lunedì 19 maggio 2014

SCANSIONE di Paolo Durando



Il colpo partì.
E quello fu l'inizio. Qualcosa che era in attesa da sempre si era rivelato, dandomi la possibilità di organizzarmi.
Solo un infimo istante, ma che aveva conosciuto una somma dilatazione  e  si era  dispiegato in valli e prati di secondi. Tutto era andato sgranandosi, in inauditi dettagli.
In quella parentesi di silenzio e sospensione radicali, avevo avuto modo di raccogliermi, per essere pronta a lasciare la presa. A fare, in un certo senso,  le valige, rassettare precipitosamente la mia stanza, riporre gli oggetti, eliminare la polvere, ma senza nasconderla sotto il tappeto. La tentazione era, del resto, forte. Furono fatte grandi pulizie dappertutto, fu cambiata l'aria, fu predisposta ogni molecola, ogni atomo. Era stata una prassi del vuoto, che fotografava me stessa in immagini che mi avrebbero replicata per l'eternità. Un avvallamento di tempo in cui avevo lavorato per superare la soglia. Ma questa, certamente, restava di là a venire. In quella parentesi che nessuno, nella vita ordinaria, avrebbe potuto percepire, io ricamai il mio congedo. Mi riferisco a ciò che riguardava il mio corpo, i miei organi. Ebbi la facoltà di distaccarmene affettivamente. Finché anche quella frazione di secondo finì,  dopo una teoria di svuotamenti.
A quel punto fui cosciente di cadere. Non avevo alcuna forza nelle gambe, che non sentivo affatto. Non provavo dolore, ma appena abbozzai questa consapevolezza, esso arrivò lancinante. E restai prigioniera di un altro tempo breve, ma stavolta talmente intenso da non poter essere posseduto. Il pieno del male assoluto.
Si può solo immaginare il portento di una pallottola nel petto, il suo incastrarsi nei tessuti vivi, la lacerazione della carne nell'affondo. Se la sofferenza aveva caratterizzato  il parto, quando mia figlia faceva le veci di quella pallottola in un percorso inverso, non era però stata altrettanto violenta. Allora espellevo il dolore, mentre stavolta lo accoglievo.  Ero una totalità in un punto. Una singolarità dalla quale, quasi avessi dovuto rivoltarmi come un guanto,  ero  stata  risucchiata. Avevo avuto la precisa sensazione di essere attratta nel mio petto, fino a caderci dentro, per rovesciarmi in un altrove che non mi era dato ancora discernere. Era stato come se facessi una disperata capriola dentro di me, per uscire dall'altra parte. Nel momento stesso in cui avevo la vaga fantasia di attraversare un cannocchiale, mi pareva di restringermi, raggrumarmi.
Inghiottita da me stessa, appallottolandomi in una porzione infinitesima pronta per essere espulsa, cambiava ancora la mia  percezione del tempo, che di nuovo conosceva la lentezza, la possibilità di indugiare sui particolari. Era un tempo di cui era possibile fare la scansione. Non per questo scorreva più lentamente, ero semplicemente io a cambiare. I secondi erano sempre secondi, ma per me erano piazze da attraversare in tutta tranquillità. Potevo contemplare, vivisezionare la grana del tempo. Era sempre un prima. Il dopo era del tutto celato, forse inesistente. Non mi ponevo più il problema della sopravvivenza dell'anima. Una volta di più mi fu chiaro che, se la sopravvivenza non ci fosse stata, non l'avrei saputo,  quindi il problema non si poneva neppure. Incistata nella vasta estensione di maglia temporale, potevo solo raccapezzarmi nell'assenso, senza potere né volere né guardare oltre. In fondo c'era la singolarità che mi stava tuttora divorando. Ma potevo rendermene conto, riflettere, soppesare.
Avvertivo un ricordo liquido delle mie membra, la traccia di qualcosa di sporco, maleodorante che mi vincolava nella sua finzione,  tutto ciò che mi aveva costretta, di materiale o anche immateriale, durante l'esistenza. E proprio la mia parte non animale  arrivava alla coscienza, verità spuria, venata di  complicità immonde. Nello stesso, tempo, però, ero distaccata, perché quella schifezza non mi riguardava più. Me ne stavo sgravando intanto che la contemplavo nella sua entropia.
Era la dispersione lenta delle mie asperità. Una sorta di forza centrifuga agiva in quello che divenivo, così che mi sentivo gonfiare e dilatare, nel momento stesso in cui mi alleggerivo.
