venerdì 14 febbraio 2014

UNO SCARABEO BUGIARDO di Héctor Ranea



Nel numero tre de “Il Giovane Curioso”, una raccolta mensile per bambini con esperimenti di scienze varie adatti da fare in casa, trovai la spiegazione per preservare gli esemplari di insetti. Il metodo mi affascinò e catturò tutta la mia attenzione, al punto che un amico dovette aiutarmi a fare i compiti di scuola, per non provare vergogna di fronte alla signorina Fisher, una bella bionda di cui ero perdutamente innamorato, anche se meno che della scienza che avevo appena scoperto. Ossia, non volevo deludere la mia maestra, ma nemmeno potevo abbandonare i miei insetti morti. In conclusione, il mio amico mi aiutava con i disegni e i temi di argomento storico e io mi arrangiavo con aritmetica e scienze e con le composizioni letterarie; per queste ultime ho sempre trovato il tempo, soprattutto per le poesie d’amore, che mettevo con discrezione nel registro di classe, perché lei le vedesse.
Mi concentrai sul preservare gli animaletti, chiaramente senza vita, sotto cherosene, alcol, aceto bianco, e altri intrugli che qualche volta inventavo io stesso e che scarso servizio fecero alla scienza della preservazione, sebbene qualche sorpresa la procurarono a me, senza dubbio. In queste divagazioni tra l’amore per la mia maestra e quello per la conservazione degli insetti, mi sembrò che collezionarli come capitava non avesse niente di elegante, per cui decisi di tenere solo quegli insetti che più assomigliavano, almeno nella mia mente infantile, alle pietre preziose: i coleotteri.
Trascorsero lunghe settimane invernali, nelle quali era più difficile trovarne uno che scrivere qualche strofa storica secondo i gusti della signorina Fisher, ma mi ingegnai per ottenere almeno l’intruglio che meglio conservava l’esemplare, non solo in quanto alla sua integrità generale, ma anche per il colore, la lucentezza e le macchie iridescenti (così le chiamavo io, emulando un naturalista) che davano all’insetto quell’aspetto roccioso di cui avevo bisogno per sentirmi soddisfatto. Ora non sarei in grado di riprodurre quale miscela avevo provato. Sicuramente qualcosa con acquaragia, trementina o cose simili; è anche probabile che sia stato il liquido che usava mio padre per gli accendini, la benzina.
Quando ebbi una decina di questi esemplari li mostrai alla mia famiglia, ma la reazione non fu troppo omogenea. Mio padre, per esempio, dedusse il motivo per cui spendeva tanto denaro per le sue sigarette; mia madre sospettò per quale ragione i miei voti scolastici erano stati tanto brutti quell’anno; mia nonna ritenne che stessi facendo qualcosa contro natura, giacché le bestie devono continuare a essere bestie anche dopo morte e non diventare parte di un’esibizione oscena della morte. Preferisco tacere quello che dissero i miei cugini e le mie cugine, non sarebbe giusto verso di loro, né verso la memoria della persona che fui.
Infine mi incuriosì che mio zio, un uomo che aveva viaggiato in molte parti del mondo, li osservasse con attenzione, così tanta che mi prese la paura irrazionale che volesse rubarmi la collezione, da tanto interesse che c’era nel suo sguardo. Alla fine arrivò al pezzo che io consideravo il migliore e disse:
– Questo qui lo conosco bene, si chiama Compsocerus Violaceus, viene detto il chitarrista.
Lo descrivo: le elitre di colore verde, ma non il verde ordinario di una mantide religiosa o della foglia nuova del limone, ma nemmeno del grano verde o del verde che hanno le foglie dei piselli o le bucce di mais, ma un verde iridescente, un verde che non c’è nell’arcobaleno, forse - ma la memoria può fare miracoli - il verde degli occhi della maestra Fisher, mia amata immortale.
Il tutto in un corpo rosso: zampe rosse, addome rosso, collo rosso, testa rossa. Tanto rosso da sembrare un demone da operetta, uno di quei diavoli da banda o da farsa creola, ma con questo mantello verde che lo faceva assomigliare un vescovo infernale, un monaco di alto lignaggio, un nobile angelico.
In più - e quella era la dimostrazione della sua natura incredibile - aveva anche due antenne nere con riflessi rossicci, con due pompon neri che avevano l’aspetto di germogli di menta, ma fatti di puro carbone. L’insetto, della lunghezza del pollice di un adulto, era un gioiello galleggiante. Una gemma fatta delle sostanze della terra, delle unghie dei morti, come arrivò a dire mia nonna prima di cadere in una letargia che tutti interpretarono come un’insolazione, ma che presentava alcuni aspetti infernali che è meglio non elencare per non spaventare i potenziali lettori.
