mercoledì 24 settembre 2014

CONFIGURAZIONE FILIPPO di Paolo Durando



Non sapeva da quanto tempo stava camminando. Gli sfrecciavano accanto, con fragore, bagliori metallici privi di contorni.
La paura era la sua maggiore insidia, man mano che prometteva di farsi possibile, intorno, il riconoscimento delle cose.
Il contesto si definiva fino a dissolvere ogni dubbio. Autostrada, e cirri bianchi nel cielo.
Stava procedendo, a quanto pareva, sulla corsia di emergenza. Ma perché le automobili continuavano ad avere bordi sfumati? Alcune parevano fiamme, altre freschi globi di setole multicolori. Forse era per la velocità eccessiva. L'asfalto stesso aveva una consistenza vischiosa alla vista, pur dimostrandosi, sotto i piedi, quanto di più solido ci fosse.
Comunque, era in viaggio. Ciò aveva richiesto molto coraggio, anche se non avrebbe potuto evitarlo. Prima o dopo, volente o nolente, sarebbe accaduto.
Una bolla verde, pelosa e leggera, lo superò in un attimo e da lì, stavolta, fu lanciato un richiamo. Un nome esplose nell'aria. Una voce maschile, ferma, aveva pronunciato “Filippo!” Non si trattava del nome che non ricordava, ma quello che corrispondeva alla sua mutazione. L'appello non era stato affettuoso, anzi. Più camminava, più il suo corpo, stretto in camicia e jeans,  infradito ai piedi, diventava pesante, mentre le automobili erano proprio automobili, inequivocabilmente Simca, Fiat Brava, BMW. Facevano parte del suo mondo. Filippo dava automaticamente un nome anche alle cose che non aveva mai visto. Riconosceva l'ambiente in cui si stava muovendo, lasciandosi alle spalle tutto quanto era stato. Temeva di essere investito. Sentiva vibrare le gambe ad ogni fragore.  Era faticoso con gli infradito. Il cielo, nel frattempo,  era divenuto uniformente azzurro,  i cirri si erano dissolti, ma all'orizzonte permaneva una debole foschia. Iniziavano a profilarsi filari di alberi e, lontane quanto evanescenti, delle colline.
Si delineò poi una costruzione che scavalcava a ponte l'autostrada. Filippo sapeva leggere e pronunciò, mentalmente,  “Autogrill”. Si diresse verso il parcheggio, quasi tutto occupato. Non si notavano esseri umani. Entrò e vide molti oggetti esposti, cibi di ogni genere, tutto era ben definito, solido, anche al tatto. Si mise a toccare le merci che lo attiravano: peluches, libri, scatole di dolciumi, un maiale di gomma che, se schiacciato, produceva il suo caratteristico verso. Quando alzò lo sguardo, c'erano delle persone che si aggiravano nei pressi ed altre ne arrivavano, rilasciate dal nulla.  Non si sentì affatto confortato, erano evidenti  l'indifferenza e il fastidio nei suoi confronti. Una donna dal viso segnato, in parte coperto dai capelli neri, lo guardò insistentemente, con doloroso disprezzo. Un uomo pelato e mezzo nudo, con vistosi tatuaggi, gli rivolse un sorrisetto incredulo, come se avesse infranto un tabù con la sua sola presenza. Di nuovo, quindi, ebbe paura. Quella paura di sottofondo che non lo aveva mai abbandonato e che  poteva solo riacutizzarsi.
Si allontanò silenzioso e raggiunse la toilette. Si avvicinò all'orinatoio. Seguiva un copione di gesti naturali, profondamente impressi nella sua natura. Sentì il rumore del getto, prima di rilassarsi. Si avvide che l'orina era scura, quasi nera e lo prese lo sgomento. Cercò di allontanarsi e all'improvviso venne aggredito. Una lunga, sottile proboscide era sbucata dallo scarico, avventandosi sul suo sesso. Gridando, la afferrò con due mani e cercò di staccarla. Non ci riuscì e, continuando a tirare, andò all'indietro. Vide fuoriuscire una testa grigia, due piccoli occhi frivoli,  un ventre grasso. Provava un'ombra di piacere, ma il terrore e il disgusto erano più forti. Si gettò per terra, tra le scarpe dei presenti, che commentavano la situazione con voci gutturali, in lingue incomprensibili. Ovunque sperasse di incontrare un afflato di solidarietà gli arrivava il più netto rifiuto.  Invece di aiutarlo a liberarsi da quella bestia,  presero a sputargli addosso, a dargli calci.
