lunedì 11 aprile 2016

APPROACH TO MARS di Fabio Calabrese

Gino Lazzari era appena uscito dal terminale dell'aeroporto guardandosi intorno con aria disorientata. I paesaggi tropicali avevano questo di negativo: ti aggredivano con un flusso stordente di colori e sensazioni.
All'improvviso si senti chiamare:
“GINO, GINO!”
Una squillante voce femminile richiamò la sua attenzione.
Gino Lazzari si avvicinò. Accanto a un piccolo elicottero, c'era una ragazza che si stava sbracciando nella sua direzione, una ragazza, dovette ammettere subito, dalle curve di tutto rispetto, una cascata di capelli biondi, e il cui abbigliamento, tolti occhiali da sole e zoccoli, non era costituito da nulla di più di un generoso bikini che non nascondeva per nulla le curve procaci.
“Gino”, disse lei togliendogli la sacca dalle mani e sistemandola dietro i sedili dell'elicottero, “sono la sua elicotterista”.
Per un istante, Gino Lazzari si domandò come avesse fatto a non rendersene conto: l'emisfero australe è completamente diverso da quello boreale: distanze enormi riempite da una quantità spropositata d'acqua marina, rade isole dove viveva un'umanità ancora più rada. Era quasi ovvio che non ci fosse nessun collegamento di linea tra Noumea e Mururoa, ma ci si dovesse andare in elicottero.
“Mi chiamo Denise”, disse la ragazza mettendosi ai comandi, “hanno scelto me per venirti a prendere perché parlo italiano. Mia mamma è italiana, ma mio padre è un vero french polinesian”.
Gino sorrise.
“Qualunque sia la combinazione”, disse, “il risultato mi pare particolarmente riuscito”.
Mentre l'elicottero si sollevava, la ragazza fece finta di non aver sentito il complimento.
“Dì un po'”, chiese Gino,”ma questi affari non sono pericolosi?”
“Meno della tua automobile”, rispose lei, “a meno che tu dimentichi di stare fermo fino a quando le pale e il rotore hanno smesso di girare”.
Dopo poche ore stavano sorvolando Mururoa. Gino era del tutto impreparato a quello che avrebbe visto, ma Denise che aveva lasciato l'isola poche ore prima, era altrettanto impreparata. Sotto di loro, la superficie dell'isola era un caos di polvere e detriti che a tratti ne mettevano a nudo il bianco scheletro calcareo.
“Sembra sia stata bombardata”, disse Gino.
“Qualcuno deve avere usato un esplosivo ad alto potenziale”, commentò Denise. “È chiaro che qualcuno vuole impedirci a tutti i costi di arrivare su Marte”.
Qualche ora più tardi, Gino ebbe modo di incontrare gli altri membri della spedizione in una villetta isolata. Tranne i comandanti della spedizione, i colonnelli Lapierre e Savcenko, rigidi nelle loro uniformi militari, tutti gli altri avevano adottato un look alquanto disinvolto. Quei fisici da pin-up e culturisti che strabordavano dai costumi e dalle magliette tropicali, tendevano a far dimenticare che quegli uomini e quelle donne erano tutti scienziati o tecnici con un'elevata specializzazione e militari addestrati a una rigida disciplina.
Al centro dell'ampio tavolo c'erano le bandierine dell'Unione Europea e della Federazione Russa. Questo sorprese Gino: si era aspettato la bandiera dell'ONU, come di solito si usava per le missioni internazionali, ma evidentemente le Nazioni Unite non avevano dato la loro benedizione. Gli altri membri dell'equipaggio erano europei, in netta maggioranza francesi, e c'erano alcuni russi.
Jean Lapierre, un uomo di circa cinquant'anni, dai capelli grigi, rigido ma in qualche modo elegante nell'uniforme militare, comandante semi-ufficiale della spedizione, prese la parola.