Forse devo chiarire, che a quell’epoca non avevo la minima idea della maggior parte delle parole che adesso, trascorso tanto tempo, sì posso usare con proprietà; cosicché il mio stupore si manifestava
con espressioni verbali e gesti piuttosto che le parole, e questo, sfortunatamente, mi fu di impiccio, perché i miei genitori considerarono che tale attività, l’unica cosa che mi aveva procurato era stato rendermi più stupido di quel che aveva conseguito la mia stessa nascita, per cui mi allontanarono da ogni contatto con i miei tesori, incluso i diciassette numeri che, non ricordo come, avevo comprato de Il Giovane Curioso. Tuttavia questo non mi distolse dagli insetti, meno che mai dai coleotteri, a cui facevo visita nelle mie frequenti serate sopra all’albero di limone, fuori portata dalla vista di mia nonna, l’incaricata di far sì che la mia espiazione fosse effettiva e la condanna di reale compimento. Era la legge e la legge, in casa, doveva compiersi a qualunque costo.
Sopra al limone mi sentivo una scimmia diversa dalle altre e, vestito con una maglietta verde a righe e un pantalone scuro come le foglie vecchie di limone, gli occhi della nonna non mi distinguevano e io potevo raccogliere alcuni dei miei migliori coleotteri che, purtroppo, dovevo poi lasciare poiché non li potevo conservare, motivo per cui non volevo ucciderli, nonostante portassi sempre con me lo spillo per il colpo finale. Dalla cima dell’albero, devo dire, potevo misurare bene le farfalle del limone, che venivano soprattutto a prendere il nettare prima delle api e delle vespe rosse. Ma la mia sorpresa non fu tanto di trovare di nuovo un chitarrista, quanto che egli mi parlasse. Questo fatto mi sembrò che non fosse esposto in nessuno dei numeri che avevo letto del mio inserto scientifico (per allora ne avevo già letti ventitré) e di primo acchito lo mollai di colpo, però siccome è un volatile, si fermò accanto a me e mi disse:
– Vedo che ti interessi dei miei simili, ragazzo.
– Gli scarabei non parlano, signore – dissi, con un certo candore ora che ci penso. – Lei mi confonde.
– No, ragazzo. Chi si confonde sei tu. Non sono un coleottero, sono un visitatore. E te lo metto in chiaro, non siamo fatti delle merde di cui è fatto il tuo pianeta. Siamo di leghe molto specifiche, progettate per poter percorrere le distanze che separano i pianeti che conquistiamo dal nostro, senza soffrire danni. Di più, ti dico, il fratello che tieni nella benzina è vivo.
– Non posso liberarlo, se è questo che vuoi.
– In realtà, prima o poi, si libererà da solo, ma non sono venuto a reclamare per lui. Vorrei fare un patto con te. Però dovrai lasciare che mi metta nelle tue costole.
Sentii un dolore intenso, sebbene il chitarrista ancora non avesse nemmeno fatto cenno di entrare in me. Di fatto, mi stava chiedendo il permesso, ma solo pensare alle sue mandibole multiple mi fece soffrire e indietreggiare.
Non avrei dovuto farlo. Nel farlo, caddi dall’albero e la caduta fece sì che si svegliasse mio nonno, che avevano messo di guardia alle mie attività. Lui svegliò mia nonna, che mi rincorse per un bel po’ con la scopa nel cortile e non le importò di tirare giù due piante di mais e quattro di fagiolini che erano già sul punto di maturare. Castigo divino, gridava, o qualcosa del genere. Dato che non mi raggiunse, riuscii a sgattaiolare nel cortile del mio amico che mi aiutava con i compiti, saltando il muro, cosa che svegliò in malo modo le pavoncelle, però sfuggii a mia nonna e fu preferibile sopportare l’attacco dei volatili che la scopa familiare del castigo eterno.
In ogni caso, anche il chitarrista mi raggiunse, senza difficoltà e tornò alla sua richiesta originale, dopo che mi fui sistemato i vestiti.
– E perché vuoi – già gli davo del tu – metterti tra le mie costole?
– Ti potrò tenere in vita per molti anni in più, ragazzo. Vivrai il tempo che vorrai. A me conviene avere un aspetto più umano, perché in questo modo – sembrò indicare se stesso ­ – mi perseguitano abbastanza facendomi perdere un bel po’ di tempo.