Due ragazzine cominciarono a  montargli sopra. Qualcuno gli tirò  un oggetto. Fece attenzione ai volti che lo circondavano, recependo un odio indifeso. Non avrebbero voluto trattarlo così, ma era inevitabile. Alcuni piangevano di rammarico. Anche le adolescenti che lo calpestavano lo facevano perchè dovevano anteporre se stesse a lui, tristemente, senza potere immaginare un'altra soluzione.
Non potè trovare di meglio che radunare tutte le sue estreme forze e dimenarsi nel tentativo disperato di alzarsi e darsi alla fuga. Il risultato fu che tutto il suo corpo fu risucchiato all'interno della bestia. Attraverso le sue viscere, si ritrovò steso di schiena, in un'oscurità viscida. Si alzò a fatica e si mise a correre all'impazzata. Era un cunicolo buio, ma una vaga luminescenza marrone gli segnalava, di lì a poco,  un progressivo allargarsi delle pareti, che diventavano quelle di un vero e proprio tunnel. Ecco ancora l'autostrada. Dentro una galleria, però, dove doveva camminare lungo un bordo sottile, mentre le automobili, noncuranti, sfrecciavano numerose.
Tra lui e i suoi simili non c'erano vie di contatto. Veniva dalla guerra, dall'odio. Era partito per andare verso qualcosa di meglio, chissà, oppure per  confermare la sua condanna.
Stava a galla, sopra abissi che ignorava, la visione amputata per necessità e per scelta. Era stato marchiato e indirizzato. Che fosse stato proprio lui a chiederlo o lo avessero, in realtà,  deciso altri, assieme o contro di lui, poco importava. Era lì e doveva andare avanti, senza ripensamenti.
Quando la galleria terminò, si trovò in un paesaggio straordinariamente definito. Era il mondo visto da quel vacuo mostro, che poi era lui stesso. Una vista acutissima, che scandagliava le pianure, distinguendo fiori e ginestre, pietre e salvia. La saliva che ingurgitava era amara, nel pulsare, ancestralmente animale, delle sue mucose.
Quando un'automobile si fermò al suo fianco e venne fermamente invitato a salire dietro, obbedì senza meravigliarsi. Al volante sedeva un uomo brizzolato, corpulento, accanto ad una donna stempiata, con gli zigomi forti, gli occhi tondi e sporgenti. Promanava da lei un'energia intensissima e, soprattutto, una straordinaria mancanza di benevolenza.
Filippo cercò di richiamare la loro attenzione, ma inutilmente. Gli venne da piangere. Era un bambino di forse cinque, sei anni. Non sapeva quando e in che modo fosse avvenuta la metamorfosi, ma gli sembrava del tutto ovvia. Piangeva sommessamente e continuativamente, del tutto trascurato, con la sua voce di adulto. Infine la macchina accostava in prossimità di una piazzola di sosta.
Fermatosi, l'uomo gli ingiunse di scendere, con gli occhi velati di collera.
