martedì 18 marzo 2014

IL LIBRO di Fabio Calabrese

Il gorgo risucchiò con forza Phil Carter verso il basso. Per quanto avesse cercato di allontanarsi dal punto del naufragio nuotando con il maggior vigore che gli era possibile, sapeva di non essersi allontanato abbastanza per portarsi fuori dal risucchio della nave che affondava.
Ebbe l’impressione di scendere sempre più giù verso gli abissi.
Là sotto, però, non sembrava affatto sgradevole: tutto era tranquillo, c’era una pace che contrastava con le ondate, le raffiche di pioggia gelida, le folate di vento che frangevano la superficie.
Per qualche istante, Phil Carter pensò di lasciarsi andare nella tranquillità e nella pace.
Fu l’improvvisa fame di aria a riscuoterlo dal torpore, i polmoni brucianti che sembravano essersi riempiti di scintille e la sensazione spasmodica nella gola. Con uno sforzo tremendo raccolse le energie che ancora aveva per un guizzo disperato.
Prese a risalire verso l’alto con tutti i muscoli provati che si ribellavano e che gli parevano dolere in ogni oncia, e lo sforzo per resistere all’istinto di aprire la bocca e dilatare le narici finché non fosse riemerso in superficie; sapeva che se avesse ceduto a quell’istinto atavico, sarebbe stata la fine.
Non credeva di essere sceso tanto in basso, la risalita gli parve innaturalmente lenta.
Riemergere, rimettere la testa sopra le onde fu come un'esplosione, con l'aria che gli si precipitava nei polmoni, anche se là fuori era l'inferno tra ondate e raffiche di vento stizzose miste a scrosci di pioggia e spruzzi di acqua salmastra.
Si guardò disperatamente intorno alla ricerca di qualche compagno superstite o almeno di un relitto, qualcosa a cui aggrapparsi, ma non riuscì a scorgere altro che muraglie torreggianti di acqua livida.
Lottò con tutte le sue forze per rimanere a galla, per tenere la testa fuori dall'acqua, per continuare a respirare, ma si accorse che stava perdendo rapidamente le energie, anche se gli parve che l'uragano attenuasse man mano la sua furia. Ormai a sorreggerlo, a tenerlo a galla era soltanto il suo animale istinto di sopravvivenza che spremeva ogni stilla di forza dal suo corpo martoriato.
Continuò fino a quando, paralizzato dalla stanchezza, non fu costretto a lasciarsi andare all'abbraccio mortale delle acque.
* * *
Phil Carter aprì gli occhi riemergendo da un gorgo buio, ma ora il gorgo era soltanto dentro la sua mente. Si accorse di essere disteso su una superficie solida, e non sul fondo dell'oceano, ma all'aria aperta.
La seconda sensazione fu di stupore: non riusciva a capire per quale ragione fosse ancora vivo.
La terza fu il dolore che gli procuravano alla schiena gli spuntoni di scabra roccia corallina sui quali era disteso.
Con fatica, si rizzò a sedere, e poi molto lentamente si alzò muovendo pian piano le giunture indolenzite. Si guardò intorno: non riusciva a credere di essere ancora vivo, doveva aver avuto una fortuna sfacciata. Ricordava di aver lottato per molte ore con la furia degli elementi per non annegare, poi non ce l'aveva fatta più e il mare l'aveva ghermito, ma per depositarlo come altri relitti su di una spiaggia.
Ciò poneva una serie di domande che gli si affollavano nella mente. Dove si trovava? C'erano altri superstiti? C'era qualche mezzo per chiamare soccorsi?
Si trovava su di un atollo, questo era chiaro, uno dei tantissimi, probabilmente non tutti cartografati e neppure contati, che variegavano la superficie dell'Oceano Pacifico.
Il cielo era limpido dello smagliante colore dei tropici e non c'era più la più piccola nuvola; le tracce residue dell'uragano erano tutte nei relitti che il mare aveva buttato sulla battigia. Phil Carter ignorava quanto tempo fosse giaciuto sulla battigia in stato di incoscienza, ma dovevano essere passate diverse ore.
Prese a camminare, dapprima con lentezza per vincere l'indolenzimento delle membra, poi con passo man mano più spedito.
La spiaggia sulla quale le onde l'avevano sbattuto faceva parte di un'isola, e non molto grande. Camminando senza affrettarsi troppo, ne fece il periplo in alcune ore. Non si trattava esattamente di un atollo, perché dalla laguna interna emergeva un po' di suolo, probabilmente roccia vulcanica, ricoperto da un folto bosco di palme.