“Abbiamo controllato i danni alle attrezzature”, disse, “sono andati distrutti un hangar prefabbricato e due booster vuoti. I danni non sono gravissimi, gli attentatori sono stati alquanto maldestri. Tuttavia è chiaro che ci stiamo confrontando con una forza ostile che desidera che questa spedizione non si faccia. Mi sono confrontato con il colonnello Savcenko e abbiamo convenuto sulla stessa linea di condotta: Emetteremo un comunicato molto drammatico dal quale risulterà che i danni alla base siano molto più gravi di quanto in effetti non sono, tali da metterci fuori gioco per molti mesi, e intanto procederemo più velocemente possibile alla preparazione della spedizione”.
Il colonnello Savcenko era un uomo molto diverso da Lapierre: aveva l'aspetto volpino e sornione di chi ha fatto carriera soprattutto a forza di astuzie.
“La Russia”, disse, “senza il KGB non sarebbe niente, ma in questo caso scomodare il KGB non è proprio necessario. Ricordate che la nostra non è una spedizione internazionale, ma euro-russa. Se il Giappone ha declinato la sua partecipazione, e la Cina ha fatto altrettanto, c'è una sola spiegazione: pressioni da parte degli Stati Uniti, o almeno da una parte dell'élite americana; questo spiega anche il mancato appoggio dell'ONU. Il problema è che sappiamo chi, ma non sappiamo il perché. Ci è tuttora ignoto perché almeno una parte dell'élite statunitense intende sabotare la prima spedizione umana su Marte”.
 
Dopo la conferenza, Gino Lazzari ebbe modo di conoscere gli altri membri della spedizione. A parte le quattro persone di nazionalità russa, tra cui una bella ragazza, Tanja Georgeva, gli altri erano tutti europei, francesi la più parte, anche se c'erano uno spagnolo, un tedesco, e Paula Van Djemen, una graziosa ricercatrice olandese. Tuttavia, quel che lo stupì di più, fu la distribuzione delle specializzazioni. A parte i tecnici come lui, specialista nell'assemblaggio di strutture modulari, fra gli scienziati c'erano soprattutto geologi e vulcanologi.
“Ma come, non lo sai?”. Glielo spiegò Tanja Georgeva con il tono che avrebbe usato con un ragazzino. “Noi sbarcheremo nei pressi del Monte Olympus, che è il più grande vulcano del sistema solare, e quando Marte era geologicamente attivo, deve aver eruttato un bel po'. C'è un motivo preciso e semplice: sulle pendici dei vulcani durante le eruzioni si formano i cosiddetti tunnel di scorrimento. La lava più esterna si raffredda e si solidifica, mentre quella all'interno continua a scorrere, così si forma una sorta di galleria. Noi pensiamo che su Marte, durante le eruzioni del Monte Olympus di tunnel di scorrimento se ne debbano essere formati un bel po', anche perché data la sottile atmosfera marziana, e il fatto che questo pianeta si trova più lontano rispetto al sole della Terra, la differenza fra temperatura esterna e quella della lava incandescente doveva essere considerevolmente maggiore. In sostanza, noi ci aspettiamo di trovare nei tunnel di scorrimento del Monte Olympus qualcosa di molto simile a una base naturale già bella e fatta che potremo adattare facilmente alle nostre esigenze”.
I giorni seguenti passarono molto in fretta per Gino: c'era da fare tutto il lavoro di preparazione al lancio: preparazione fisica ed esami medici, e un po' di ripasso teorico sul lavoro che gli sarebbe stato affidato una volta giunti sul Pianeta Rosso. Il comunicato del colonnello Lapierre che teoricamente rinviava la spedizione quasi sine die lo faceva sentire abbastanza al sicuro. Chiunque fossero gli attentatori, li avrebbero gabbati con una partenza improvvisa. Sdraiato sulla cuccetta anti-accelerazione, Gino Lazzari aveva l'impressione che una mano gigante gli premesse le viscere verso il basso per fargliele uscire dalle reni. Quello era davvero il momento critico a cui tutto il lavoro teorico e gli allenamenti precedenti non preparavano veramente mai, l'improvviso aumento dell'accelerazione quando l'astronave si staccava dalla superficie e poi dal campo gravitazionale terrestre. I veterani delle missioni spaziali finivano per acquisire una certa abitudine, ma per i novellini era il momento più duro, il battesimo dello spazio.
