martedì 17 ottobre 2017

BOTTINO DI GUERRA di Fabio Calabrese

Ian McDowell smosse la terra in modo da ricoprire i semi che aveva piantato nel terreno. Non era un agricoltore esperto, non si era occupato mai molto nemmeno di giardinaggio, ma quel lavoro gli toccava. Doveva farlo. Prese l'annaffiatoio e bagnò la terra smossa.
Su questo punto aveva avuto una discussione con il professor Wilson. Quelli erano semi che venivano dal deserto, ma secondo il professore, l'ultima volta che le piante di quella specie erano germogliate, la regione non era affatto desertica, e quei semi avevano bisogno di acqua.
L'uomo non si soffermò a contemplare il proprio lavoro, si avviò verso il fondo del giardino, dove aveva legato Wolf alla cancellata metallica. Il grosso pastore tedesco aveva il pelo ritto ed emetteva un ringhio sommesso.
Da quando Ian era tornato, l'animale si comportava in modo strano. L'uomo lo guardò: aveva il pelo ritto e non smetteva di emettere un ringhio sommesso come se si trovasse di fronte a una minaccia.
McDowell si mise a carezzarlo lentamente sotto la gola e a parlargli con dolcezza. L'animale parve calmarsi.
“Forse Monique manca anche a te”, disse l'uomo.
Prese Wolf per il guinzaglio e rientrò in casa, nella casa che gli parve spaventosamente silenziosa e vuota.
Varcata la soglia dell'edificio, il cane ritornò tranquillo, ma non prima di essersi irrigidito ed aver lanciato un ringhio rabbioso quando erano passati vicino al punto dove Ian aveva piantato i semi.
Facendo una rapida stima dei suoi averi e della sua vita, venne da pensare a Ian McDowell mentre si sedeva sul divano del salotto davanti al televisore e il cane si accoccolava sul tappeto vicino a lui, gli uni e l'altra si riducevano al congedo dai marines dopo il servizio in Irak, un po' di incubi assortiti lasciati dalla sua esperienza in quello che dopotutto era un teatro di guerra, una casa vuota e una vita vuota. Sapeva che smessa l'uniforme avrebbe dovuto guardarsi in giro per cercare un lavoro, costruirsi una nuova vita, ma non c'era una fretta estrema, per il momento aveva un po' di soldi da parte.
Era peggio quel che era successo alla sua vita affettiva durante quel periodo di servizio dall'altra parte del mondo. Monique a un certo punto aveva smesso di rispondere alle sue lettere e si negava al telefono, poi un giorno la posta aveva portato un biglietto dal tono estremamente brusco in cui lei gli annunciava di essersi innamorata di un tizio più danaroso di quanto Ian potesse mai sperare di diventare, e che non si trovava in Medio Oriente con l'uniforme dei marines addosso, ma a due isolati da casa. Non erano sposati, non si erano mai preoccupati di regolarizzare la loro posizione, quindi arrivederci e grazie. Per fortuna, si era almeno ricordata di affidare Wolf ai vicini di casa in attesa del suo ritorno.
Era stato poco dopo aver letto il biglietto di Monique che girando in libera uscita per le strade di Baghdad, Ian si era imbattuto in quel ragazzino arabo che gli aveva venduto quella strana anfora per quelli che per l'americano erano pochi spiccioli, ma coi quali il furbetto levantino poteva far campare la famiglia per una settimana.
Ian si era subito conto che l'oggetto era antico, doveva provenire da qualche scavo archeologico abusivo o magari essere stato sottratto a qualche museo. Normalmente l'avrebbe consegnato ai propri superiori, ma in quel momento, dopo essere stato scaricato da Monique a quel modo, aveva la sensazione che la vita gli dovesse qualcosa: quell'anfora, decise, era il bottino della sua esperienza militare, la sua personale preda bellica. L'aveva contrabbandata negli Stati Uniti al suo ritorno a casa, fidando che i bagagli di un veterano al ritorno in patria non sarebbero stati sottoposti a un esame troppo approfondito.
