Sono l’unico ospite
fisso di questa prigione. Gli altri carcerati rimangono qui per un breve
periodo, poi se ne vanno.
Io no: sono
condannato a vita. Un tempo il nome delle condanne come la mia era ergastolo,
ma ora non hanno più bisogno di essere definite.
Io sono stato definito, invece, e nel modo peggiore.
Mi hanno considerato indegno di far parte del genere umano, indegno di vivere
una vita vera, al di fuori di queste mura.
Hanno appeso un cartello lampeggiante davanti alla porta
della mia cella, in modo che tutti quelli che varcano la soglia della prigione
lo sappiano: io sono indegno.
Tutti mi trattano con estrema gentilezza, come se,
oltre ad essere indegno, fossi anche un mentecatto. I secondini mi portano
libri e giornali, per aiutarmi a trascorrere le lunghe giornate solitarie; il
direttore mi accompagna personalmente nella saletta speciale riservata a me,
dove posso trastullarmi con l’olovisione e tanti giochi da tavolo; i medici mi
visitano ogni giorno, ridacchiando fra di loro senza farmi capire cosa si
dicono, però sono sempre cortesi e disponibili. Potrei chiamarne uno anche se
mi si spezzasse un’unghia, e so che accorrerebbe a confortarmi e a curarmi.
Eppure mi sento come un appestato dei tempi antichi:
nessun altro prigioniero può conversare con me per oltre mezz’ora al giorno, e
mai per due giorni di seguito; i secondini che si occupano del mio braccio, nel
quale sono solo, si avvicendano ad ogni turno, in modo che io non possa
rivedere lo stesso secondino se non dopo tre o quattro giorni.
Non riesco ad instaurare un rapporto di amicizia con
nessuno, qui dentro. Mi viene impedito dal regolamento; perciò la cortesia che
tutti esibiscono nei miei confronti mi sembra più gelida dei ghiacci
dell’Antartide, più formale di una cena con il Presidente Supremo degli Stati
Uniti d’Europa.
La mia vera condanna non è l’ergastolo, ma la
solitudine.
Il giorno in cui Yarno Sulik ricevette il Premio Nobel
per la Pace tutto il mondo esultò. Nessuno più di lui ne aveva diritto: grazie
alla sua geniale intuizione, non soltanto la guerra con i suoi orrori, ma anche
i crimini, comuni o efferati, e la follia che li causa o ne è conseguenza erano
stati debellati.
Il mondo conosceva la vera pace, finalmente, grazie a
Sulik. Dopo millenni di lotta, distruzione, conflitto e beghe di ogni genere,
l’umanità poteva vivere in pace.
Ogni tendenza alla guerra, alla battaglia, alla
destabilizzazione dell’ordine costituito; ogni pulsione verso il delitto, il
furto, la truffa o altri crimini più o meno efferati, poteva essere stroncata
sul nascere. E se, malauguratamente, il gesto infame fosse già stato
perpetrato, il suo autore poteva ritrovare la pace interiore nel giro di pochi
giorni, permettendo alla società intera di ritrovare la pace esteriore.
Il nome di questa sorta di bacchetta magica era
Harmonia. Se il suo autore non fosse stato un musicoterapista oltre che un
musicista, forse le proprietà della sua sinfonia non sarebbero state scoperte
così presto. Invece Sulik, consapevole che la sua opera aveva una marcia in più
rispetto alle altre sinfonie, che racchiudeva qualcosa che andava oltre la sua
incomparabile bellezza, la sperimentò quasi subito sulle persone che si
rivolgevano a lui per essere curate.
Organizzò delle sedute individuali, piazzando il
paziente al centro di una stanza perfettamente rotonda, e diffondendo la sua
Harmonia da ogni punto della camera, in modo che l’uomo, o la donna, la
assorbisse da tutte le direzioni. La genialità della sinfonia consisteva
appunto in questo: la musica, in un alternarsi di crescendo e diminuendo,
riverberava nel corpo del paziente e veniva a poco a poco assorbita dal suo
cervello, fino ad infondere in esso una sensazione di pace estrema.
Coloro che avevano sperimentato i suoi effetti erano
concordi nell’affermare che la sinfonia di Sulik era diversa da tutte quelle
che l’avevano preceduta. Non c’era nulla di più sublime al mondo, dicevano.
Risvegliava i loro sentimenti migliori, affermavano.
E avevano ragione. Il musicoterapista cominciò a
ricevere nel suo studio, oltre ai consueti pazienti colpiti da dolorini vari,
alcune persone affette da malattie mentali, portate lì dai loro familiari.
Uno di essi, il primo uomo al mondo a ricevere un vero
e proprio trattamento, durato tre settimane, era considerato incurabile: alle
manie suicide alternava quelle omicide. Era tenuto costantemente sotto
sedativi, per evitare che nuocesse agli altri o a se stesso. Una volta
terminata la terapia, però, smise di attentare alla sua vita e a quella altrui,
non ebbe più bisogno di sedativi né di altre droghe, e rifiorì anche
fisicamente.
Yarno, con sua immensa gioia, aveva scoperto che
Harmonia curava allo stesso tempo lo spirito e il corpo, penetrandovi a poco a
poco e rigenerando sia l’uno che l’altro.