Pur sapendo che stavo tradendo la mia specie, nello spasmo emotivo provocato dalla fuga annuii e in maniera indolore, il chitarrista si mise tra la quarta e la quinta costola del lato destro. Vicino al fegato, suppongo. Siccome ogni tanto usciva, non mi dava fastidio tutto il tempo. Fu così che arrivai fino ad ora con questo aspetto, ma non ottenni che stringessero lo stesso patto con la maestra Fisher, per cui potei vederla invecchiare, morire, al pari dei miei fratelli, i miei cugini, i loro figli e tutti i conoscenti, per varie generazioni. Non chiedetemi i dettagli perché li ho persi. Con i tanti viaggi che ho fatto da allora, non ho idea della maggior parte dei discendenti di quella stirpe.
Il coleottero chitarrista mi portò in varie parti di questo mondo e di altri. In alcuni eravamo soltanto insetti, in altri lunghe code di alghe zuccherine che galleggiavano nel metano fosforescente, o meduse di roccia porosa, o quadrupedi con coscienza. Anche umani, perfino con velleità di poeti, o militari con l’illusione di essere strateghi. Divenni anche un pezzo di scacchi molteplici in un pianeta abbastanza tiepido che ruotava attorno a una stella, in quella che conosciamo come costellazione della lucertola. Qualcosa di eccezionale, se si vuole, dico, essere un pezzo inanimato. Però, in questo, il rosso amico mi accompagnò al cento per cento. Non mi lasciò mai morire, né essere ucciso da niente, ma continuo a non capire lo scopo della mia vita quasi eterna. Di più, non so nemmeno se ho fatto un buon affare.
Mi spiego: non fu gratis. Sapere che vivrai quasi per sempre non è necessariamente piacevole, soprattutto se sei nato negli anni cinquanta, quando la gente muore di vecchiaia a sessant’anni, e se hai otto anni. È una sensazione molto forte, ma non necessariamente buona, perché ogni cosa sembra semplice, possibile, e non si è invogliati a farla in fretta. Ovvio. Dall’altra parte c’era il coleottero, che pungeva, insisteva, rompeva le scatole allo sfinimento.
Quando arrivai ai diciassette anni volli fare visita alla mia vecchia maestra, ma il mio coleottero non me lo permise. Dovevamo fare ricerche da altre parti e mi portò, convertito in uno di loro, in una civiltà completamente diversa. Io, un semplice adolescente, ad analizzare una cultura così diversa che non si potrebbe distinguere da un formicaio confrontato con ciò che sembravamo. L’animaletto che portavo addosso cercava qualcosa, che mi sembrò avesse dei tratti in comune con me: un bambino curioso. È quello che facevano in ogni luogo. Credevano che qualcuno avesse qualcosa di differente e lo cooptavano per se stessi. Questo sì, mancava ancora il peggio.
Gli anni dell’università li passai quasi senza soprassalti e il chitarrista mi aiutava in alcune cose, soprattutto nel suonare la chitarra, di modo che ebbi sempre qualcosa da fare nelle feste, oltre che ricordare la signorina Fisher e trovarle una qualche sostituta. Il peggio, dicevo, venne quando terminai.
Rinchiusero tutti quelli che avevano raccolto in un luogo molto segreto, blindato, per studiare. Non sapevamo bene che cosa, però c’era da studiare. In quegli anni compresi perché mio zio conosceva il nome dell’insetto conservato nella benzina. Lui era uno di noi.
Non ci misi un’eternità a rendermene conto, ovvio. Lo sospettai quando fui in età di abbandonare l’infanzia, ma ne ebbi la verifica diretta durante il viaggio verso un pianeta molto più vicino al centro della galassia che il nostro. Lì lo riconobbi per la sua maniera di assumere i costumi degli abitanti studiati per apprendere le conoscenze che avevano del tempo.
– Ti sei reso conto di quel che stanno cercando, no? – mi disse in modo che solo io potessi ascoltarlo. – Il tempo.
Mi venne un brivido, soprattutto perché capii che era lui. Non poteva essere un altro. Sotto la pelle di questi esseri, c’era il viaggiatore.
– Che ci fai qui? – gli dissi quando mi ripresi.
– Ti dispiace? Probabilmente lo stesso che fai tu. Ma te ne sei reso conto o no, nipote? Il chitarrista non c’è, puoi parlare tranquillamente.
– Non ho capito per quale ragione lo fanno, ma l’argomento di cui discutono è il tempo.
– Sì; ma non cercano qualunque cosa sul tempo. Sulla Terra abbiamo passato secoli a fare ricerche sul tempo, ma questi cercano un’altra cosa, qualcosa di più fondamentale. Cercano la macchina che li faccia viaggiare nel tempo, nipote. Ecco cosa cercano.
Restai senza parole. Dominavano la vita e la morte, ma il coleottero bugiardo voleva qualcosa di più. Voleva essere padrone del tempo e poter viaggiare dove nemmeno le sue doti di sospensione della morte lo potevano portare.
