotto era in funzione una vecchia turbina idraulica, che generava energia elettrica sufficiente al consumo domestico.
Mechita aveva smesso di giocare e si avvicinava a casa con un cane sottobraccio.
– Mamma, Capota si è spenta.
La madre si asciugò le mani nel grembiule.
– Ah, Mechi, non puoi tenere gli animali accesi tutto il giorno.
– Le papere non si spengono mai – disse la bambina.
– Le papere si ricaricano da sole, tesoro. Si mettono nella corrente e si ricaricano con una rotellina che hanno sulla pancia.
La bambina si girò perplessa, guardando le papere da lontano, con la bocca socchiusa.
Samanta aprì uno sportello nascosto tra i peli della schiena di Capota ed estrasse un cavo sottile e lungo che collegò a una presa.
– Mettiamola sotto carica e con un po’ di fortuna, forse farà anche un aggiornamento.
– Posso portarmi via Pimpi? – chiese la bambina.
– Sì. Chiamalo forte, così si accende e viene qui.
– Pimpi! Pimpi! Andiamo a giocare!
Il gatto grasso e grigio uscì dalla stanza della bambina con un passo pesante e insonnolito. Canica agitò la coda e i tre uscirono in giardino.
– Non avvicinarti al ponticello – gridò la madre dalla porta.
Mechita fece un gesto con la mano, senza girarsi, e si allontanò in fretta con il suo cane, il suo gatto e il suo vestitino rosa per giocare.
* * *
La casa del lago era semplice e bella. Aveva un grosso tetto in paglia vinilica, dal quale emergevano le antenne. Due camere da letto con grandi finestre che affacciavano sul davanti e un ampio soggiorno che si prolungava nella cucina. Una larga tettoia riparava l’uscita al giardino, dove erano disposte delle poltroncine di legno rustico e un tavolino nello stesso stile.
Quietamente si era fatto pomeriggio, quando Pedro emerse tra gli olivi, zigzagando a gran velocità sul suo acquascooter, in piedi sulla tavola galleggiante, aggrappato con forza al manubrio e con il corpo leggermente inclinato in avanti come uno sciatore.
Tagliò il percorso fluttuando sul lago, schivando le papere e lasciando una delicata scia sulla superficie dell’acqua. Lasciò il veicolo sotto la tettoia, appoggiato contro la parete e salutò la bambina con un bacio.
– Che cos’hai lì? – chiese Mechita, guardando l’enorme scatola che Pedro stava togliendo dal portaoggetti.
– È per te, ma devi aprirla dopo.
– Perché?
– Perché prima va messa sotto carica.
– Ma che cos’è?
– Non te lo dico.
Pedro entrò in casa con la bambina che gli volteggiava intorno.
– Dimmi con che lettera inizia.
– Ti darò solo un indizio: “smettila di svolazzarmi intorno come… un sacco di farfalle.”
L’indizio non servì e ci volle un po’ per convincere Mechita a tornare in giardino.
Mamma Samanta salutò Pedro con un sorriso e un rimprovero.
– Di nuovo da queste parti?
– È l’unica cosa che posso fare quando sento la tua mancanza – disse lui.
Lei lo ignorò con un certo disagio.
– Dai, metti sotto carica quelle farfalle – disse.
Pedro appoggiò la scatola sopra al tavolo, estrasse un cavo dal lato, rompendo solo una parte dell’involucro e lo attaccò alla presa. Poi si sedette e accavallò le gambe. Samanta si rintanò al bancone della cucina, prevedendo l’interrogatorio.
– Come stai? – disse lui dopo un lungo silenzio.
– Bene. Vuoi un caffè?
– Sì, grazie; se con quello possiamo stare un po’ seduti a chiacchierare.
– Non voglio parlarne. Lo sai.
– Io non ho parlato di nulla, ti ho solo chiesto: come stai?
Pedro enfatizzò la domanda, per riproporla.
Lei restò in silenzio e sbrigò le sue faccende in cucina. Fece rumore con le tazzine, aprì sportelli, tirò fuori la zuccheriera, dispose i cucchiaini. Poi si fermò un istante, si asciugò le lacrime con il dorso della mano, buttò fuori un soffio di fiato, prese il vassoio e già ricomposta portò tutto in tavola.
– Bene – disse. – Sto bene.
Parlarono fiaccamente per un po’, fingendo un interesse per gli argomenti che nessuno dei due sentiva. Lui mordendosi la lingua. Lei, desiderando che la tenesse a freno.
Un battito d’ali crescente dentro la scatola interruppe la farsa. Pedro scartò il pacchetto e apparve un cubo di vetro pieno di farfalle colorate, che si agitavano e si scontravano nello spazio ristretto.
– Con questo bottone si apre lo sportello ed escono – spiegò Pedro. –Con quest’altro bottone tornano nella scatola. Se si scaricano, tornano da sole. Una volta che sono nella scatola, la colleghi e si ricaricano tutte. E con questo retino, la bambina giocherà a cacciarle.
– Che belle! – disse Samanta. – Quante sono?
– Novantasette.
Samanta lo guardò stupita. Pedro girò la scatola e lesse sottolineando con il dito: — “Contiene novantasette farfalle”. Suppongo che così sembrino più naturali.
Negli ultimi tre decenni, un movimento chiamato
