martedì 22 ottobre 2013

NAUFRAGO DI SE STESSO di Sergio Gaut vel Hartman



Avevo vissuto in quel corpo per più di sessant’anni, per cui mi risultava molto difficile accettare il nuovo status, quello di un contenitore vuoto, che viene cestinato dopo l’uso.
– Che faranno con… lui? – Non sapevo come chiamarlo, eravamo stati una cosa sola per tanto tempo… Il biotecnico si strinse nelle spalle; sicuramente rispondeva alla stessa domanda più volte al giorno.
– Li mettiamo nel deposito degli usati. Eventualmente viene utilizzato qualche organo, anche se non credo sia questo il caso. Come andava il fegato?  Lei fumava?
– Vuole dire che li congelano? – Non solo non risposi alle domande dirette (di fatto le trovavo offensive): la mia ignoranza in materia accendeva una luce rossa. Avevo paura di sapere. Le immagini di freezer a forma di bara, impilati in magazzini senza luce, mi trafiggevano senza pietà fin dal giorno successivo al trasferimento.
– Congelarli? – L’uomo mi guardò, perplesso. – Perché ci dovremmo accollare questo lavoro? Li colleghiamo ai tubi e li lasciamo lì fino a quando si spegne la candela.
Si spegne la candela! Una metafora bella e spietata.
– Continuano a vivere – sospirai.
L’idea che il mio vecchio corpo marcisse in un deposito maleodorante mentre io iniziavo una nuova vita aveva qualcosa di malsano. In che razza di mostro mi sto convertendo? pensai.
– Vivere, proprio quel che si dice vivere… è azzardato. In linea di massima no, però le funzioni vegetative non si estinguono con il trasferimento; restano scintille di memoria e i ricordi d’infanzia non si cancellano del tutto. Sono abbastanza vivi, suppongo, sebbene, come lei sa, ufficialmente non sono persone.
– Abbastanza vivi – ripetei. – Come dire “un po’incinta”. Abbastanza per meritare rispetto, supporto, conforto e affetto?
– Lei è completamente pazzo! – esclamò il biotecnico. – Invece di godersi il nuovo corpo si affligge per la sorte di quello vecchio. Si attacca così a ogni bottiglia di coca cola che vuota? L’avviso che per questa strada non va da nessuna parte.
Inspirai profondamente e strinsi i pugni:
– Pensavo la stessa cosa fino a un momento fa, prima di rendermi conto che il mio vecchio corpo continua a vivere.
– Preferirebbe che lo uccidessimo? Perché, per quanto ne so, i corpi non muoiono senza l’aiuto di un cancro, o di un arresto cardiaco, o un edema, o un…
Lasciai il tipo a parlare da solo e mi persi nel dedalo dei corridoi di Korps. Camminai così per ore, riflettendo sulla seconda trasformazione cruciale della mia vita.
Avevo avuto bisogno di molti giorni per accettare il mio nuovo corpo e all’improvviso, quando iniziava a sembrarmi naturale avere trent’anni, qualcuno che avrebbe potuto essere mio nonno emergeva dal nulla per reclamare il pagamento di una fattura. Pagamento per cosa? Che cosa avevo rotto? Non ha diritto di esigere niente, considerai, ha vissuto abbastanza. E io vivrò finché non avrò voglia di morire.
Entrai nel deposito inavvertitamente e non scoprii la portata del mio errore fino a quando non fu troppo tardi per correggerlo. Quella che in un primo momento presi per la stanza dove venivano conservate attrezzature in disuso e mobilia danneggiata, risultò essere il luogo dei corpi scartati. Tutti loro - in maggioranza appartenenti a vecchi decrepiti, consumati da malattie visibili -giacevano su sdraio di tela, di faccia alla porta. C’erano cento, mille sdraio appena distinguibili nella penombra del deposito, disposte con indifferenza, preparate per un salto nel vuoto rimandato all’infinito. I volti, inariditi dalla sterile attesa, appena scossi da tremori, rivelavano il fluire del sangue. Ero caduto in mezzo a un incubo alieno.
Guardai con ripugnanza i tubi di plastica collegati alle trachee e le cannule infilate nelle vene degli avambracci. Quei resti sembravano fare forza per liberarsi dai legami, anche se non ci doveva essere nessun buon motivo per farlo. Anche in quelli i cui motivi di trasferimento non si dipingevano in macchie e rughe, si avvertiva la rassegnazione, un’apatica mitezza verso il mondo perduto.
Vinto il primo impulso di fuga, e disposto ad accettare il mio ruolo nel processo del cambiamento di corpo al quale mi ero sottoposto, cercai con lo sguardo quello che ero stato io. Mi era impossibile pensare a lui come a un altro, come qualcosa di separato, differente, estraneo. Forse per questa ragione tardai un’eternità a identificarlo; i miei occhi erano passati oltre, ciechi a quella sagoma inerte, indistinguibile dalle altre che popolavano il deposito.
