venerdì 2 agosto 2013

PALLA A CENTRO di Giuseppe C. Budetta


In estate, giocavamo a pallone sulle aiuole davanti agli edifici INA-CASA di Napoli est. La scuola era finita e liberi dai compiti, potevamo giocare a pallone dalla mattina alla sera con l’unica interruzione del pranzo a mezzogiorno, quando le nostre madri ci chiamavano dai balconi. A furia di giocare, l’erba del prato era scomparsa, lasciando il posto alla polvere che si attaccava alle nostre magliette sudate. Coi passi, contavamo quanti metri dovesse essere larga ogni porta che per paletti aveva una bassa pila di pietre tufacee. Allestite le porte, nessuno si abbassava a fare il portiere. Di solito, erano i più piccoli ad essere piazzati in porta, oppure disposti a cerchio, si faceva il tocco. Si passava al conteggio: uno, due, tre…L’ultimo ad essere toccato restava per il primo tempo in porta. Nel secondo tempo, subentrava un altro, o restava lo stesso con la promessa che nella prossima partita avrebbe giocato all’attacco.
Tutti volevano fare il centravanti di sfondamento, od in alternativa l’ala destra come Garrincha del Brasile. L’ala sinistra era meno ambita fino a che non cominciarono ad apparire in tivù grossi bomber che dalla sinistra del campo facevano favolosi gol, come Gigi Riva. Negli anni Settanta, eravamo più grandi e giocavamo in un vero campo sportivo, con le linee a bordo campo, quelle per l’off side, gli angoli per il corner e la chiazza rotonda per i rigori. Agli estremi, c’erano vere porte con le reti. Giocavamo nel campo sportivo dietro la vicina chiesa, partecipando ai tornei rionali con la coppa placcata d’oro per la squadra vincente. C’era un arbitro col fischietto, oltre ai due portieri titolari con la divisa nera ed il numero uno, stampato sulla schiena. C’era la foto dell’intera squadra prima del fischietto d’inizio e quelle scattate in azione, durante la partita. A volte, c’era uno sparuto pubblico o un gruppo di ammiratrici a bordo campo.
Invece negli anni Sessanta, eravamo alunni delle medie. Giocavamo nelle aiuole davanti al palazzo e nessuno voleva stare in porta. Difficile era anche affidare a qualcuno il ruolo dei terzini. Ognuno era convinto di essere un centravanti di sfondamento come in una squadra di serie A. Pensavamo a Sivori, Pelé do Nascimento, Mazzola (che spesso faceva la mezz’ala destra), Eusebio, Luis Vinicio, o uno più alla portata come Traspedini…Volevamo essere come loro: dei veri centravanti di sfondamento. Chi aveva la palla al piede non la passava e se l’azione sfumava, i compagni di squadra gli gridavano ch’era troppo individualista ed avrebbero fatto anche loro così, non passandogli più il pallone.

Angelino abitava al terzo piano, scala B ed aveva il pallone di proprietà. Se non lo vedevamo scendere in cortile, andavamo a bussare a casa sua. Rispondeva al citofono una voce femminile: “Chi è?”
A gara, impetravamo: “Può scendere per favore Angelino?”
Spesso, era la sorellina a troncare le querule richieste con un secco no. Di conseguenza, gridavamo da giù: “Angelinooo, scendi. Porta il pallone…”
Accadeva che si facesse la questua per il pallone che correvamo ad acquistare alla merceria di don Michele, nel vicino Rione Santa Rosa. Erano palloni color arancione e costavano sulle 50 lire. Se si bucavano su una scaglia di vetro, si potevano gonfiare con la siringa, occludendo la bucatura col mastice: la colla filante per le gomme delle bici.
Giocando tutti nel ruolo di centravanti, accadevano le ammucchiate presso una delle due porte, come nel rugby. Il pallone rimbalzava qua e là tra la selva delle scarpe scalcagnate. All’improvviso, qualcuno riusciva a sferrare contro la porta avversaria il tiro risolutivo che quasi mai il portiere parava. Esplodeva il grido trionfante: GOL! Nell’accanita baruffa, non si capiva chi fosse stato l’autore del tiro. Qualcuno chiedeva: “Chi ha segnato?”
L’autore del gol levava le mani al cielo, dicendo con orgoglio: “Io… Io ho segnato.”
Qualcuno contestava: “E’ stato autogol…”
Un altro tagliava corto: “E’ gol lo stesso.”
Uno portava il conteggio e gridava: “Due a zero. Palla a centro.”
Qualcun altro cercava di contestare il gol perché in fuorigioco ed allora quello che aveva segnato di forza s’impadroniva del pallone, minacciando di sospendere la partita.
Per la squadra perdente, la colpa rimbalzava sul portiere, rimasto impalato come un babbeo e senza tuffarsi nella polvere, intercettando a volo il tiro. Qualcuno gridava stronzo al compagno di squadra perché non manteneva le marcature strette. L’altro si riteneva un incompreso e rispondeva: “Stronzo sei tu.”
Ci si spintonava, mentre la squadra che stava vincendo se la rideva e faceva sberleffi. I perdenti si convincevano a mettere la palla al centro col desiderio della riscossa, mentre l’altra squadra si disponeva alla difesa, ma attenta al contrattacco. Le ali e le mezz’ali ansimavano, piegate con le mani sulle ginocchia., aspettando d’intercettare i passaggi di palla. Si disponevano le marcature strette che poco dopo nessuno rispettava. Ripreso il gioco, cominciavano i passaggi veloci, fino a portarsi davanti ad una delle due porte. Avveniva una nuova baruffa di cosce e gambe impolverate. Il pallone gironzolante frenetico tra le scarpette dei molti centravanti di sfondamento. Dal CHAOS, usciva il tiro in porta, imparabile, secondo il portiere. Seguiva il grido trionfante:
“Gol. Tre a zero. Palla a centro.”
I perdenti sbottavano: “Figli di zoccola.”
Correvano le parolacce contro le schiappe per aver fatto segnare agli avversari il terzo gol. Il povero portiere non ne poteva più. Tre gol subiti erano troppi. Mandava affanculo i suoi ed abbandonava il polveroso campo.


2 commenti:

  1. Non è propriamente un racconto fantastico, ma sicuramente un bel racconto.

    RispondiElimina
  2. Infatti mentre leggevo, aspettavo con ansia il finale fuori dal comune. Chissà, magari atterra un ufo e l'alieno mangia il pallone.
    Un bel racconto comunque. Tra l'altro mi piaccioni i racconti calcistici d'annata.
    Molto bello.

    Antonio Ognibene

    RispondiElimina