– È vero – confessò il coleottero rosso dietro di noi. – Abbiamo bisogno del tempo per vedere come sono gli universi paralleli, come fu il passato e come sarà il futuro. Ma, dal tempo che abbiamo impiegato a cercare, direi che nessuno ha ottenuto nulla. Solo pochi progressi, ma in sostanza nulla. Forse è una ricerca inutile.
– O forse quelli che ci sono riusciti non sono capaci di tornare o non vogliono farlo. Forse si sono resi conto di ciò che hanno commesso – diceva mio zio – e hanno paura di tornare nel loro tempo a vedere il disastro che hanno provocato con la loro invenzione. Non hanno la soluzione ai loro problemi, e nemmeno riescono a far sì che i loro prigionieri, noi, otteniamo un qualche risultato con questo. Il tempo si nega, gli altri universi sono sigillati, completamente sigillati. Bisogna rassegnarsi, è sigillato anche il nostro, signor chitarrista, non è un buon momento per apprenderlo, è evidente.
– Per me saperlo o no è lo stesso. La macchina del tempo può esistere come no, nel presente o nel futuro. Continuerò a cercare, ma sarebbe più salutare per voi – aggiunse l’insetto – che manteniate interesse nella ricerca, perché questo è l’obiettivo.
Riflettei su questo per tutto il viaggio di ritorno.
Che cosa sarebbe accaduto se qualcuno avesse scoperto come viaggiare nel tempo, dopo tutto? Io ritornavo sulla Terra dopo secoli, senza esagerare; era questo viaggiare nel tempo? Era lo stesso universo? Forse le leggi della fisica erano le stesse, ma le condizioni di sviluppo, no.  Forse nell’universo nel quale saremmo arrivati non ci sarebbero state le stesse guerre, gli stessi personaggi importanti, forse era stata evitata una peste nell’universo che avevo lasciato, e saremmo arrivati in un altro nel quale la peste si era propagata senza freno, lasciando tutto desolato per decenni e già nessuno avrebbe ricordato, o nessuno, nemmeno noi, avrebbe potuto sapere se il tempo era trascorso in modo omogeneo.
Quando arrivammo chiesi al coleottero che mi abbandonasse, che mi lasciasse essere mortale, volevo smettere questa ricerca inutile che mi aveva portato tanto lontano dal mio albero di limone, le pavoncelle del mio amico vicino, gli occhi celesti della mia maestra e il tanfo della mia collezione di insetti morti.
– Abbandonato al tempo, alla vecchiaia, all’oblio? – rispose alla mia richiesta.
– Sono deciso a vivere quello che mi resta fino alla morte – gli dissi senza smettere di guardare i pompon sulle sue antenne.
– Ti abbandono e muori in pochi anni, ti avviso.
La vecchiaia non è una montagna di tempo, ma uno stato di abbandono. La memoria è un insieme di circuiti che marciranno in poco tempo. Nessuno si ricorda di te, sono tutti cenere e presto non ricorderai nessuno. Sei sicuro?
Non ero mai stato tanto sicuro come in quell’istante, quindi il coleottero mi lasciò.
In quel momento vidi un albero di magnolia, dove tre begli esemplari di coleotteri con colori eccezionalmente belli e antenne con pompon rossi formavano un leggiadro triangolo. Ne presi uno con attenzione. Lo misi in un barattolo per conservarlo. Dovevo chiedere allo zio che tipo di coleottero è così rosso che sembra un diavolo di operetta, con uno scudo verde tanto grazioso.
(Traduzione dallo spagnolo di Giuliana Acanfora)

5 commenti:

  1. Salutiamo con grande piacere la presenza di Héctor sulle pagine di Pegasus e accogliamo con grande interesse il suo articolato, stupendo racconto. Magnifica, ancora una volta, la traduzione dallo spagnolo di Giuliana Acanfora.

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  2. Hola Héctor: como siempre, tu fantasía sin confines nos ha regalado un simpatiquísimo cuento y quién hubiera imaginado que se trataba de coleópteros extraterrestres.... !!! Un abrazo, Adriana

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  3. C'è una piacevole invasione su Pegasus di scrittori argentini. Molto bello il presente racconto.
    G.S.

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  4. Complimenti anche da parte mia, il racconto è lineare, scorrevole, con un atmosfera surreale che lascia intravvedere significati più profondi. Il coleottero che sembra un diavolo... il senso dell'inganno perpetrato, davvero affascinante.

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