Tuttavia passò. Pian piano, dopo qualche minuto l'attrazione gravitazionale tornò dapprima alla normalità, per poi scendere al disotto dei livelli abituali sulla superficie terrestre, e trasformarsi in caduta libera a gravità ridotta. Questa era una sensazione completamente diversa che dava piuttosto una sorta di euforia. Gino si ricordò quasi con sorpresa, che quella gravità ridotta sarebbe stata appunto la condizione in cui avrebbe dovuto vivere per la maggior parte del tempo nei mesi seguenti. C'era da ringraziare comunque la propulsione a ioni, che avrebbe consentito di arrivare sul Pianeta Rosso in un paio di mesi, invece dei quattro anni che sarebbero occorsi con un razzo a propulsione chimica.
Certo, venne da pensare a Gino; in realtà Marte sarebbe stato raggiungibile anche nel XX secolo, quando poco dopo la metà di esso, era iniziata la corsa allo spazio, ma sarebbe stato necessario un tempo spropositato.
Gli altri membri dell'equipaggio cominciarono a uscire dalle cuccette, e anche Gino lo fece con la maggiore prontezza che gli fu possibile, non ci teneva a fare la figura del novellino. Era strano fluttuare in quel modo, ma non spiacevole.
Poco dopo, arrivò il comandante Lapierre che teneva una scatola sotto il braccio. La sua espressione era raggiante.
“Ragazzi”, disse, “ho aperto adesso la busta sigillata con gli ordini per la missione. Vi comunico che sono stato ufficialmente nominato comandante della spedizione e che mi sono stati conferiti i gradi di generale. Qui ci sono dei cioccolatini per tutti voi. Attenzione quando li togliete dalla scatola, che con la bassa gravità non schizzino chissà dove. Poi però scordatevi che possano fare parte delle vostre razioni abituali nei prossimi mesi”.
Fra i membri dell'equipaggio, l'applauso scoppiò spontaneo.
Qualche minuto più tardi, arrivò il colonnello Savcenko, e la sua espressione era completamente diversa, aveva una faccia rabbuiata che non lasciava presagire nulla di buono.
“Devo darvi delle notizie”, disse l'ufficiale russo. “Poco fa mi sono fatto trasmettere le coordinate della missione da Houston, da Baykonur, da Atacama nelle Ande peruviane, che come sapete, è una base europea. Naturalmente, i nostri amici americani sono all'oscuro del fatto che il nostro controllo è triplice, e credono di essere gli unici a fornircele. Bene, i risultati sono molto chiari. Mentre le coordinate che ci hanno fornito russi ed europei coincidono, quelle che ci ha dato Houston sono completamente sballate, ci porterebbero a perderci nello spazio”.
L'espressione di Lapierre si era incupita.
“Vuoi dire”, commentò, “che sacrificherebbero con tanta facilità la vita di una trentina di persone?”
“A quanto pare, si”, rispose il russo.
“Devono avere qualcosa di grosso da nascondere”.
La vita a bordo dell'astronave, che i francesi avevano deciso di chiamare “Ariane” come i loro primi razzi, si stava assestando su di una routine che contribuiva a dare alle cose un senso di normalità.
Di tutte le procedure che formavano la routine a bordo della Ariane, quella che Gino gradiva di meno, era la cosiddetta ruota del criceto, si trattava di un'apparecchiatura di forma circolare che in effetti Gino trovava molto simile alle ruote nelle gabbie dei criceti, ma il suo scopo era quello, ruotando su se stessa, di creare una sorta di gravità artificiale. Lapierre era stato categorico: tutti i membri della spedizione dovevano fare una corsa di almeno un'oretta al giorno su quella sorta di tapis roulant circolare per non disabituarsi a una gravità di tipo terrestre: l'assenza di gravità indeboliva il sistema osseo e poteva procurare seri problemi circolatori.
Nulla appariva più appropriato alla dimensione onirica, che fluttuare nella bassa gravità, sembrava di spostarsi come una medusa immersa nell'acqua marina, piuttosto che come un vertebrato terrestre. Ovviamente, nello spazio interplanetario non c'erano né giorno né notte, ma Lapierre e Savcenko avevano imposto un ciclo giornaliero preciso simil-terrestre, e in quel momento a bordo della Ariane era “notte”. In quel momento, Gino Lazzari non sarebbe stato capace di dire se fosse sveglio o stesse sognando un sogno con strane coloriture realistiche.