Mi avvicinai lentamente, temendo che un movimento improvviso avrebbe potuto scatenare una marea di proteste, ma la verità fu che i corpi mi ignorarono e solo pochi manifestarono un sordo fastidio di fronte all’intrusione, muovendo le mani goffamente e ingarbugliandole nelle sonde. Alla fine, quando riuscì a scansare tutti gli ostacoli che mi separavano dal corpo e potei guardarlo faccia a faccia, ebbi un vuoto mentale.
Cercai invano di dirgli che mi dispiaceva, di elaborare qualche frase di discolpa. La rigidità del corpo, la sua serenità impassibile mi inibivano in modo tale che, con mio stupore, dovette essere lui a rompere il silenzio.
– Ti aspettavo – disse il mio ex corpo con voce debole.
– Mi aspettavi? – Non riuscivo a immaginarmi ad aspettare senza fede né sogni, al declino, colui che mi stava sottoponendo a quella sofferenza gratuita. Mi sentii anche in colpa perché la mia presenza lì era una pura casualità.
– Non sei venuto per caso – disse come se fosse capace di leggere nei miei pensieri – e non leggo i tuoi pensieri; in qualche modo continuiamo a essere la stessa persona.
Le parole restarono sospese, vibrando. Era chiaro che si sentiva più me di me stesso; era memoria, ma anche corpo, il corpo originale che mi aveva contenuto, condannato allo scarto per effetto di un gambetto* sinistro, di una giocata che lui, e non io, aveva architettato. Ma quando cercai di contrapporre questo ragionamento, le parole rifiutarono ostinatamente di essere pronunciate. Sapevo ciò che lui stava pensando; aveva aspettato, paziente, imperturbabile, per dimostrare che controllava il mio destino, che ancora adesso continuava a controllarlo. La scena assomigliava pericolosamente a un’altra, vissuta anni prima, quando i miei genitori decisero che dovevo dire addio a un nonno moribondo e sconosciuto. In quella circostanza il vecchio mi fece sentire che io ero responsabile della sua morte, che la mia oltraggiosa giovinezza faceva, in qualche modo, da starter alla sua dipartita.
Il grido lugubre di un altro corpo, serpeggiando rasoterra, venne in mio aiuto. È così che se ne vanno, pensai, con un gemito che si stira e si assottiglia mentre scoprono che questa volta non verranno salvati.
– Me ne andrò con un suono così – disse il mio primo corpo. – Tutti lo facciamo. È come la sirena di una nave che parte.
Nemmeno questa volta fui in grado di replicare. Chi è il naufrago? Per caso la nave è passata di fronte all’isola senza dare segnali?
Osservai i tubi di alimentazione che univano il corpo ai serbatoi e repressi il desiderio di strapparglieli. È preferibile affogare che attendere la salvezza senza speranze. Il mio ex corpo, ancora una volta, scoprì i miei pensieri.
– Forse il naufrago non sono io – disse.
– Io ho tutta la vita davanti – affermai. – Comincio di nuovo, no? – La fragile convinzione delle mie parole si rispecchiò in un gesto goffo e incompleto della mano, come una carezza che sfuma in un impeto di rabbia.
Lui, indifferente, si strinse nelle spalle e abbracciò con lo sguardo gli altri corpi che morivano intorno a noi.
– Cominciare di nuovo – disse, – ma non da zero. Quelli che vengono a congedarsi dal proprio corpo scartato portano sempre con sé le immagini che popolano questo deposito.
– È un rimprovero? – Provai un repentino disgusto per l’atteggiamento del mio vecchio corpo. Dove cercava di trascinarmi? Ero condannato: è questione di giorni, settimane al massimo, avevano detto i medici. Non avevo altra opzione che il trasferimento. Mi ero messo sulla difensiva; una rete invisibile ostacolava i miei ragionamenti, mi immobilizzava.
– Non eri obbligato a venire – disse il corpo. – Perché non godere direttamente della libertà, del corpo sano per la prima volta da tanto tempo? Sarebbe stata la cosa più logica. Però no. Hai sentito l’impulso di pagare il debito, per non avere niente da recriminarti in futuro. Mi sembra un’ottima cosa. Lo avrei fatto anch’io. – Le ultime parole misero allo scoperto un sarcasmo del quale ero sempre andato fiero. Sarei stato capace di conservarlo nella relazione con gli amici di tutta una vita? Come in un gioco: cominciavano a prospettarsi troppe opzioni e non era per niente chiaro il metodo che avrei usato per gestirle. Lasciare i miei ambiti, conoscere nuove persone, abbandonare il pianeta…
– Sono venuto per caso – ripetei sconfortato.
– Sì – acconsentì il mio ex corpo. Aveva perso interesse nella conversazione. O il dolore che sopportava senza darlo a vedere era ricomparso. Io conoscevo molto bene quel dolore. Ci fu un altro gemito. L’agonia circolava come una corrente elettrica tra i corpi. Questa volta il suono fu grigio, piatto, e si sfumò senza forze nell’atmosfera pesante del deposito.