“La smetti o non la smetti?” Minacciò. Avrebbe voluto obbedire, ma la paura era troppo grande. Le mani gli tremavano e dalla sua bocca uscivano, suo malgrado, lamenti cavernosi, amplificati da un'inaspettata eco.  Arrivò la prima sberla,  la seconda.  Poi iniziò a picchiarlo anche la donna. Tra la nebbia delle  lacrime la guardava incamerare aria, ululando per lo scandalo che lui rappresentava ai suoi occhi; schiaffeggiandolo, il suo sguardo lo sfuggiva, quasi fosse impegnata in  uno scongiuro e agisse per un eccesso di sorpresa e di indignazione.  Le sue unghie affilate gli scavarono nelle guance. Finì per terra sanguinando dal naso.  Lui lo sollevò tirandolo per i capelli. Vide i suoi piedi penzoloni sul vuoto e chiazze rosse che macchiavano l'asfalto. Venne sbattuto in malo modo sul sedile posteriore e il viaggio proseguì. I due parlavano velocemente tra loro, borbottavano minacce tra i denti, progettavano punizioni. Filippo dovette dar di stomaco. Vide il suo vomito sul sedile e sul tappetino. A quel punto l'uomo accostò di nuovo. Si voltò.  Aveva il volto pieno,  arrossato. Le pupille erano dilatate. Carne della sua carne, sangue del suo sangue, gli afferrò il collo con una mano e strinse, strinse sempre di più. Poco a poco tutto veniva meno. In realtà, la presa si allentò a un attimo dalla fine. L'uomo lo trasse fuori dalla macchina, afferrò una corda dal bagagliaio e lo legò meticolosamente al guardrail. Braccia e bacino. Dopodichè lo abbandonarono.
Passò il tempo e sopraggiunsero la fame e la sete. Morbidamente, mellifluamente, svariate creature gli furono, infatti,  attorno, garbate, discrete statuine di cera, dalla forma di ballerina  in tutù o di libellula cangiante. Gli si appressavano, prima di immobilizzarsi. Forme e colori  cristallizzavano davanti a lui, restando gentili, perchè di fatto sarebbe bastato mangiare e bere perchè si allontanassero immediatamente. La fame e la sete non erano nemiche, erano una circostanza materiale, risolvibilissima. Non per il bambino che era, che continuava a singhiozzare, non facendosi consolare da quei sorrisi delicati, quasi amichevoli, confidenti in una concretezza a venire, gravida di piaceri. Di solito era così, per chi si trovava nella situazione giusta. Lui cosa avrebbe potuto aspettarsi? Quali piaceri? Sentì il suo sesso inturgidirsi, non era più bambino, ma restava legato e impotente. I  piedi erano scorticati negli infradito. 
Un'altra auto rallentò, con stridore di freni. Dal finestrino una mano candida gli gettò del cibo. Lui protese il viso, ma restava legato, per cui vide spargersi per terra noccioline e cioccolatini. Il conducente mise meglio a fuoco la sua condizione e si fermò poco oltre. La portiera si aprì e ne uscì un tipo alto dalla pelle bianca e la veste nera,  le sopracciglia inarcate. Gli arrivò tutto il portato della sua estrema vanità. Era totalmente preso da se stesso, eppure lo slegò dal guardrail,  con studiata dolcezza.  E  prese ad accarezzarlo sulla testa, mentre lui, finalmente libero, si gettava carponi tra i golosi doni, annaspando con la bocca. L'altro lo osservava misurando la distanza tra loro, provando tutto il piacere possibile dal divario esaltato dalle mani curate.
“Filippo,” disse, “Caro Filippo...”  La sua soddisfazione si localizzò sulla punta della lingua, con cui prese a umettarsi le labbra. Sorrise, ma non era un sorriso amichevole. Poi mugolò, come se stesse venendo. Si concentrò sui suoi spasimi, con gemiti che esprimevano la consapevolezza dell'eccesso, di qualcosa che debordava drasticamente dall'armonia, dalla giustizia, da quanto si poteva ritenere dotato di senso. Il suo godimento era una resa incondizionata. Non era lui ad avere voluto che Filippo fosse in quello stato. Era il destino, una legge di cui non poteva ritenersi responsabile. Eiaculava del tutto privo di sensi di colpa. Restava il fatto che lo aveva salvato. Le strade della misericordia sono molte e imprevedibili. Avevano di sicuro avuto reciprocamente a che fare in passato e, soprattutto, avrebbero dovuto incontrarsi di nuovo. Solo in un futuro indefinibile i conti sarebbero stati pareggiati. Era rassicurante questa intima certezza. Ma non bastava a cancellare umiliazione e disillusione.