Si avvicinò all'impianto di regolazione dei gas e dei propellenti. L'impulso che provava era estremamente forte: sarebbe bastato aprire un paio di valvole e chiuderne un altro paio, per fare in modo che il comburente destinato all'alimentazione dei razzi ausiliari, si espandesse nell'impianto di aerazione della Ariane. Pochi minuti e tutti sarebbero morti avvelenati, non sarebbe stata un'agonia lunga.
Si bloccò. Per quale motivo avrebbe mai dovuto fare una cosa tanto assurda? Con uno sforzo si allontanò, fluttuando di nuovo verso la propria cuccetta.
Era di nuovo là: il tempo sembrava aver girato all'indietro riportandolo al punto di partenza. In realtà, Gino Lazzari era semi-conscio che le cose non stavano così, che quella era la notte successiva, nel corso della quale un impulso incontenibile l'aveva di nuovo riportato davanti alle valvole dell'impianto di regolazione. Questa volta, l'impulso era fortissimo. Allungò la mano verso la valvola, ma non la raggiunse mai. Un dolore fortissimo gli esplose poco sotto la mascella, e prese a volare all'indietro, finché la sua testa andò a sbattere con forza contro una paratia. Nella bassa gravità sembrava impossibile farsi male, ma non era così, perché non c'era nessun attrito, nessuna resistenza a frenare gli effetti di un colpo o di una spinta. Non solo gli incidenti nella bassa gravità erano possibili, ma a volte potevano anche essere parecchio dolorosi. Gino Lazzari svenne.
Quando riprese conoscenza, Gino si accorse di essere saldamente legato a una branda. Vide sopra di sé il volto di Konstantin Savcenko.
“Mi dispiace”, disse il russo, “ho dovuto usare la mano pesante, ma ne andava della sicurezza di tutti”.
“Non capisco”, rispose Gino.
“La cosa non mi sorprende”, replicò Savcenko, “sotto alcuni lati, gli Americani sono gente molto in gamba, ma ti sorprenderesti di sapere quante volte il nostro KGB li ha presi per il naso. Abbiamo subito pensato che avessero infiltrato un sabotatore nel nostro equipaggio, e tu eri il candidato più probabile, perché hai avuto un periodo di studio e addestramento negli Stati Uniti”.
“Ma io non volevo fare del male a nessuno!”, obiettò stupefatto Gino.
“Su questo non ho dubbi”, rispose il colonnello. “Non siamo sulla Terra ma nello spazio. Un sabotaggio qui, è anche un suicidio. Io sono sicuro che sei stato ipnotizzato. Io, tu e il comandante Lapierre rimarremo gli unici a conoscenza della faccenda, ma capirai che per non correre ulteriori rischi, ti terremo sotto controllo”.
 
Il secondo mese di viaggio fu per Gino un vero tormento: sentirsi sorvegliato, sia pure con molta discrezione, era estremamente sgradevole. Per sfuggirle, si tuffò nel lavoro: la sequenza di operazioni robotiche che avrebbero trasformato le pendici del Monte Olympus in una base abitabile per gli esseri umani, poteva essere progettata con un certo anticipo anche senza conoscere esattamente la morfologia dei tunnel di scorrimento lavico che i vulcanologi si aspettavano di trovare: occorreva per prima cosa sigillarli in modo che non disperdessero la preziosa atmosfera, poi occorreva portarvi luce e calore; infine si arrivava all'installazione robotica dei moduli prefabbricati, che avrebbero trasformato quei cunicoli in un posto decente dove vivere.
Certo, Gino avrebbe voluto controllare i risultati con qualcuno; magari Denise, la ragazza italo-kanak, oppure la russa Tanja Georgeva, ma a quanto pareva, era già fortunato che le cose erano andate come erano andate, e non si trovava agli arresti.