Tornato a casa, Ian si era rivolto al professor Wilson, l'insegnante delle scuole medie, l'uomo più colto che conoscesse, chiedendogli se a suo parere aveva messo le mani su qualcosa di valore oppure no.
Aveva fatto venire l'insegnante a casa sua per mostrargli l'anfora e l'uomo si era precipitato, gli brillavano gli occhi per l'eccitazione da appassionato di cose antiche. Tuttavia, a guastargli la festa, Ian dovette notare lo strano comportamento di Wolf che si mise a ringhiare furiosamente contro l'anfora. Dovette chiuderlo nello stanzino.
Il professore aveva esaminato l'oggetto attentamente.
“Intanto questa non è un'anfora”, aveva sentenziato.
“Ah, no?”, aveva chiesto Ian, “E che cos'è?”
“Beh”, aveva risposto Wilson, “Semplicemente un contenitore, un vaso, un orcio. Noi tendiamo a chiamare anfora qualsiasi coccio antico, ma le vere anfore, quelle che si usavano ad esempio per il trasporto del vino, erano molto più grandi e ingombranti, certo non saresti riuscito a metterne una in valigia”.
“Ah si”, aveva replicato l'ex marine per nulla impressionato dallo sfoggio di erudizione, “E quanto pensa che possa valere?”
“Questo è difficile da dire”, rispose il professore, “Vede, si tratta di un tipo di vaso, di orcio molto comune, del tipo che nella regione è stato usato per millenni, e non presenta decorazioni particolari, certo, se lo avesse ritrovato in situ invece che averlo acquistato da un tombarolo, sarebbe diverso, almeno vi sarebbe stata maggiore probabilità di poterlo datare con una certa sicurezza”.
Ian provò un po' di delusione.
“Ha provato a esaminare il contenuto?”, chiese il professor Wilson.
L'ex marine scosse il capo.
“No, guardi”, disse, “Dal peso, ci deve essere qualcosa dentro, ma l'imboccatura è come cementata”.
L'insegnante tornò ad esaminare il vaso.
“No”, disse, “Quello che chiude l'imboccatura mi pare che sia solo un tappo di cera molto, molto vecchio. Se lei è d'accordo, potremmo rompere il tappo e vedere cosa c'è all'interno”.
Ian aveva sgombrato un tavolo, vi aveva messo sopra una tovaglia di plastica, poi il professore si era messo al lavoro: aveva rotto il tappo con un coltello, poi con l'aiuto di uno spazzolino, si era messo a vuotare metodicamente il vaso del suo contenuto.
Nel momento preciso in cui Wilson ruppe l'antico sigillo di cera, dallo stanzino dove Wolf era rinchiuso, giunse un ringhio furibondo, che sembrò diventare l'ululato di una bestia selvaggia, per poi scemare in qualcosa di simile a un guaito di paura.
Man mano che il professore procedeva con il lavoro, Ian McDowell sentiva crescere la delusione, gli sembrava che dal vaso uscisse soltanto terriccio.
“C'è solo sporcizia!”, commentò.
“Ma no”, disse il professore, “guardi qui, questi sono dei semi”.
“E allora?”
“Questo oggetto viene da Baghdad, giusto?” replicò Wilson, “Lei certamente sa che Baghdad si trova a due passi dalle rovine dell'antica Babilonia, è probabile che il vaso e il suo contenuto provengano da lì. Vede, nell'antichità Babilonia era famosa per i giardini pensili, considerati una delle meraviglie del mondo. Pensile, come sa, vuol dire appeso, quindi letteralmente “giardini appesi”. Storici, archeologi, scienziati stanno discutendo da generazioni per capire di che cosa si trattasse. Sarebbe un colpo di fortuna incredibile poter risolvere il mistero”.
Ian indicò uno scaffale a muro. Era stato concepito per essere adibito a libreria, ma ospitava dei DVD e alcuni soprammobili, non era che la lettura fosse una delle massime passioni del padrone di casa.