Dopo l'orgasmo, il trionfatore si rivolse ad una donna giovane, irruente  su tacchi a spillo, sopraggiunta in quel momento. Questa gli porse un braccio perchè la seguisse.  Andarono via insieme, a piedi. Filippo continuò a vederli marciare pieni di sicurezza. Non cessava, seguendoli,  di guardare i selvaggi capelli biondi della ragazza che ondeggiavano per il passo e per il vento.  Li perse di vista, ma li ritrovò più avanti, mentre riposavano sotto un albero. Concentrato su se stesso, irretito dalla consapevolezza sdegnosa del piacere, l'uomo stava disteso tra le braccia di lei, che gli accarezzava il viso e gli asciugava la saliva ai lati della bocca.
Filippo passò oltre. E vide  nuove pianure desolate, poi alberi tra remoti villaggi sparsi, di nuovo alberi, infine colline. Le automobili, non molto frequenti, schizzavano a velocità incredibile e talvolta lo sfioravano, ma di nuovo non ne coglieva né forma, né colore, nè dimensioni.
Resisteva e, man mano che il tempo passava, si sentiva sempre di più se stesso, si riconosceva pienamente. Coglieva, in sintesi,  il compito che lo attendeva, senza poterlo volgere in parole. Questo potenziamento avrebbe trovato corrispondenza, di lì a poco, anche all'esterno. Lo presagiva arrivando in una grande città, i cui palazzoni periferici erano a ridosso dell'autostrada. Enormi condomini gravavano sulle tre corsie. Poteva percepire lo sguardo di molte persone che si stavano affacciando alle finestre. Ne sbirciò le minuscole teste, lontane macchie nere in controluce. Una donna si sporse sul davanzale, indicandolo: “E lui!” gridò. E subito dopo, da altre finestre, dei volti si agitavano e presero a urlare: “E' lui, è lui!”. Protendendosi verso l'alto vedeva uomini di ogni età, smunti, paffuti, calvi o con parrucchini e, soprattutto, molte donne anziane, dall'espressione preoccupata. “E' lui!”. “E' Filippo!” E altre finestre ancora, invece, si chiusero. Una dopo l'altra, numerose tapparelle furono abbassate, molte teste si eclissarono. Il riconoscimento non era stato affettuoso. Lo ricordavano per il disprezzo di cui era universalmente oggetto. In quelle grida, in quelle fronti corrugate non traspariva la minima solidarietà nei suoi confronti. Andava incontro all'odio profondo di molti suoi simili e all'indifferenza totale degli altri. Quello che avrebbe subito sarebbe stato terribile, ma nessuno avrebbe mosso un dito per aiutarlo. Non avrebbe avuto un consiglio, un aiuto, neppure una parola buona. Era quello che lo aspettava e non sarebbe stato nè il primo né l'ultimo. Era capitato e sarebbe capitato a molti altri reietti, in quanto parti di un meccanismo implacabile di cause ed effetti. Sapeva solo che non poteva che accettare la sua parte, passare sotto quei palazzi pieni di avversione. Il cielo si era fatto limaccioso. Soffiava aria fresca, rabbrividì.  Vide  un gruppo di uomini scuri, malvestiti, che correvano dai campi verso di lui.  Scavalcato il guardrail, lo catturarono avvolgendolo in una coperta, per impedirgli di vedere dove lo avrebbero portato. Lo spinsero lungo una discesa. Sentì un rumore come di una saracinesca che si alzava. Gli tolsero di dosso la coperta. Potè così vedere dove si trovava, una vasta stanza disadorna. Intorno, molta gente cenciosa lo contemplava, seduta a terra presso le pareti.  Parlavano tra loro in lingue sconosciute. Se lo indicavano l'uno all'altro, scambiandosi informazioni od opinioni.
Una ragazza in divisa, berretto a visiera,  gli si avvicinò con aria di sfida. Si arrestò a poca distanza da lui, fissandolo in viso.