Fu così che vidi il vialetto che portava alla casa di S. Sentivo anche perché lo stavo vedendo, nella calma e nel silenzio di un avamposto. Ero su una piazzuola di sosta nel cosmo e vedevo la casa di lui, dell'unico che mi aveva avuto. Casa, home, sito, locazione, bara. Tutto questo era quel vialetto e la porta liberty d'ingresso.
Respirando l'aria del primo autunno, sentii che quella che inalavo altro non ero che io, l'offerta al mondo in cui consistevo. Il mio contributo al suo rinnovo. Poca cosa. Null'altro che una scheggia, eppure, se fosse venuta meno, sarebbe stato un riflesso perduto. Non ero preziosa, ma ero sola. Poi,  da quella porta inalata, da quel sentiero assorbito, essenza gustosa e programmatica della mia esistenza, usciva l'uomo. Il desiderio è un processo di radicale individualizzazione. Era lì, su quel corpo che si concentravano le mie particelle, ronzandovi attorno. Il mio desiderio  costituiva un tappeto di falene. Ma, nel momento stesso in cui conseguivo il vialetto, prima di accedere alla verità di me stessa, fui scagliata via come un corpo estraneo.
Inarrestabile, il mio passato confluì come un ritorno di marea. In un'inondazione maldestra, tutto il mio materiale, cattiveria, gioia, superbia, invidia, fu toccato ma non del tutto, travolto ma in parte. Ciò che restava dopo il ritiro di quell'onda, era solo parzialmente intaccato, ma di sicuro cambiato più o meno in profondità. Vidi i sentimenti, le emozioni, le secche del mio animo, le piene e le risorse comporsi in un'architettura sfilacciata, enorme e fragile. Una scultura espansa che veniva meno ad ogni istante. C'erano angoli, anfratti, buchi nelle forme e, nonostante tutto,  era facile entravi  e poi fuggirne. 
Capii quanto la mia storia mi avesse lentamente ma inflessibilmente plasmata. Di anno in anno, fino all'ultimo giorno, fino al colpo mortale, mi ero instancabilmente edificata. Non avrei potuto  dire se ero migliorata, se mi ero  evoluta o se, al contrario, ero andata incontro ad una stratificazione di adattamenti. Compromessi a me così consustanziali, ormai, piccoli o grandi che fossero, da non avvertirli neppure più come tali.  Adeguamenti progressivi della vita alla vita. Lì, indubbiamente, ci si raffina. Si incidono progressivamente i solchi delle azioni e reazioni più opportune, dopo li si replica senza troppa fatica, anche se forse erano i più innaturali per noi. 
Ci facciamo fascinosamente, indefettibilmente persuasi. Allora si muore persuasi? Non lo saprei dire. Forse questa morte  inaspettata non mi trovava persuasa nella misura in cui non avevo avuto modo di sottostare a me, ai miei limiti, al mio degrado. Quel colpo che mi uccideva mi salvava da un'esperienza completa. Amputata della quarta dimensione, ero  un fiore reciso prima dello sboccio. Il rigoglio dei petali, il loro colore sono  potenziali. Ero rimasta potenziale. E accasciandomi a terra, analizzando il tempo che mi rimaneva, frazione di secondo dopo frazione di secondo, mi vedevo recisa e non potevo fare nulla se non vagamente rimpiangere le idee che mi ero fatta su come sarei stata. Rimpiangevo le idee, non la mia realtà, perché quella era stata interrotta e non si poteva  piangere su ciò che non era stato.
Raggiunsi così  la terra.  Avvertii allora lo squarciarsi di una membrana tesa. Uno scoppio,  definitiva coincidenza con la mia fine. Era la mia ora e la forza di cui avevo appena sentito la durezza definiva il confine. E improvvisamente, ritrovandomi oltre, si rivelava l' inganno.  Giungeva il momento in cui mi accorgevo della bugia che raccontavo a me stessa, avvertendo la botta, l'impatto osceno. La bugia delle cause e degli effetti, per mascherare la mancanza di visione. Non c'era nessuna barriera. In realtà avrei dovuto intuire subito che si trattava di questo. Che, per quanto impervia, esiste un'unica strada per la conoscenza.  Si doveva capire. Un attimo e la barriera non è più tale. Basta un lieve sollevamento della testa, uno sguardo fuori dal limite di allora. Basta un sussulto e siamo salvi. O forse no, perché altri sono rimasti indietro. Dentro il tempo, fuori dall'esperienza ultima della consapevolezza,  intenti a misure e ricapitolazioni, ancora fermi a quel colpo di pistola.

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