La maggior parte degli atolli del Pacifico, Phil Carter lo sapeva, era costituita da barriere coralline che si erano formate attorno ad antiche isole vulcaniche poi sprofondate. Sui residui del corallo morto, poi si depositava un po' di humus fatto di pulviscolo trasportato dal vento e da residui lasciati dal mare sulla battigia; non era molto, ma permetteva alle palme da cocco di attecchire e prosperare.
Le palme e un po' di pesca potevano fornire a eventuali naufraghi il nutrimento indispensabile per sopravvivere, ma il grosso problema era la mancanza di acqua potabile. Phil Carter aveva sentito raccontare più di un caso di persone che erano morte di sete dopo essere naufragate su di un atollo. Guardando il folto palmeto dell'isoletta interna, Phil Carter si sentì sollevato: era certo che lì qualche fonte di acqua dolce dovesse per forza esserci, ma ne riservò la ricerca a più tardi: gli parve più urgente accertare se vi fossero altri superstiti del naufragio, e se l'uragano avesse gettato sulla riva dell'isola rottami recuperabili.
Non trovò traccia di nessun altro essere umano né vivo né morto, in compenso rinvenne parecchi relitti, soprattutto assi di legno che potevano tornare utili per costruirsi un rifugio o una zattera. Tra i relitti c'era anche una cassetta metallica, l'aprì: all'interno c'era un libro avvolto da una busta di plastica che gli aveva consentito di sopravvivere quasi indenne al naufragio. Phil Carter l'aprì e lo sfogliò vedendo con delusione che si trattava di un libro scritto in cinese; non conosceva né la lingua ne il complesso e bizzarro alfabeto. Lo lasciò dove stava.
La laguna, scoprì, non era molto profonda: tra la barriera corallina e l'isola all'interno, l'acqua non arrivava a più di un metro; poté attraversarla senza nuotare, togliendosi le scarpe e arrotolando i calzoni. Meglio così, lì si poteva pescare e raccogliere molluschi senza correre pericoli per gli squali.
L'isoletta interna aveva una forma all'incirca rotonda o, considerate le tre dimensioni, approssimativamente conica con un cono molto, molto schiacciato, un po' come un cappello cinese. Phil Carter trovò quasi sul punto più elevato una sorgente che sgorgava fra le radici delle palme e da cui un rigagnolo scendeva serpeggiando fino alla laguna.
Decise che quello era il punto migliore per costruirsi un rifugio, poiché non sapeva quanto si sarebbe prolungata la sua permanenza sull'isola.
Ritornò sulla barriera corallina e recuperò quante più assi, pezzi di legno e scampoli di cordame poteva. Fece diversi viaggi avanti e indietro, fino a quando non gli parve di aver recuperato abbastanza materiali per costruirsi una capanna; non gli occorreva molto di più: gli uragani come quello che aveva affondato la nave erano rari e, sempre che non accadesse di nuovo un caso del genere, a quella latitudine il clima era generalmente caldo e senza differenze stagionali avvertibili.
Dopo questo lavoro, decise di concedersi il primo pasto sull'isola dopo aver raccolto alcune noci di cocco e catturato alcuni granchi del cocco.
Accendere un fuoco si dimostrò un'impresa meno difficile di quel che aveva pensato: tolse la lente dal quadrante della sua bussola (che tanto si sarebbe rivelata inutile per esplorare l'isola dalle modeste dimensioni) e la usò per concentrare i raggi solari su di un mucchietto di fibre di palma secche.
Costruirsi un riparo si rivelò un'impresa ben più ardua. Sistemò le assi fissandole coi cordami che aveva raccolto in modo da formare quattro “pareti” utilizzando come “spigoli” e “pilastri” quattro palme i cui tronchi erano casualmente disposti più o meno come i vertici di un rettangolo, poi ci mise un “tetto” di fronde di palma. Lavorò fino a tarda notte, e il risultato finale era più simile a un covo di animali che a un'abitazione di esseri umani, ma per il momento si sarebbe accontentato anche perché, pensava, doveva tener duro solo fino all'arrivo di eventuali soccorsi. Stanco morto, alla fine si buttò su di un giaciglio di foglie di palma che era l'unico “arredo” della sua “casa”.