Tecnorinascimento si batteva per riprodurre la natura così com’era, in tutti i suoi dettagli. Cento o cinquanta erano numeri meccanici, e dovevano apparire con la stessa frequenza di qualunque altro numero, nei sistemi naturali riprodotti. Per questo novantasette farfalle andava bene.
– Già me la vedo Mechita che corre per il giardino, cacciando farfalle tutto il giorno – disse Samanta, che si era avvicinata alla finestra e osservava la bambina inginocchiata sulla riva del lago, a tormentare una papera incastrata tra i pali del molo, con un lungo ramo che appena riusciva a controllare, per cercare di metterla a zampe in su.
Pedro si avvicinò a Samanta ed entrambi osservarono in silenzio le peripezie di Mechita.
– Come stai con la bambina?
Lei restò a lungo in silenzio e gli occhi le si riempirono ancora di lacrime.
– È meravigliosa – balbettò con voce rauca. E liberò il pianto che non era più in grado di contenere. Pedro la abbracciò. Lei nascose il viso tra le mani e lo appoggiò al suo petto.
Il giovane la accarezzò a lungo. Poi ruppe il silenzio.
– Non continuare così amore mio. Non ti fa bene.
Lei non rispose.
– Voglio tornare – continuò lui. – Non posso più sopportare tutto questo. Mi manchi in ogni istante. Credi che sia stato facile per me? Voglio tornare.
Samanta fece di no con la testa, senza sapere come giustificare il rifiuto.
– Non sono pronta.
– Sono già passati sei mesi, amore mio.
– Al mondo sono passati sei mesi. Io sono imprigionata al minuto zero. Sono sopravvissuta grazie alla bambina.
– Lascia che ti aiuti. Anch’io voglio aiutarti. Lasciami tornare.
Samanta si staccò con dolcezza da Pedro, fece alcuni passi e tornò a rintanarsi al bancone della cucina.
– Devo preparare la cena.
– Mi inviti a cenare?
– Avevo pensato di no.
Lui si avvicinò, la prese per le spalle e la fece girare dolcemente.
– Ti amo – le disse, con uno sguardo intenso e umido.
Samanta non rispose.
L’uomo le accarezzò la guancia e senza parlare si girò e si diresse alla porta. Una volta lì, fece il gesto come di un pagliaccio che ricorda qualcosa, indicando il tetto con gli indici.
– Quasi mi dimenticavo.
Tornò al tavolo, schiacciò il bottone della scatola di vetro e liberò le farfalle.
In un attimo, la cucina si riempì di vita e colore.
– Farfalle! Farfalle! – gridò lui saltando come un bambino. – A cacciare farfalle!
Samanta allentò il nodo in gola con una risata discontinua.
Uno a uno, i piccoli marchingegni trovarono l’uscita verso il giardino e dietro di loro uscì Pedro con il retino.
– A cacciare farfalle! A cacciare farfalle!
Non tardò molto a passare il testimone a Mechita, che iniziò a correre in tutte le direzioni dietro ai colorati insetti. Pedro salì sull’acquascooter e partì.
– Pedrito! – gridò la donna dalla porta. – Domani preparerò delle ciambelle…
L’uomo alzò un pollice a distanza e scomparve dietro agli olivi.
* * *
Le ultime luci del giorno già inargentavano il paesaggio. Con la notte incipiente, la casa del lago cominciava a trasudare una malinconia vestita di lilla e viola. Le lanterne del giardino si erano già accese, attirando piccole orde di insetti volanti.
Estranea alla tristezza di fondo e ai fatti del recente passato, Mechita continuava a correre tra le farfalle. Di tanto in tanto entrava in casa per mettere quelle catturate nella scatola di vetro. Però era da molto che Mechita non entrava, così mamma Samanta uscì in giardino per vedere che cosa stava facendo la bambina.
Con sgomento, vide che era salita sul ponticello ed era appoggiata alla ringhiera, con il tronco che sporgeva verso il vuoto, mentre cercava di catturare una farfalla.
Mechi! No! – gridò la madre.
Il grido lasciò la bambina pietrificata, ferma in mezzo al ponte con il retino in mano. Samanta le andò incontro correndo.
Stai lì tranquilla che ora viene la mamma.
La raggiunse e la abbracciò con forza.
Mechita, non andare mai più sul ponte. Mai.
E lì, con la brezza che le muoveva i capelli, e con l’assalto ostile della notte scura, Samanta chiuse gli occhi e tornò a rivivere tutta la tragedia. Rivide la sua amata figlia scomparire al di là della ringhiera e cadere di testa nel torrente infuriato. La disperata corsa in suo aiuto e l’orrore di trovarla in quello stato, aggrovigliata nelle pale della turbina, con il corpicino quasi diviso a metà e quella linfa vermiglia che scorreva dalle sue viscere e si disperdeva nel tumulto delle rapide. E gli occhi, gelidi e aperti, a guardare per sempre il cielo dal fondo dell’acqua.
Mamma Samanta pianse con amarezza quella notte, in mezzo al ponte, abbracciata al corpo di Mechita, che già si era dimenticata della sua farfalla; ricordando l’assurda morte della figlioletta tra le fauci del generatore. A quel tempo la bambina aveva sei anni e la sua vita non aveva potuto proseguire oltre. E, imprigionata in quello stesso istante, si era fermata anche la vita di Samanta.