Non c’era più niente. Più niente da dire. Più niente da fare. Più niente da pensare. Più niente da sentire. Era ora di uscire da quel luogo.
Ma non lo feci. Il mio corpo aveva accettato la mia mancanza di responsabilità con una parola vuota, adatta a smontare qualunque argomentazione futura. Fu tale la tensione creata da questo “sì” di compromesso, che fui in grado di spezzarla solo quando allungai la mano e gli toccai la guancia avvizzita con la punta delle dita. Il mio vecchio corpo sussultò, come se i polpastrelli avessero sprigionato una scarica elettrica.
– Che hai fatto? – disse spostando il viso, apprensivo.
– Niente. Cercavo di essere gentile, credo.
– Hai paura, molta paura.
L’accusa era seria, trascendeva la mera diagnosi. Ci furono due lamenti: uno basso, sinistro, l’altro acuto come il gorgheggio di un uccello. Ci sono molti modi di morire.
– Paura? Di che?
– Ci sono infiniti modi di morire – replicò il mio ex corpo usando le stesse parole in modo obliquo. Ignorai la sua osservazione. In ogni caso non sapevo più a cosa facevamo allusione nel nostro dialogo; avevo perso il filo, e forse anche l’interesse. Mi scoprii ipnotizzato dai colori dei tubi di plastica: rosso, blu, verde.
– Non sono io quello collegato ai tubi – dissi.
– Sono falsi – disse il corpo, – una finzione per impressionare i visitatori. Senza un’adeguata messa in scena, l’effetto sulla psiche del trasferito sarebbe debole, povero.
– Falsi? Pensavo che vi alimentassero attraverso i tubi.
– Lo fanno – replicò. – Sono falsi perché fa lo stesso che ci alimentino o che ci lascino morire di fame. Non usciremo di qui; hanno smesso di somministrarci le medicine ed entrano nel deposito solo per  raccogliere i cadaveri tre volte al giorno.
Era una crudeltà, ma non c’era altro modo di farlo. Glielo dissi.
– Non è possibile aspettare la morte del primo corpo; in quel caso il trasferimento non potrebbe essere effettuato.
– Certo, certo – disse il corpo con un tono in cui non si distingueva la tristezza dalla rabbia.
– Ora siamo come specie diverse. – Cercava febbrilmente una scusa per continuare a parlare, e ogni parola provocava l’effetto opposto a quello che si proponeva.
– È il prezzo del progresso. Prima la gente moriva e basta. Ora si violano le leggi della natura, si gioca con il fuoco.
– Non sono mai stato credente – esclami. – La vicinanza della morte ti fa desiderare la vita eterna?
– L’imminenza della morte mi ha costretto a trasferirmi, nulla più – replicò con astio. – O ti ha costretto… o ci ha costretto. Come vedi, questo non ha più importanza.
Un coro di gemiti si levò attorno alle ultime parole del mio ex corpo e finì per soffocarle. Le porte del deposito si aprirono, gli ausiliari entrarono, staccarono i tubi da una decina di cadaveri, li caricarono su una ridicola auto elettrica con movimenti grossolani e uscirono lasciando il luogo impregnato del loro disinteresse, in una drammatica mancanza di emozioni. Dopo alcuni minuti tornarono con una dozzina di corpi scartati in trasferimenti recenti e rifecero gli stessi movimenti in senso inverso. Per dozzine, come le uova.
– Non mi hanno visto – trovai a dire.
– Non sono interessati.
– Potrei essere un ladro, un maniaco.
– I nostri organi non servono neanche ai cani. Gli esperimenti biologici si fanno con la carne fresca, coltivata in cisterne; i corpi malati non servono a niente. ­– Si agitò nella sdraio, infastidito. Ebbi paura che morisse in quel momento. Lui lo avvertì. – Tranquillo – disse, prevenendomi ancora una volta. – C’è ancora tempo.
– Quanto? – La domanda, inaspettata perfino per me, lo commosse.
– Quanto? Non lo so. Ore, due giorni, una settimana, sei mesi. Chi può prevedere con quanta tenacia si aggrappa un corpo alla vita, persino un corpo spogliato della sua anima?
Io non mi sentivo l’anima di nessuno, meno che mai di quel corpo ostinato, sebbene dovetti riconoscere che parlava con saggezza. I medici erano stati tassativi su tutto ciò che si riferiva alla sopravvivenza nel mio vecchio corpo. Però i medici non hanno un dovere imprescindibile verso i pronostici. Qualcuno conosce un medico punito per aver sbagliato una previsione? La porta del deposito, chiusa dopo l’uscita degli ausiliari con il loro macabro carico, mi riportò al mondo reale. Il mio primo corpo guardava senza troppo interesse l’alone di luce e le particelle di polvere in sospensione. Il deposito piombava nell’oscurità. Mi era impossibile stabilire da quanto tempo mi trovavo lì dentro.
– Devo andare – dissi.
– È vero – disse lui.
– Prima che sia troppo tardi.
– La porta non è chiusa a chiave.
– Posso tornare.
– Dipende. E non da me. Se vuoi farlo…