“Quello è un pensile”, disse, “E non vedo cosa ci sia di tanto eccezionale”.
Il professore sorrise con aria divertita.
"Mio caro”, commentò, “Nell'elenco delle sette meraviglie del mondo antico c'era anche la piramide di Cheope, che è l'unica che è giunta fino a noi. Le faccio notare che però nell'elenco non sono state incluse le altre due piramidi della piana di Giza, quelle di Chefren e di Micerino, e neppure la sfinge. Crede proprio che si sarebbero disturbati a includere nell'elenco i giardini babilonesi se fossero stati delle semplici terrazze fiorite? C'è qualcosa che ci sfugge. Forse “pensili” è un errore di traduzione, e la parola aveva un altro significato. Io purtroppo non conosco abbastanza le lingue antiche per condurre ricerche in merito”.
“Tutto questo è molto interessante, professore”, aveva risposto Ian, “Ma cosa ha a che vedere con noi?”
“Beh, è probabile che questi semi vengano da piante che si trovavano in questi giardini. Capire che piante fossero ci aiuterebbe a risolvere il mistero”.
“Ma sono semi vecchi di migliaia di anni”, aveva replicato Ian,
“Ebbene, mio caro”, aveva risposto il professore, “E' sorprendente quanto a lungo i semi possano conservare la loro vitalità, forse saprà che sono stati seminati dei chicchi di grano ritrovati nelle tombe egizie, e sono germogliati. Io proverei senz'altro a seminarli e a vedere cosa spunta fuori”.
E si mise a parlare con aria ispirata di una monografia che avrebbe mandato a “Scientific American” e a “Nature”, naturalmente facendo il nome di Ian McDowell. Gli orti botanici di tutto il Paese si sarebbero contesi le piante nate da quei semi a suon di mazzette di dollari, ci sarebbero stati fama e denaro per entrambi.
Questo era un argomento che toccava direttamente il cuore di Ian, non era molto interessato alle questioni scientifiche, ma ai dollari si, eccome!
Tutto questo era avvenuto il giorno prima. Ian si era procurato un manuale di giardinaggio, del concime e degli attrezzi, e aveva piantato gli strani semi in un angolo del giardino davanti alla casa, giardino di cui fino ad allora non si era occupato molto, se non per tosare l'erba quando minacciava di diventare troppo alta e troppo fitta, ma ora era il momento di farsi venire il pollice verde, verde dollaro, sperava.
Aveva notato con curiosità anche il cambiamento nel comportamento del cane: ora Wolf ignorava l'anfora od orcio o che diavolo fosse, a cui aveva trovato una collocazione come soprammobile in salotto, e riservava tutta la sua ostilità all'angolo del giardino dove Ian aveva piantato i semi.
Ian aveva atteso con impazienza diversi giorni per vedere se qualcosa sarebbe spuntato, e che cosa. Finalmente notò un germoglio, una sorta di gemma verde che usciva dal suolo. Almeno uno dei semi aveva attecchito, ma era difficile capire di che cosa si trattasse, bisognava pazientare.
Ian dedicò nei giorni seguenti tutte le sue attenzioni alla piccola pianta che si stava sviluppando. L'unica cosa che lo lasciava perplesso era il fatto che Wolf evitava accuratamente di avvicinarsi a quell'angolo del giardino.
Il piccolo germoglio verde si schiuse, dipanando una raggiera di foglie lunghe e sottili che a Ian parvero simili a quelle di un'agave in miniatura, tranne per il fatto che apparivano molto più flessibili, come dei tentacoli di un minuscolo polipo vegetale.
Continuò a innaffiare e concimare la piantina che – gli parve – cresceva a un ritmo veloce, come una pianta di zucca.
"Ancora un poco”, pensava, pregustava già il momento in cui avrebbe chiamato i giornalisti a fotografare quella strana cosa che cresceva nel suo giardino.