“Cosa può confarsi a siffatto errore, in questo imporsi di follia e resipiscenza della provocazione? Cosa potrebbe essere inferto al principio per cui mortifere esalazioni di soprastanti falsi allori, guastano impunemente gli evolventi siti?  Urge combattere, al cospetto del coro dei più.”
Da una parete una voce sofferente pose una domanda: “Perchè mai il liberato apice non ostacola il fisico espandersi dell'ingannevole, rosata tenebra?”
Si fece silenzio, tutti si aspettavano un suo cenno, una  parola. Pareva un processo.
“Non sono sicuro” rispose, allora, “Che non sapendo quali risorse smarrii espandendomi, fossi di buon grado capace di dispersioni malvage. In fondo,  nel conflitto di opposti vettori e interposti quesiti, altro non fu che l'inconsapevolezza mia querula  a  non modellizzare solide intenzioni.”
Non era convincente, lo sapeva bene. In fondo, però, non importava. Avrebbe voluto molto, ma poteva poco. Il suo stesso corpo era lì a dimostrarlo. Non era il corpo che avrebbe immaginato di avere. I piedi nell'infradito erano “alla greca”, cioè con il secondo dito più lungo dell'alluce. Non li avrebbe voluti così.
A quel punto la ragazza sorrise con scherno. Il suo volto ambrato era scosso da piccoli interni sussulti, nel momento stesso in cui scacciava Filippo dalla sua mente. Così, a poco a poco, anche gli altri si misero a ridere, uno dopo l'altro, nella pienezza di un'irrisione profonda, che nasceva da un rifiuto radicale per ciò che lui prometteva di essere, corpo e mente.
Capì che doveva tentare di fuggire. Il processo non era dunque neppure iniziato. La colpevolezza era scontata, come se fosse stato colto in fragrante. Scappando, era attorniato dappertutto da porte metalliche. In alto le facciate dei palazzi parevano sul punto di rovinare, per cancellarlo definitivamente. Gli lanciarono dietro dei cani. Un paio lo raggiunsero subito, azzannandolo ai fianchi. Si divincolò, ne afferrò uno, riuscì ad avere ragione della sua forza, abbrancandolo al collo e spappolandolo con le mani, con una potenza che non pensava di avere, mentre l'animale si dibatteva e ruggiva.  E così fece con gli esseri umani che gli saltavano addosso da ogni parte. Colpiva alla cieca, rompeva costole, cavava occhi, infilava dita in gola. Perdeva ogni cognizione della vita di quei corpi, considerandoli come cose, nient'altro che cose. Le urla, i pianti, i conati non gli sembravano che esiti meccanici di un'impostura. Lui stesso si sarebbe aperto con le sue mani. Fu quello che fece, fermando così l'attenzione di chi lo inseguiva. Davanti a loro si strappò il ventre, esibì le interiora. E continuava a correre, ritrovando l'autostrada, seminando sangue e budella. Cos'altro era, se non uno schifoso impasto? Non poteva credere in Filippo, così come nello scempio che di lui aveva appena fatto. Infatti, lasciandosi alle spalle la città,  con gli ultimi palazzi frementi di vita, ritrovava l'integrità del corpo e della meta. Una sola cosa poteva e doveva fare: andare avanti, sempre più avanti, eroicamente.
Fino al traguardo, fino ai supposti, inimmaginabili, caselli d'uscita.
Ad un certo punto, all'orizzonte, si intuì un subbuglio, un tumulto grandioso. C'era sicuramente, laggiù, la stazione d'arrivo. Si sentiva un rumore incessante, simile a un tuono,  e si indovinava uno scintillio di gocce d'acqua, sullo sfondo, che si sollevava imbiancando il cielo.