– Voglio dire: ha senso se tu sarai ancora qui quando tornerò.
Si strinse nelle spalle, quasi sprezzante. – Forse sì, forse no. Chi lo sa? Sono Dio per conoscere l’istante esatto? Anche se i miei motivi per restare in vita sono esauriti, non ho il coraggio di finire con le mie mani quello che ho iniziato con la testa, quando ho deciso di trasferirmi. Forse mi aggrappo alla vita perché i corpi sono entità indipendenti, che agiscono per conto loro.
– I corpi agiscono per conto loro – ripetei scioccamente. – Potresti approfittare delle tue ultime ore per scrivere un trattato: Teoria della Ragione Vegetativa.
– I corpi agiscono per conto loro – ripeté ancora una volta. – Il tuo corpo lo sta facendo in questo stesso momento. Perché non te ne vai una volta per tutte? – Sputò le parole con rabbia, sfidandomi.
– Non sono una bestia; posso aspettare finché non ti calmi.
– Scuse, pretesti – disse lui. – Le tue ragioni per restare in questo luogo, accanto a me, aspettando la mia morte, non hanno alcun valore. Ti sei trasferito per liberarti di me, non per farti carico di me. Non sono tuo padre invalido. Vedi altri a fare questo? I corpi muoiono soli; è giusto che sia così. – La voce del mio ex corpo si era fatta via via più acuta nella misura in cui l’enfasi del discorso lo assorbiva. Questo rese molto marcato il contrasto con l’ultimo sospiro di uno che lasciava la vita a pochi passi da noi.
– Non so comportarmi diversamente – dissi senza convinzione. – Posso aspettare ancora qualche minuto. Ho capito che siamo parte di un tutto indivisibile, e che il mio dovere sarà piangerti, provare dolore per te.
– Che patetico! Ma apprezzo il tuo gesto, anche se sappiamo entrambi che non serve a niente.
Chinai la testa. Il suolo del deposito era pieno di polvere ed escrementi dappertutto, tranne dove i corpi scartati muovevano impazienti i piedi. Lì il pavimento era lucido e l’oscurità lottava per vincere la battaglia contro i luccichii furtivi che si levavano da fonti invisibili. Iniziai ad aspettare, ansioso, la seguente ronda degli ausiliari. Feci un calcolo mentale dei morti e cercai di stabilire delle regole di frequenza basandomi sui gemiti, ma desistetti subito scoraggiato, pessimista. Trovavo ogni volta più difficile capire i motivi della mia permanenza in quel luogo, e della mia incapacità di uscire, semplicemente uscire. Ero in una trappola che io stesso avevo costruito e innescato. Il corpo captò il mio stato d’animo e cercò di venire in mio aiuto.
– Non penso di morire oggi.
– Potrei tornare domani – dissi stupidamente.
– È una buona idea. Ma non so nemmeno se succederà domani. Forse non ne vale la pena.
L’alone di luce si stava spegnendo, per cui il deposito era già sommerso in un mare di oscurità. I punti di riferimento erano scomparsi e avrei potuto trovarmi allo stesso modo nel deposito dei corpi scartati come nel cuore di un incubo. Mi feci coraggio, pensando che era possibile svegliarsi anche dal peggiore degli incubi, ma la voce rotta del mio primo corpo mi riportò alla realtà.
– …vai avanti in direzione del tuo naso…
Adesso o mai più. Mi incamminai, e prima di aver fatto il terzo passo, la collera di un corpo urtato nel cammino mi dimostrò che non sarebbe stato un compito semplice.
– Stupido! Guardi dove cammina e porti rispetto a quelli che stanno morendo.
– Mi scusi. Voglio uscire da questo posto.
– Uscire?  – disse; il corpo rise in modo offensivo. – Da qui si esce solo morti.
Era la conferma di quello che avevo iniziato a sospettare: la trappola, che funzionava in modo efficace, mi lasciava dal lato sbagliato.
– Sono un recente trasferito – dissi. – Sono venuto a congedarmi. – Cercai di afferrare con le mani il moribondo, ma questo mi sfuggì, beffardo. Quando parlò di nuovo seppi che non era lo stesso, che un altro occupava il suo posto. Il gioco cominciava a svegliare l’interesse dei condannati.
– Il mio trasferito non è venuto a dirmi addio. Disgraziato. Lasciarmi solo in queste circostanze così dolorose…
– Il mio firmò un’autorizzazione perché mi iniettassero qualcosa per accelerare la faccenda – disse un altro. Un grido stonato spezzò una nuova protesta. I gemiti e i lamenti sgorgavano ora da tutti gli angoli del deposito; i vecchi corpi morivano intorno a me, o fingevano di farlo per mortificarmi.
– A che serve? – ululò una voce femminile. – Ci rende diversi, ci migliora in qualche modo? Se quella cagna venisse a dirmi addio…
– Se ne pentirebbe!– completò un coro alterato. I corpi scartati si dondolavano nelle sdraio di tela producendo suoni di consistenza ruvida, minuscoli rantoli di legno e polvere; il silenzio rotto si era diffuso per tutta la grandezza del deposito riflettendo immagini cieche della morte, la morte vera, la morte certa e assoluta, quella che non possiamo sfuggire come artificiosi saltimbanchi che cambiano il guscio.