***
A volte vorrei essere nato un secolo fa: sarei stato
condannato ugualmente, ma almeno avrei avuto dei compagni di cella con cui
dividere le giornate, inveire contro i secondini e organizzare improbabili
piani di fuga. Se soltanto i miei guardiani fossero meno cortesi, avrei
qualcosa di concreto di cui lamentarmi, e otterrei un po’ di solidarietà da
parte degli altri carcerati, quelli temporanei.
La situazione in cui mi trovo mi fa rabbia, e quando
la mia rabbia esplode tutti si comportano in modo ancora più gentile del
solito, nel tentativo di rabbonirmi: il direttore mi lascia visitare il suo
ufficio, l’unico luogo senza sbarre in cui sono ammesso; i secondini mi portano
delle leccornie, pagandole di tasca loro; i medici decretano che ho bisogno di
ricaricarmi di energia e mi fanno trascorrere interi pomeriggi nel solarium.
Fingo che la rabbia si plachi per accontentarli, ma
dentro di me ribolle il desiderio di ribellarmi a loro, di urlare fino a
spaccare i loro timpani, di sbattere quelle loro facce sorridenti contro il
solido muro della mia prigione.
Sarebbe più umano condannarmi a morte, ho detto un
giorno. Mi hanno guardato con aria di compatimento, e i loro sorrisi si sono
allargati ancora di più mentre si affrettavano a spiegarmi che la pena di morte
è stata abolita tanto tempo fa perché costituiva una tortura indicibile.
E quella che infliggete a me non è tortura?, ho
chiesto. Sono rimasti sgomenti per un attimo, poi mi hanno portato nella
saletta dei giochi, per distrarmi. Pensano di avere sempre ragione, e non
riesco a fare o dire niente che li smuova da questa convinzione: dopotutto, il
matto sono io.
***
Il giorno in cui
Yarno Sulik venne ucciso tutto il mondo pianse. Fu un dolore indicibile per
ogni singolo uomo e donna del pianeta, e una perdita incommensurabile per
l’umanità.
La sua sinfonia era ormai utilizzata in ogni angolo
della terra; le apposite camere rotonde, indispensabili per la terapia, erano
state costruite negli studi medici, negli ospedali, nelle prigioni e persino
nelle case private; Harmonia era diventata il sottofondo musicale della vita di
ogni essere umano che calcasse il suolo del pianeta.
Ai solenni funerali di stato del grande
musicoterapista che aveva rivoluzionato la storia dell’umanità partecipò una
folla immensa, e una ancora più immensa li seguì in olovisione. Piansero tutti,
all’unisono, per l’incolmabile perdita subita.
Sulik, infatti, non aveva ancora compiuto i 50 anni, e
stava lavorando ad una serie di variazioni alla sua sinfonia che avrebbero
permesso anche agli animali di usufruire dei benefici effetti che essa
procurava sia all’anima che al corpo.
I discepoli del grande inventore si misero subito
all’opera per continuare i suoi esperimenti, ma l’uomo comune non poté fare a
meno di pensare che era accaduta una terribile disgrazia, e che niente e
nessuno avrebbe potuto ripagare l’umanità della morte del grande Yarno.
***
Ho chiesto delle scarpe da ginnastica, urlando che
sono stufo dei mocassini monopezzo in dotazione. Nessuno me le ha date: hanno
capito subito che avrei usato i lacci per tentare di soffocarmi. Per lo stesso
motivo non ho mai avuto un sacchetto di plastica, un temperino o una forbicina:
mi lasciano usare quelle con la punta arrotondata, da lattanti, soltanto in
presenza di un secondino.
Se almeno l’aria della prigione non fosse filtrata
così bene, liberata dalla impurità e dalle spore, potrei sperare di prendere
una malattia seria e morire, finalmente. Invece la mia salute, peraltro ottima,
è tenuta sotto controllo dall’equipe medica della prigione, che si allarma
anche se starnutisco e corre subito ai ripari.
Vogliono che stia bene, per poter marcire fino alla
fine dei miei giorni inutili in questo edificio spazioso e arioso, bene
illuminato e costruito secondo i principi dell’armonia universale.
Ieri ho avuto una crisi: ho cominciato a sbattere la
testa contro il muro imbottito della mia cella. Mi sentivo soffocare, dalle
premure e dalla cortesia. Naturalmente, la loro reazione è stata ben diversa da
quella che avrei voluto affrontare: mi hanno preso, di peso, e trasportato in
quell’odiosa stanza rotonda in cui mi inondano di vibrazioni sonore fino a
intontirmi. Sono costretti a legarmi alla sedia senza spigoli che sta al
centro, ma non si arrendono.
È per il mio bene, dicono. E io, pur di non essere
costretto a restarci troppo a lungo, fingo di essermi calmato.
L’unica cosa che potessi fare per la mia pace mentale
l’ho già fatta. Ed è per quella che mi hanno condannato alla galera a vita.
Io ho assassinato a sangue freddo il loro eroe, Yarno
Sulik. In un giorno d’estate, mentre andava a trovare una sua ex paziente, gli
ho infilato nel cuore un tagliacarte, fino all’elsa. È spirato mentre lo
trasportavano in ospedale.
Io ero già qui, in questa prigione che odio come ho odiato
l’uomo che ho ucciso. E che continuerò ad odiare, finché avrò un alito di vita.
Lui e la sua maledetta Harmonia. Perché non ha nemmeno pensato a quelli come
me, che non possono usufruire della sua invenzione.
Se sono diventato un assassino, l’uomo più odiato
della terra, è per un motivo soltanto: sono sordo. Irrimediabilmente,
incurabilmente sordo.
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