La prossimità dell'uscita venne annunciata anche dal moltiplicarsi delle presenze, dei pellegrini. Notò un viandante sciancato, perso nella sua solitudine, bambini soli e in gruppo,  due donne che si tenevano per mano.  Procedevano lungo il guardrail, evitando di sporgersi troppo verso la strada, col rischio di essere investiti. Erano sempre di più, una fila sterminata di gente  decisa ad esserci, ciascuno con la certezza ormai consolidata della propria identità.  Avevano tutti il loro nome e non si stupivano a sentirlo risuonare nei recessi della propria storia. C'era Agata, c'era Marcello. E c'era lui, Filippo. Erano pienamente individuati. La cosa non piaceva a nessuno,  nonostante ci fosse chi andava incontro al futuro con evidente più serenità, con maggiori e meritate garanzie. Si guardava le mani e le vedeva secche, asciutte. Disse, forte: “Filippo!”. Si chiese perché si trovasse in quelle condizioni. La domanda aveva una risposta che non gli era accessibile. Ormai era del tutto sradicato. Si chiese fino a che punto lo fosse allo stesso grado delle donne che si tenevano per mano, ad esempio. Loro, almeno, erano in due, si facevano compagnia. Si erano guadagnate un sostegno, da qualche parte, in qualche tempo. Siamo quello che abbiamo voluto essere. O no? Nuovi dubbi gli frullavano nel cervello, le domande si affastellavano più confuse e più stanche. In verità, si stava arrendendo. Si avvicinava poco per volta ad una rassegnata attesa. Non restava  che questo, che lasciarsi andare docilmente.
Si cominciò  ad intravedere la lunga fila dei caselli. Erano pedoni, ma in qualche modo ci si sarebbe presi cura di loro. Chi viaggiava in automobile aveva vantaggi e protezioni  impensabili. Loro invece erano i reietti. Sogghignò, guardando di sottecchi i colleghi che lo precedevano. Poi si volse alle spalle e vide che la processione non aveva fine. Piegò istintivamente le labbra in una smorfia di disprezzo.
Man mano che si avvicinavano erano  più numerosi e più a stretto contatto. Faticavano a mantenersi compatti, col rischio di esporsi pericolosamente. Così avvenne, infatti, per una creatura esile, che pareva non avesse mai respirato pienamente. Filippo aveva già intravisto il suo volto emaciato. La giovane sbandò uscendo di qualche passo dalla linea. Venne investita in pieno da un pulmann carico di viaggiatori impassibili, che continuò verso la stazione senza rallentare. Lei giacque a terra e la si vide ridursi lentamente in poltiglia. Si liquefaceva, via via raggrumandosi. Divenne una bolla instabile, sorta di grosso tuorlo che si gonfiava, facendosi trasparente, fino a scoppiare. Rimasero solo poche gocce sull'asfalto, a ricordare una delle reiette, a questo punto non più tale, viaggiatrice senza meta, sventurata senza sventura. Affacciatasi appena alla sua missione, senza sapere che era solo uno sbaglio, forse uno scherzo. In ogni caso, una necessità. 
I caselli ormai erano vicini. Si sentiva gridare, singhiozzare. Una risata maschile, offensiva, si stagliò nel clamore. Qualcuno bestemmiava. Una religiosa vestita di nero intonava un inno con voce acuta. Filippo volle guardarla in viso, conoscerla. Le arrivò alle spalle e la toccò. Lei si voltò spaventata, scorgendolo da una distanza incommensurabile. Le labbra violacee si strinsero serratamente. Era forte, sapeva quello che la aspettava, ma era pronta.
“Cosa vuoi?” Gli chiese, freddamente.
“Voglio vedere la faccia di chi è nelle mie condizioni, o quasi.”
“Merda,” fece lei e si voltò nuovamente, riprendendo a cantare energicamente.
La meta era prossima. La successione dei caselli si estendeva all'infinito e le automobili rallentavano formando  interminabili code. C'erano auto nuove scintillanti e altre vecchie e  scassate, con cofani piegati, portiere distrutte. C'erano quelle di lusso, lunghe e le spider. Dentro si intravedevano visi  inespressivi, gaudenti, disperati, celati dai vetri oscurati, in una corazza invincibile.