* * *

Mamma Samanta spense la luce in sala da pranzo. Nella sua stanza, Mechita giocava con le bambole.
Ti sei lavata le mani? — domandò la madre.
Le mani, la faccia e i denti? — precisò la bambina.
Sì.
No.
Allora vai. È già tardi, tesoro.
Per alcuni minuti, mamma Samanta sentì l’acqua scorrere in bagno. Poi la bambina uscì con una macchia di dentifricio sulla guancia.
Fatto – disse.
Mamma Samanta sorrise e le pulì la faccia. La portò nella sua stanza, le tolse i vestiti e le scarpe, le fece indossare una camicia da notte bianca coi fiorellini rossi, che fece resistenza a passarle per la testa. La mise a letto e la coprì. Accese la lampada sul comodino, spense la luce grande e tirò la tenda per far entrare la luce della luna.
Adesso dormirò?
Sì, amore mio.
E sognerò?
Sì, amore mio.
E che cosa vuoi che sogni?
Mamma Samanta si inginocchiò accanto al letto e le accarezzò i riccioli.
Voglio che sogni gli angioletti.
Mechita sorrise, girò la testa e guardò fuori dalla finestra.
Buona notte mamma.
Buona notte amore mio.
Mechita chiuse gli occhi e si addormentò. Mamma Samanta la guardò con tenerezza per alcuni secondi. Poi, come risvegliandosi da un sogno, tuffò la mano sotto la coperta, frugò nel corpo della bambina e da un qualche punto della schiena estrasse un cavo sottile color carminio che collegò in fretta alla presa.
Samanta si figurava che un giorno quei cavi avrebbero portato qualcosa di magico e che la bambina avrebbe potuto anche sognare. Allora non ci sarebbero state differenze, e tutto sarebbe stato come prima. E insieme, loro tre, sarebbero tornati a essere una famiglia, e avrebbero giocato con i cani, fatto gite in barca sul lago, parlato della vita semplice e giocato a immaginare il futuro. E avrebbero dimenticato le tristi vicende del recente passato. Se solo avesse potuto sognare...
Mamma Samanta spense la lampada, appoggiò la sua guancia sul viso inerte della bambola e si fermò lì, come tutte le notti, accarezzando i suoi capelli biondi, guardando i disegni della luna contro la parete delle bambole e ripetendo a bassa voce la sua inutile litania.
Sì amore mio… sogna. Per favore…

(traduzione dallo spagnolo di Giuliana Acanfora)


8 commenti:

  1. Un cordiale benvenuto a Cristian su Pegasus sf. Il suo bel racconto ha sapore di fantasy e fantascienza nello stesso tempo.

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  2. Unisce in modo armonico il tono della fiaba con quello della fantascienza tecnologica, in uno scenario molto evocativo, ritratto con pennellate intense e efficaci. Scorrevole e accattivante la prosa, resa molto bene dalla traduzione di Giuliana. Mi è piaciuto.

    Giuseppe NOvellino

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  3. Intenso e commovente.
    Un bel racconto.

    Massimo Licari

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  4. Bella storia fantastica. L'autore rende molto bene lo stato d'animo di dolore e malinconia della madre.

    Antonio Ognibene

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  5. Grazie a tutti per i commenti.
    E 'un piacere essere qui.
    Paolo ringrazio per questo.
    E apprezzo molto especilmente a Giuliana per la selezione e tradotto questa storia.
    (Mi scuso per la traduzione)

    (Gracias a todos por los comentarios. Es un placer estar aquí. Agradezco a Paolo por eso y muy especialmente a Giuliana por haber seleccionado y traducido este relato. Discupas por mi italiano)

    Cristian J. Caravello

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  6. Grazie a te, Cristian. E' sempre un piacere averti tra noi.

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  7. Ha sido un placer. Tus cuentos merecen ser conocidos.
    Giuliana Acanfora

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  8. Proprio carino questo racconto, tenero e anche inquietante.

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