* * *
Quando Phil Carter si svegliò iniziando la sua seconda giornata sull'isola, la prima cosa che avvertì furono i morsi imperiosi della fame. Per fortuna, si era lasciato da parte un po' di noci di cocco e di polpa di granchio abbrustolita.
Una volta calmata la fame, arrivò il momento peggiore. Certo, poteva sopravvivere indefinitamente, ma quando sarebbero arrivati i soccorsi? Cosa ne avrebbe fatto del suo tempo su quella piccola isola una volta risolte le necessità immediate della sopravvivenza?
Si soffermò a fare un breve bilancio della vita che aveva condotto fin allora, bilancio che gli sembrò vuoto e inconcludente: se n’era andato di casa molto giovane, tecnicamente era fuggito, perché all’epoca era ancora minorenne: voleva girare il mondo, non starsene ancorato in un posto, aveva fatto molti lavori saltuari passando da un luogo all’altro. Era stato commesso, lavapiatti, aveva persino portato a spasso cani fino a quando non era diventato un marinaio. Aveva viaggiato su carrette un po’ in tutto il mondo, perlopiù vecchi ruderi che issavano la bandiera liberiana, panamense o di altre nazionalità di comodo.
Aveva guadagnato o vinto al gioco molto denaro, e altrettanto ne aveva sperperato o perduto alle carte o alla roulette. Era stato con molte donne, ma con nessuna aveva avuto una relazione più lunga di una settimana.
Una vita randagia in cui non aveva costruito nulla di stabile, la cui vuotezza ora gli pesava; anzi, man mano era sceso a livelli più infimi, e si era ritrovato a scorrazzare sulle vecchie carrette con equipaggi composti prevalentemente da cinesi o da altri asiatici su e giù per il Pacifico trasportando merci spesso di dubbia liceità.
Si ripromise che quando fossero arrivati i soccorsi e fosse tornato alla civiltà, lui avrebbe cambiato completamente stile di vita, ma per ora il risultato era vuoto davanti e vuoto dietro le spalle.
Seguendo un impulso che non avrebbe saputo ben definire, uscì dalla capanna, attraversò l’acqua bassa della laguna e si recò sulla barriera corallina esterna, nel punto dove il fortunale che aveva provocato il naufragio aveva buttato a riva i relitti della nave.
Ritrovò la cassetta metallica con il libro. Lo raccolse e lo sfogliò.
Asciugandosi, le pagine inumidite si erano un poco arricciate, ma non era un danno grave, probabilmente era possibile riportarle alla forma primitiva tenendole compresse sotto un peso. Gli era venuta in mente un’idea pazzesca, forse null’altro che un’assurdità, ma cosa aveva da perdere a provarci?
La scrittura cinese, lo sapeva, non era alfabetica come quella latina usata nel mondo occidentale, era ideografica, cioè ogni segno esprimeva una parola, un concetto, un oggetto, un nome; praticamente per indicare la parola “uomo” si rappresentava un uomo, per la parola “cane” il disegno di un cane, e quello di una casa per la parola “casa” e così via. Col tempo gli ideogrammi si erano sempre più stilizzati e deformati, ma forse con un’osservazione attenta si poteva imparare a coglierne il significato.
Il bello delle scritture ideografiche era che per comprendere i significati scritti, a differenza di quelle alfabetiche, non era necessario conoscere la lingua e neppure sapere quali suoni corrispondessero a quali segni, così come non occorre conoscere la lingua di un artista per ammirare la sua pittura o la sua scultura. Phil Carter aveva sentito dire che un tempo, quando s’incontravano cinesi del nord e del sud che parlavano dialetti troppo diversi per essere reciprocamente comprensibili, comunicavano tracciando ideogrammi sul palmo della mano, come una specie di linguaggio per sordomuti.
Prese il libro e si mise a sfogliarlo. Dopo un poco lo rimise giù. Quei segni, quei tratti contorti e spezzati, non gli dicevano nulla.
* * *
Nei giorni seguenti Phil Carter non prestò molta attenzione al libro che aveva accantonato in un angolo. C'erano molte cose da fare: doveva sistemare la sua capanna meglio possibile, doveva raccogliere una scorta di acqua e di viveri, che erano prevalentemente noci di cocco, si esercitò ad accendere il fuoco. Con una lunga scheggia di legno e uno spuntone di corallo acuminato come punta, si fabbricò un arpione rudimentale ma che si rivelò piuttosto efficace per trafiggere i pesci che sguazzavano nelle acque basse della laguna interna.