Lo notò qualche giorno più tardi: un grosso insetto, un moscone si era posato su una delle foglie, e ora si divincolava nel tentativo di staccarsene senza riuscirci, come se la superficie verde fosse diventata all'improvviso appiccicosa, poi la raggiera di foglie si richiuse sull'insetto inglobandolo.
“Una pianta carnivora”, pensò, ma l'idea non gli dispiaceva, con tutti gli insetti che c'erano nel giardino!
La pianta cresceva in fretta, forse troppo. Qualche giorno più tardi, Ian trovò nei pressi della pianta, in quello che doveva essere un cumulo di resti non digeriti sputati dal mostriciattolo vegetale, qualcosa che gli parve lo scheletro tutto rotto e schiacciato di una lucertola.
La signora Blake era furente. A Ian non era mai piaciuta quella donna, una vedova anziana e acida che abitava dirimpetto alla casa dell'ex marine, una che sembrava essere infastidita dai bambini che giocavano nei cortili, dai ragazzi che il sabato sera si scambiavano effusioni negli androni bui, oppure tenevano la musica un po' alta, una che quando era halloween sbarrava porte e finestre, che pareva occuparsi solo dell'interminabile serie di centrini e lavori all'uncinetto di cui riempiva casa sua, e pareva provare affetto solo per Odile (che nome ridicolo), il suo gatto persiano grasso grosso e peloso.
“L'ho visto chiaramente”, stava dicendo la donna, “Ieri sera ho visto Odile che entrava nel suo giardino, e da allora non l'ho più visto, ed è un animale che torna sempre a casa quando è ora di cena”.
“Signora”, replicò Ian per l'ennesima volta, “Non l'ho visto, non ne so nulla”.
“Stia attento”, rispose lei, “Se gli è successo qualcosa, gliela farò pagare!”
Congedata bene o male la vicina sempre furente, Ian McDowell scese in giardino.
Come immaginava, vicino alla pianta che era cresciuta un bel po', trovò i resti del gatto: le ossa tutte disarticolate e schiacciate, e matasse di pelo arruffate che erano quanto rimaneva del lungo manto dell'animale.
Il giorno dopo, Ian McDowell lo trascorse per quasi tutta la giornata nella città vicina, dove aveva due incontri per un posto di lavoro. Rientrato mentre già imbruniva, chiamò Wolf che aveva lasciato libero in giardino.
“Wolf, bello, vieni qui, bello!”
Contrariamente al solito, non ottenne alcuna risposta.
Di colpo ebbe un sospetto atroce, come se una mano gelida gli avesse all'improvviso stretto il cuore.
Corse nell'angolo dove c'era la pianta esotica nata da un seme venuto dall'antica Babilonia. La pianta era stretta a bocciolo con tutte le foglie serrate. Da quel cumulo vegetale sporgeva una zampa di Wolf. Nonostante tutta la sua diffidenza, l'animale doveva essere passato troppo vicino a quell'orrore verde.
Era troppo!
Che il professor Wilson dicesse quello che voleva, quella cosa doveva essere distrutta, e subito!
Andò in garage e prese l'ascia, deciso a fare a pezzi quella mostruosità vegetale. Si avvicinò alla pianta.
La mostruosità verde parve reagire alla sua presenza, sembrò che sputasse la carcassa del povero Wolf, poi le foglie simili a tentacoli scattarono attorcigliandosi attorno alle gambe di Ian.
Era come cercare di liberarsi dalle spire di un pitone, stringevano ed erano terribilmente forti. Diavolo, l'ascia sembrava inutile per tagliare le foglie-tentacoli, era come se la lama fosse fatta di gomma.
D'un tratto capì: il professor Wilson dopotutto aveva ragione, doveva esserci stato un errore di traduzione, quelli babilonesi non dovevano essere giardini pensili, ma giardini prensili.
Le foglie-tentacoli gli si avvolsero attorno al busto e al capo, schiacciandolo e soffocandolo.

3 commenti:

  1. Davvero uno splendido racconto. Mi è piaciuto e mi ha tenuta avvinta una parola dopo l'altra. Complimenti!

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