Quasi non se ne accorse fino a ventiquattro ore prima dello sbarco. Quello era un momento storico: era la prima volta che gli esseri umani atterravano su di un pianeta diverso da quello che li aveva generati; almeno questa era la versione ufficiale, ma era davvero così, oppure no?
Una dozzina di ore dopo lo sbarco sul suolo marziano, Gino Lazzari era già al lavoro; questo gli dava una soddisfazione enorme, sentiva di aver riguadagnato credibilità. Alle falde del Monte Olympus c'era una quantità di tunnel di scorrimento lavico, che formavano un labirinto intricato. Qualche ora dopo aver iniziato il lavoro, soprattutto dopo aver cominciato a posizionare le luci, le prove cominciarono ad apparire evidenti: loro non erano i primi esseri umani provenienti dal pianeta Terra ad aver messo piede su Marte.
Gino aveva chiesto di poter parlare all'equipaggio nel salone centrale dell'astronave, dove c'era il lungo tavolo in grado di ospitarne i membri al completo. Ora che il momento era arrivato, però, si sentiva in forte imbarazzo: non era un oratore, sapeva di non esserlo; sperò ardentemente che il materiale che aveva raccolto e custodiva nella grossa sacca per campioni vicino a lui, fosse abbastanza eloquente di per sé.
“Ci sono prove evidenti”, esordì, “che noi non siamo i primi esseri umani a mettere piede su Marte. Siamo stati preceduti da una o più spedizioni statunitensi e, direi in base al materiale da me ritrovato, che siamo stati preceduti da qualcosa come mezzo secolo. Quel che tuttora non mi rimane comprensibile, è il perché sia finora stato mantenuto il segreto su ciò”.
A questo punto, fu Savcenko a prendere la parola.
“Caro Lazzari”, disse, “io mi sorprendo che tu abbia ancora dei dubbi a questo riguardo. Io ci ho riflettuto e qualche idea me la sono fatta. Considera l'epoca nella quale sarebbe avvenuto ciò. Agli inizi degli anni '70 del XX secolo, il programma Apollo fu improvvisamente interrotto dopo lo sbarco umano sulla Luna. Possiamo pensare che non sia stato affatto interrotto, ma proseguito in segreto, avendo come obiettivo non più la Luna, ma Marte. Il motivo, lo si comprende anch'esso molto bene se si tengono presenti l'epoca e il contesto storico. Erano gli anni della guerra del Vietnam, della contestazione generale, dell'avanzata comunista negli stati ex coloniali del Terzo Mondo. La sensazione generale era che il crollo del sistema americano e l'avvento di un sistema comunista mondiale fossero imminenti, poi sappiamo che dagli anni '80 la tendenza si è del tutto invertita. Mettiamoci nei panni dell'élite statunitense dell'epoca, o almeno di una parte di essa. Cosa di meglio per mettersi al sicuro, che trasferirsi su Marte dove vivere beatamente nello stile dei piantatori del vecchio sud, serviti da migliaia di schiavi robotici? Noi comunicheremo la nostra scoperta alla Terra, e quando torneremo, sono sicuro che troveremo un mondo cambiato, dove sicuramente la reputazione degli Stati Uniti avrà subito un notevole ribasso”.
“Benissimo”, replicò il generale Lapierre, “possiamo vedere queste prove?”
Gino estrasse un oggetto dalla sacca: era un bidoncino per la raccolta dei rifiuti: sul lato superiore del coperchio, si leggeva chiaramente la scritta TRASH.
“Non vorrei essere polemico”, disse Lapierre, “ma si potrebbe anche pensare a un oggetto recente che ci siamo portati dietro per costruire una messinscena”.
“Capisco”, rispose Gino, “Forse troverà questo più persuasivo. Intendiamoci, nulla garantisce nemmeno in questo caso che non sia un falso, e sono sicuro che al nostro ritorno dovremo confrontarci con polemiche furiose, ma certamente è più nello spirito dell'epoca”.
Estrasse un altro oggetto dalla sacca: era una lattina dove qualcuno aveva inciso una caricatura, schematica ma riconoscibile, di un Elvis Presley molto capelluto. Più sotto era stato inciso:
“US HAIR FORCE”.
 

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