In realtà, si accorse, sull'isola non c'erano pericoli e neppure problemi di sopravvivenza immediata. Il cibo non mancava, e neppure l'acqua. Il clima era costantemente mite, bastava evitare di rischiare un'insolazione standosene all'aperto nelle ore più calde della giornata.
Il boschetto di palme si rivelò un'ottima fonte di cibo: non solo le noci di cocco, ma anche i grossi granchi del cocco dalle abitudini terricole, che andavano ad aggiungere il loro apporto proteico a quello degli altri crostacei e dei molluschi di cui erano piene le acque basse della laguna.
Era trascorsa una settimana dal naufragio, quando Phil Carter si accorse di avere praticamente esaurito tutte le sue risorse per trascorrere il tempo. Nuotare nelle acque della laguna (quelle esterne erano troppo spesso frequentate da pinne triangolari), prendere il sole sulla spiaggia corallina, esplorare il boschetto di palme nel centro dell'isola, sistemare meglio che poteva la capanna che si era costruito con gli scarsi materiali a disposizione, raccogliere noci di cocco (una noce di cocco svuotata, aveva scoperto, era un ottimo recipiente), pescare, dedicarsi alla raccolta di molluschi e crostacei, scoprì, erano tutte attività che esaurivano presto la loro attrattiva. In più, non sapeva quanto tempo gli sarebbe toccato rimanere sull'isola prima del passaggio di qualche nave.
Riprese in mano il libro che aveva lasciato in un angolo della capanna per pura disperazione di noia. Sforzandosi di esaminare con attenzione uno per uno gli ideogrammi disposti in lunghe colonne verticali, gli parve quasi di cominciare a intravvedere il significato di qualcuno di essi: quel segno era forse una figura umana estremamente stilizzata, quell'altro riproduceva forse le quattro mura di un edificio, quell'altro ancora indicava dell'acqua o forse il movimento. Piccole radure di significato che emergevano qua e là in una foresta di segni contorti e indecifrabili.
Si ricordò che i cinesi usavano leggere i libri sfogliandoli da quella che per un occidentale era l'ultima pagina, e gli sembrò che la sua comprensione facesse un passo avanti, ma sempre troppo poco.
Fu solo dopo tantissimo esercizio che gli parve di riuscire a interpretare due o tre segni in fila, un abbozzo di frase. Lentamente, molto lentamente, gli sembrò di cominciare a intravedere un senso compiuto.
* * *
Phil Carter aveva perduto il senso del tempo trascorso, la sua vita solitaria sull'isola si era ormai assestata su di una routine consolidata. La mattina e la sera andava a pesca o a raccogliere noci di cocco o molluschi sulla barriera corallina, o faceva scorta di acqua (le noci di cocco svuotate erano ottimi contenitori naturali), si preparava da mangiare e consumava i pasti. Nelle ore più calde, quelle centrali della giornata, si dedicava invece alla decifrazione, alla lettura del libro.
Se riconoscere il significato di certi ideogrammi che si riferivano a oggetti comuni era abbastanza semplice, alcuni gruppi ricorrenti di segni – che dovevano essere nomi propri – erano impossibili da decifrare; se la cavò assegnando loro dei valori sillabici arbitrari.
Non che, in ogni caso, quel testo fosse facile da decifrare, ma in un certo senso era meglio così, perché l'idea di terminare la lettura del libro prima che una nave, qualcuno, venisse a toglierlo da lì, e affrontare senza alcuna compagnia, neppure quella di quelle pagine dagli strani caratteri, una lunga e vuota attesa, lo sgomentava.
Non aveva idea di quanto tempo fosse già trascorso dal naufragio, ma aveva dovuto accettare l'idea che, privo di comunicazioni con il mondo, perso su di un minuscolo atollo, comunque il suo salvataggio non sarebbe avvenuto in tempi brevi.
Le storie contenute in quel libro erano una sorta di tuffo in una mitologia arcana, qualcosa che per un occidentale era poco familiare e imprevedibile.
Stimare il tempo trascorso gli diveniva di giorno in giorno più difficile, anche perché il clima dell'isola non era soggetto a mutamenti stagionali, ma poco per volta aveva finito per fare del libro e della sua scrittura enigmatica il suo vero centro d'interesse. La lettura lo sottraeva a quel mondo limitato di pochi gesti ripetuti all'infinito: il cibo, il sonno, andare alla fonte per riempire d'acqua i gusci delle noci di cocco, nuotare nella laguna; per proiettarlo in un universo di sogno, una terra fantastica popolata di personaggi favolosi dove era possibile vivere le avventure più incredibili.