– Dove devo andare? – implorai. – Non vedo l’uscita.
– Avanti, con decisione – insistette il mio primo corpo. – Calpestando senza scrupoli, tanto moriremo in ogni caso.
Mi lanciai con furia, ciecamente, ma la reazione dei corpi non si fece attendere. Probabilmente seguendo un impulso illogico si erano alzati dalle sdraio e mi circondavano, bloccandomi il passo. Sentii la pressione di qualcosa di duro, metallico, che cercava la mia carne e la ferocia di una dentatura incompleta che mi mordeva il braccio mentre, persa la moderazione, sferravo pugni in tutte le direzioni. Era inutile: il percorso verso l’uscita, al buio e assediato da corpi senza futuro, mi era precluso.
Seguì un istante di ricordi confusi. Forse caddi, fui calpestato dai corpi inferociti, ricevetti un colpo in testa. O forse no. È impossibile ricostruire gli eventi che mi hanno condotto alla situazione attuale. Ho solo la certezza di un risveglio nell’oscurità e nel silenzio del deposito; dei tubi di plastica che mi collegano a sostanze nutritive; delle centinaia di corpi scartati che mi circondano.
– Era l’unica cosa da fare – dice una voce familiare molto vicina, nascosta nelle pieghe dell’ombra. – Era in garanzia. Anche se nessuna delle ferite è stata mortale.
– Non voglio la tua compassione – lo interrompo. – Ti voglio fuori di qui prima che sia troppo tardi.
­– Ho bisogno che chiariamo alcune cose – dice.
– Non c’è niente da chiarire – replico. – È pericoloso. – Riesco a vederlo per la prima volta: siamo identici, ovviamente, lo stesso modello di corpo. – Solo una domanda: il primo corpo… è morto?
– Sono qui – risponde il primo corpo con la voce piena di crepe, da qualche posto vicino, sulla mia destra.
– Ogni cosa al suo posto, allora.
Mi sollevo affinché il nuovo corpo sappia che mi rivolgo a lui. – Ora conterò fino a dieci e quando avrò finito sarai fuori da questo posto di merda, a vivere la tua vita, la nostra vita.
Scuote la testa, ostinato. Capisco che la trappola è di nuovo innescata e chissà quanti ancora di noi vi cadranno dentro prima di imparare il trucco che permetterà di eluderla.
– Sembra – dice il corpo originale alzando la voce sopra quell’atmosfera carica di marciume – che colui che ha scritto il nostro finale si rifiuti di cambiare una sola riga.
– Forse è un greco – replico con ironia, – uno che ama pensare al Destino con la D maiuscola.
– Di cosa state parlando? – dice il corpo nuovo, sconcertato. – Vi prendete gioco di me? Ricambiate così la mia cortesia? In ogni caso mi fermerò finché non avrò ottenuto delle risposte. Non ho bisogno di spiegarvi…
Smetto di ascoltare le sue parole, anche se continuo a sentirle, mescolate con il ronzio delle macchine e con il battito dei cuori dei corpi. Mi costa immaginare che le ferite abbiano costretto a realizzare un secondo trasferimento in così poco tempo, per cui inizio a ispezionare il corpo con cautela, minuziosamente. Una brutta cucitura mi attraversa il petto e, a tastarla, scopro un dolore acuto al fianco sinistro. Così tanto mi hanno danneggiato i quasi morti? Korps, per difendere la propria reputazione, ha attuato di ufficio e il nuovo corpo conferma il procedimento al risveglio. Non fa una piega. Niente è gratis.
Si apre la porta ed entrano gli ausiliari. Stranamente non ci sono corpi senza vita, per cui vacillano alcuni secondi, in bilico tra i due mondi, ma non tardano a riprendere la loro routine, portando nuovi corpi scartati tra quelli che si trovano già sulle sdraio di tela e collegando i tubi di plastica alle vene dei poveri disgraziati.
– Portatelo via! – urlo con tutta la mia voce. – Non deve stare qui. – Il dolore si intensifica, perdo forze; le mie grida escono soffocate, sorde, incapaci di raggiungere il loro obiettivo.
– Non fanno caso agli scartati – dice il mio primo corpo.
– Risparmiate le forze – dice il corpo nuovo. – Vi tirerò fuori da questo porcile. I miei ex corpi non sono spazzatura.
– Siamo spazzatura – dice il primo corpo.
– Ti supplico: esci! Prima che sia tardi. Vai fuori! – Suona melodrammatico, ma non mi viene in mente un altro modo di farlo reagire. – Resterai intrappolato, prigioniero, come noi…
Il corpo nuovo si spaventa. Gli ausiliari hanno chiuso la porta e il deposito resta in penombra ancora una volta. Nella oscurità crescente i gemiti di tutti noi, corpi scartati, e le proteste del recente trasferito si mescolano fino a farsi indistinguibili.
(Traduzione dallo spagnolo di Giuliana Acanfora)