Alcuni dietro cantavano, forse per farsi coraggio, si sentì ancora esplodere la tracotante risata maschile. Una donna con un bambino, probabilmente madre e figlio,  si abbracciavano continuamente e piangevano, cercando inutilmente di sostenersi a vicenda. La paura segnava i loro volti,  nella debolezza e nel dolore. Un casello era ormai a pochi passi. Si vedevano delle braccia tendersi di volta in volta e ritirare il pedaggio, sotto forma di oboli estratti dalle bocche, dall'ano. Uno alla volta, spontaneamente, tutti tiravano fuori dal proprio corpo valori colorati, profumati, puzzolenti, splendenti. Se li sfilavano dalla gola, da sotto le ascelle. Con le mani scavavano dentro se stessi per estrarre quel bolo di doni e di scarti. A ritirarli ci pensava il signore in divisa dentro la cabina, corpulento, aiutato da un mingherlino dal pizzo grigio, che presiedeva ad una macchina miscelatrice dove la materia veniva gettata. Dal quel crogiolo provenivano odori e gorgoglii. Venivano poi riempiti  sacchi che degli inservienti trasportavano altrove, probabilmente in un magazzino nelle vicinanze.
Finalmente toccò a Filippo, tra rassegnazione e  sollievo.
Vide che dentro, in un angolo, sedeva una grossa donna nera, con un alto coloratissimo turbante. Si sventagliava per il caldo. E accadde qualcosa. La guardò supplichevole e lei ricambiò con un'espressione che lo rese incredulo. Per la prima volta, non si trattava di uno sguardo ostile. Anzi, poteva essere sicuro che quegli occhi comunicavano comprensione, dolcezza, nonché una vaga apprensione, forse una promessa di soccorso, una concessione fatta di nascosto. Era una donna autorevole, antica, che  aveva senz'altro conosciuto, ma non ricordava nulla.
Infilandosi le mani nel ventre dall'ombelico, anche lui ne estrasse rotoli di filamenti pastosi, cordame, matasse schiumose. Rovistò a lungo e c'era sempre ancora qualcosa da grattare via, da consegnare.
L'ometto dal pizzo grigio buttò tutto nella miscelatrice, con impazienza.
Passando oltre, sapeva che non avrebbe più rivisto l'austera, clemente donna nera.  Gli restava però dentro la sua muta consolazione.
Ora sarebbe uscito dall'autostrada. Si ritrovò in mezzo ad una folla divenuta silenziosa, col respiro stentato, in un'attesa sfinita. Nella foschia, al di là della volta biancastra del cielo, indovinava qualcosa, come l'ombra immensa di una o più teste, le mosse volubili di chi, scrutandoli,  armeggiasse tra i suoi giochi.  E in un lampo gli parve di riconoscere, con assoluto sconcerto, se stesso.
Quindi vide il mare. Non era molto distante, un mare terroso, mefitico, che tracimava. L'acqua stava avanzando furiosamente. Alcuni compagni furono subito trascinati via, Filippo li vide annaspare, divincolarsi in un ultimo tentativo di ribellione. La donna e il figlioletto vennero divisi da un'onda e tentarono invano di ricongiungersi. La risata volgare dell'uomo alle spalle finì col spegnersi in un gorgoglio d'annegato. Anche lui venne travolto. Era un'acqua tiepida, densa, avvolgente. Nel buio e nel calore finì di arrendersi. Ebbe la sensazione di chiudere gli occhi per sempre.
Si risvegliò sin troppo presto, al colmo del terrore. Il liquido stava defluendo intorno e dentro di lui. Non provava alcun senso di liberazione, ma un'angoscia intollerabile. E quella luce violenta... Iniziò allora a gridare con tutte le forze, in un pianto che si ripercuoteva nel passato e nel futuro, nella  sbigottita  confidenza con la  sua voce, una voce assai diversa, adesso, assai più acuta. Una voce sottile. Un vagito.
Infine, era al mondo.

1 commento:

  1. Racconto ben scritto e molto articolato. Di ampio respiro.
    G.S.

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