Pian piano, i luoghi e i personaggi del libro cominciarono a popolare anche i suoi sogni. Lentamente, una quieta serenità che non aveva mai conosciuto nella sua vita precedente, diventò il tono dominante delle sue giornate solitarie; così non si accorse che gli anni passavano.
La nave era una delle tante carrette di solito male in arnese che percorrevano le acque del Pacifico. Non che la cosa importasse molto, ma batteva la bandiera di una società di comodo liberiana, la maggior parte dei membri dell'equipaggio però erano cinesi, c'era qualche malese, qualche vietnamita e un paio di marinai di Singapore. Erano approdati sull'isola alla ricerca di una fonte d'acqua, perché si erano accorti che le riserve a bordo erano scarse.
La nave aveva ormeggiato al largo, piuttosto distante dall'anello di corallo, ed era stata calata in acqua una scialuppa che stava cercando un varco nella barriera corallina perché, se mai era possibile trovare una fonte di acqua dolce, doveva trovarsi nella parte interna, rocciosa dell'isola, ma il nostromo era certo che ci dovesse essere, perché altrimenti non sarebbero cresciute le palme.
La scialuppa approdò sull'isola sulla breve spiaggia davanti al palmeto e gli uomini scesero, erano il nostromo e una mezza dozzina di marinai.
“Signore, guardi!”
La voce del marinaio richiamò il nostromo. In mezzo alle palme c'era una rudimentale capanna fatta forse con le assi di un antico naufragio.
Gli uomini entrarono scostando una stuoia sbrindellata fatta di foglie di palma.
Su di un pagliericcio fatto alla bell'e meglio c'era il cadavere di un uomo. Videro che si era mummificato senza corrompersi. In quel clima caldo e ordinariamente secco, a volte poteva succedere: poteva essere lì da anni o da decenni senza essersi alterato se non poco o nulla.
Il volto rinsecchito era circondato da una corona di capelli e di barba bianchissimi, i lineamenti rugosi lasciavano intendere che l'uomo si fosse spento a un'età molto tarda, e anche questo era un fatto insolito – pensò il nostromo – a meno che non si fosse messo per mare a un'età avanzata, questo faceva pensare che l'uomo, forse sopravvissuto a qualche naufragio, fosse rimasto a consumare la sua vita sull'isola per decenni.
L'uomo era morto stringendo convulsamente fra le mani un libro.
Il nostromo allungò le mani e lo staccò con un certo sforzo da quelle incartapecorite del cadavere.
Il libro era scritto in cinese; altra stranezza, perché i lineamenti del morto facevano pensare a un bianco, un occidentale, e gli occidentali di solito il cinese non lo conoscevano.
Il nostromo sfogliò quelle vecchie, fragili pagine.
Era un vecchio libro contabile con l'indicazione delle quantità di merce caricata e scaricata nei diversi porti e dei noli incassati da una nave con ogni probabilità scomparsa da molto tempo.
“Mi domando”, disse a voce alta, “Cosa avrà potuto trovarci d'interessante quest'uomo”.

3 commenti:

  1. Storia interessantissima. Scrittura come sempre gradevole. Stile impeccabile.

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  2. Bel racconto, quello di Fabio Calabrese.
    G.S.

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  3. Bel racconto, d'ampio respiro, dal carattere avventuroso. Fa infatti pensare a Robinson Crusoe. Un uomo si è miracolosamente salvato da un naufragio ed è approdato su un atollo corallino in pieno oceano Pacifico. Situazione classica ma sempre avvincente e suscitatrice di curiosità. Come riuscirà, infatti a sopravvivere?
    L'impostazione classica e omologata della narrazione lascia il posto all'inserimento graduale di un'incognità. Riuscirà il povero naufrago a decifrare un libro in caratteri cinesi che ha ritrovato al momento dell'approdo sulla terra ferma? Il tempo per lavorarci sopra ce l'ha, eccome. Passano infatti i mesi, gli anni... e questo suo passatempo rompicapo lo accompagna.
    Poi, con un bel cambiamento del punto di vista narrativo, assistiamo al ritrovamento del povero naufrago. Ne è passato del tempo e lui giace lì, con i capelli bianchi e il libro in caratteri cinesi accanto. E allora il piccolo ma spettacolare colpo di scena si carica di ironia un po' beffarda. Mi è piaciuto.

    Giuseppe Novellino

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