* Il gambetto è un'apertura di scacchi caratterizzata dal sacrificio di uno o più pedoni, nella prima fase della partita, in cambio del guadagno di spazio e tempi per lo sviluppo. 
 

7 commenti:

  1. Bellissimo racconto quello di Sergio, cui diamo un caloroso benvenuto sulle pagine di Pegasus Sf.

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  2. Un po' lungo ma bello e molto ben scritto.
    G. S.

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    1. Racconto di ampio respiro, ben scritto. Presenta un argomento affascinante, che tra l'altro è messo bene in luce dal lungo colloquio, dai risvolti filosofici, tra il protagonista e il suo vecchio corpo.

      Giuseppe Novellino

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  3. Mi sento molto onorato di essere pubblicato nel PEGASUS SF. Spero che sia la prima di molte collaborazioni.

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  4. Onorati siamo noi di pubblicare i tuoi racconti interessanti, caro Sergio. Speriamo davvero di poterti pubblicare ancora, soprattutto per il piacere dei lettori. Grazie.

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  5. Un racconto molto interessante. Piaciuto molto.

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  6. A quanto pare non si riesce proprio a sfuggire a se stessi... e io che mi ero illuso!
    Molto interessante la riflessione sull'arbitrarietà della concezione dualistica corpo/anima.

    Sauro Nieddu

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